Miti, per parlare di noi
Il pessimismo delle distopie comincia a sembrarci rassicurante. Guardare catastrofi, apocalissi, universi post-umani ci conferma nelle nostre angosce, ci dimostra che sì, quello che temiamo accadrà, sta già accadendo. La letteratura, il cinema, le serie tv degli ultimi anni ci hanno restituito – per mimesi o per metafora – infinite immagini di un pianeta senza più risorse, sempre sul punto di disintegrarsi, senz’altro non più disposto a tollerare l’umano e le sue malefatte. Il teatro, naturalmente, non si è sottratto alla tendenza generale, con il solito limite di avere ben meno risorse di altri media. I risultati, per lo più, non sono stati memorabili; sono prevalse scritture a tesi, tutte volte a ricordarci che lo sfacelo è colpa nostra, e che tuttavia stiamo continuando imperterriti a non fare niente (dalla platea abbiamo applaudito, indignati, proseguendo a non fare niente).
Le opere e i giorni (Works and Days) del collettivo fiammingo FC Bergman – alla sua prima italiana al Piccolo Teatro di Milano, poi a Torino nei prossimi giorni – è una felicissima eccezione per almeno due ragioni: il nostro rapporto con la natura e il pianeta viene scandagliato senza eccessivi moralismi e persino con ironia, nel dialogo con un’opera lontana come quella di Esiodo; la partitura di immagini è così tanto suggestiva che, in platea, si comincia a pregare che alla catastrofe climatica possa sopravvivere almeno qualche artista ispirato.
Intendiamoci: il collettivo (fondato da Stef Aerts, Joé Agemans, Thomas Verstraeten e Marie Vinck) è una delle formazioni più interessanti d’Europa, per la capacità di muoversi con gusto, inventiva e rigore tra teatro e arte visiva. Il “New York Times” ha collocato un loro spettacolo (300 el x 50 el x 30 el) tra i migliori del 2022, e La Biennale di Venezia li ha premiati nel 2023 con il Leone d’Argento. Si esce dagli spettacoli di FC Bergman con gli occhi bambini ancora pieni di meraviglia, masticando qualche lamentela sul fatto che difficilmente una compagnia nostrana avrebbe le possibilità economiche e pratiche per pensare così in grande. Qualche esempio tra gli spettacoli passati per l’Italia: in Het Land Nod viene ricostruita in scala reale (10 metri di altezza e 28 di lunghezza) un’intera sala del Museo Reale di Belle Arti di Anversa, per poi venire distrutta sotto gli occhi del pubblico nel tentativo di far uscire dalla porta una crocifissione di Rubens. All’apertura di The Sheep song (nel 2022 a Milano, nel cartellone del festival “Presente Indicativo”) un intero gregge di vere pecore pascola sul palco. Tra gli animali si nasconde il protagonista, una pecora-uomo pronta ad attraversare una lunga e suggestiva favola di formazione, tra tapis roulant, tableaux vivants e impeccabili coreografie d’insieme.

Anche Le opere e i giorni potrebbe essere raccontato come una sequenza di quadri folgoranti che si depositano nella memoria dello spettatore come tele d’artista: un aratro attraversa il palcoscenico imprimendo un visibile solco sulla terra; un vecchio e una bambina, per mano, compiono in un giro di palcoscenico l’arco di una intera vita; un gruppo di corpi nudi se ne sta in adorazione erotica del primo congegno a vapore della storia dell’uomo; una donna trascina a fatica una macchina agricola sotto la pioggia. La drammaturgia, completamente priva di parole, sembra ricostruire le tappe della storia dell’umanità, evocando il passaggio dallo stato di natura all’agricoltura, attraverso la prima rivoluzione industriale, fino alle iper-tecnologie dell’oggi. Il testo di Esiodo – dichiarato fin dal titolo come fonte di ispirazione, ma riferimento non indispensabile per l’osservatore – ha la efficace funzione di creare una distanza critica dalla materia attualissima, e permette di sottolineare come l’attitudine dell’uomo sia, in fondo, rimasta invariata nei secoli. C’è, in particolare, un elemento esiodeo che gli FC Bergman hanno profondamente inteso e integrato, pur senza dichiararlo: la centralità di Eris, una di quelle parole greche che è difficile tradurre in italiano senza perdere complessità. Eris è il conflitto, la discordia, l’invidia, ma anche il pungolo a progredire e a migliorarsi, è motore di emancipazione e germe di autodistruzione: Esiodo, significativamente, la associa al lavoro, dono e condanna per il genere umano, proprio come le fiammelle prometeiche del progresso che a un certo punto dello spettacolo si dischiudono tra le mani dei performer. L’essere umano è deinos, magnifico e terribile, dirà Sofocle qualche tempo più tardi di Esiodo: la medesima visione – pessimistica ma non giudicante, amorosa e lucida insieme – si sprigiona dall’arcaica e ipercontemporanea drammaturgia di queste Opere e i giorni.

All’uscita, mi sono fermata a discutere animatamente sull’interpretazione della sequenza finale (che qui non svelerò) con un gruppo di amici. “Non lascia nessuna speranza per il genere umano”, diceva qualcuno; “è invece l’inizio dell’Età dell’Oro!”, diceva qualcun altro, cercando di argomentare come le ultime immagini aprissero alla possibilità di una nuova collaborazione non antropocentrica con la tecnologia. Mentre li ascoltavo, mi rendevo conto che parlavamo di noi e delle nostre paure nell’unico modo in cui è possibile farlo davvero: parlando, apparentemente, di favole, di miti, di arte.
L’ultima fotografia è di Kurt Van der Elst.
