Efraim Medina Reyes. Quello che ancora non sai del Pesce Ghiaccio

8 Gennaio 2014

Nel centro storico di Città Immobile – Cartagena de Indias, Colombia, se proprio non si può fare a meno di una geografia plausibile dove potere inquadrare le misteriose “morti per combustione spontanea” (attentati intimidatori? Ma no, figuriamoci!) – tra le facciate degli antichi palazzi coloniali frazionati dai capitali stranieri e convertiti in hotel, boutique e ristoranti di lusso, c’è il Pesce Ghiaccio Bar Club, convincente scenario che è il punto di partenza del trascinante intreccio proteiforme dell’ultimo romanzo di Efraim Medina Reyes Quello che ancora non sai del Pesce Ghiaccio (Feltrinelli, traduzione di Gina Maneri).

 

 

Ex residenza di una famiglia ebrea di gran riguardo passata a venditori di giocattoli francesi, il posto è finito nelle mani di un cocainomane italiano eccessivo e permaloso che lo ha trasformato in un locale notturno dove “le cameriere, in minigonna, sono truccate pesantemente e la musica [...] spazia dal vetusto bolero al crepuscolare danzón” (p. 56). Una porticina in compensato e un orologio a pendolo fermo alle 3:45 non lasciano dubbi: Castello di Atlante, Grotta di Merlino e Paese delle Meraviglie, il Pesce Ghiaccio, con i suoi giochi illusionistici e le fantasie delle menti umane che vi bighellonano, è un antro senza limiti i cui vani sentieri attraggono il protagonista, un quasi-ventottenne dalla salute cagionevole e dai capelli indomiti che, al calar del sole, gironzola cercando di registrare il maggior numero possibile di conversazioni. Del resto, si sa: sono le ore piccole a mettere a proprio agio quel tipo di persone che, al quarto rhum, sciorinano perle di comicità e orrore.

Teo ha delle doti naturali per la Stand-up comedy e pare aver preso Bob Dylan alla lettera quando, nel 1981, cantava “Lenny Bruce is dead but his ghost lives on and on/[...] he was the brother that you never had”. Così, quando non è alla ricerca della battuta definitiva in luoghi equivoci, Teo vive rinchiuso nella sua stanza, al riparo dagli agenti atmosferici che aggraverebbero la malattia cronica di cui soffre, e si confronta costantemente con la biografia e le capacità artistiche dell’autore e cabarettista statunitense. Ingolla integratori alimentari mentre elabora mentalmente monologhi comici che possano essere all’altezza del suo santo protettore, morto a Hollywood nel 1966 dopo avere collezionato una quantità spaventosa di querele e di denunce per oscenità.

“Trasformerò tutto questo in un esercizio comico di frammentazione” (p. 51) dice a Lena, fatale libera professionista che gli ha sconquassato l’esistenza e, nel dichiararlo, rinnova la tradizione delle infinite possibilità espressive del paradosso e delle invenzioni autoironiche con cui accerchia la realtà per interpretarla deformandola. Così, attraverso le disinibite ossessioni di Teo, prende forma una profonda riflessione sull’allucinazione letteraria come smascheramento dell’illusione comica della fattualità, puntualmente contraddetta dall’errore ottico del protagonista. Non a caso Teo soffre di una donchisciottesca inclinazione per le distorsioni che molti pediatri, anni addietro, hanno confuso per uno strano problema alla vista.

Inibendo la beffa della “baldoria dei tropici, l’allegria a prova di bomba” di una delle località turistiche più celebri del mondo, dove “i turisti amano vedere i nativi ballare e ubriacarsi all’aperto” (p. 114), Medina accompagna sicuro il lettore per le vie scoscese d’un vaneggiare insonne che sfreccia oltre le linee dello smascheramento. Senza cinture di sicurezza, perché nell’aggressione comica risiede la sconfessione tragica, in cui l’eroe inserisce le sue peculiari riflessioni sulla sconfitta: sa che non può cambiare il destino, allora lo travisa, perché il comico sbaglia per mestiere e, sbagliando, accoglie la possibilità del dialogo. In questo senso, la scelta di uno stile valutativo (il romanzo è disseminato di giudizi di carattere etico, estetico, ideologico), per nulla semplice da gestire sulla carta stampata, risulta riuscitissima, perché invalidata a priori, nella demolizione parodica del suo ergersi a ideale di saggezza. Sicché l’aforisma non basta più a se stesso, al contrario, diventa unità minima di interpolazioni narrative che, risiedendo nella dimensione letteraria, paiono prese a prestito dalle migliori gags. Un esempio: lo scanzonato cammeo della tragicomica vicenda del “sommo sacerdote del sabor, l’anima della festa, lo spirito di Babalao, di Agayu Solà e di tutti i demoni ballerini, l’angelo della vitalità”, (p. 338), vale a dire il ricovero in ospedale del leggendario cantante Joe Arroyo, dato per morto e poi resuscitato.

Il dialogo è presente anche come continuo processo di orientamento reciproco tra le voci dei personaggi e i sistemi di valori che essi rappresentano, perché il romanzo brulica di comprimari credibili, dall’ascensorista enigmatico, all’amico che se la dà da giornalista engagé, dal napoletano irascibile al suo amante cinese isterico. Inoltre, un discorso a parte meriterebbero i personaggi femminili, su tutti la madre del protagonista, ex cantante alla quale l’autore affida il difficile compito di incarnare il senso comune, compito che il personaggio assolve con una grazia inconsueta. Ed è con uno stralcio delle parole di Teo ad essa dedicate che si vuole chiudere questa nota:

“La mamma possiede tre o quattro vestiti a fiorellini viola ed è certa di vivere nella quintessenza della realtà. Con le amiche della sua infanzia Carmen e Aída è capace di parlare con scioltezza di argomenti scottanti e persino di mettere in evidenza le bugie e le contraddizioni in cui cadono spesso alcuni editorialisti, senza per questo criticarli. Al massimo si permette una piccola rimostranza, come se invece di prendere in giro l’opinione pubblica si fossero dimenticati di salare il riso” (p. 90).

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