Errante, erratica. Ritratto di Diamela Eltit

5 Dicembre 2022

L’autrice cilena Diamela Eltit è tra i nomi più importanti del panorama letterario continentale latinoamericano. Tra i tanti riconoscimenti internazionali ricevuti, nel 2021 vince il prestigioso Premio FIL de Literatura en Lenguas Romances, che quest’anno è stato assegnato a Mircea Cărtărescu. Si deve la rinnovata attenzione in Italia per la voce di Eltit alla recente pubblicazione di tre delle opere che compongono la sua pluridecennale produzione letteraria. Si tratta di Manodopera (2020, Alessandro Polidoro Editore), tradotto da Laura Scarabelli, che con questo testo ha vinto, nel 2021, il Premio IILA per la migliore traduzione italiana; Mai e poi mai il fuoco (2021, gran vía), tradotto da Raul Schenardi; Errante, erratica. Pensare il limite tra letteratura, arte e politica (2022, Mimesis). Quest’ultimo è un’edizione critica di saggi di Diamela Eltit selezionati e tradotti da Scarabelli, che è la curatrice del volume e la direttrice, insieme a Emilia Perassi, della collana di saggistica Idee d’America Latina, di cui Errante, erratica fa parte. A questi titoli se ne aggiunge un altro, la cui comparsa in Italia anticipa di qualche anno i tre appena elencati: Imposta alla carne (2013, Atmosphere libri), tradotto da Natalia Cancellieri. 

È doveroso segnalare la presenza, sia in Imposta alla carne sia in Manodopera, di un saggio conclusivo a firma di Scarabelli, perché è proprio grazie al saliente lavoro di interpretazione dell’universo narrativo e della scrittura di Eltit da parte della studiosa, nonché della sua scrupolosità, la stessa di Schenardi e di Cancellieri, nella resa dallo spagnolo, che è possibile accostarsi alla prosa e al pensiero critico della scrittrice cilena attraverso la lettura di questo circoscritto corpus in italiano che invoglia a sperare nel suo ampliamento. Grazie ad esso si accede alla complessità di una figura intellettuale e artistica che, muovendosi in vari ambiti, dall’arte visuale alla scrittura narrativa e saggistica, dall’insegnamento all’impegno civile e politico, corse sistematicamente il rischio di non sottrarsi alla propria epoca, facendo, al contrario, del qui e ora l’osservatorio privilegiato di quella gravosa circostanza che è il contemporaneo. 

Poco più che ventenne, Eltit fronteggiò, sotto il segno dell’attivismo e nel solco delle esperienze avanguardiste, quella porzione di mondo che toccò in sorte alla sua giovinezza, il Cile di Pinochet, attraverso la militanza nel gruppo CADA, che fondò con il poeta Raúl Zurita (di cui Edicola Ediciones ha recentemente pubblicato INRI, tradotto da Amaranta Sbardella), il sociologo Fernando Balcells e gli artisti visuali Lotty Rosenfeld e Juan Castillo. Il Colectivo Acciones de Arte, fondato nel 1979, si prefisse di intervenire attivamente nella riarticolazione simbolica dello spazio pubblico, “con l’obiettivo”, come racconta Eltit in “Corpo, politica e scrittura”, una delle quattro sezioni (la più nutrita e forse la più avvincente) che compongono Errante, erratica, “di orientare la riformulazione di un discorso artistico e generare un insieme di pratiche capaci di forzare le maglie della relazione tra arte, politica e città”, perché “[…] la vita pubblica era stata fatta a pezzi, attraversata da severe inibizioni che impedivano la creazione di una cittadinanza eterogenea” (Errante, erratica, p. 169 e p. 154). 

Sotto i colpi della guerra psicologica di un regime del terrore dedito al disciplinamento della società civile e a politiche economiche predatorie volte a innestare in Cile, come afferma Eltit, “un radicale neoliberismo privatizzante”, Santiago, la capitale, sfregiata dalla presenza dei militari, divenne, nelle azioni-performance del gruppo, corpo e oggetto attivo di una riappropriazione semantica atta a ridefinire i confini di un futuro violato da raccontare e rivendicare, di nuovo e sempre, nello strenuo tentativo di liberare quote di spazio sociale dai calcoli delle politiche di disgregazione. Celebre fu l’azione d’arte “NO+”, che è raccontata in “CADA: arte, città e politica” (Errante, erratica, pp. 169 – 176), a cui si rimanda anche per la successiva fortuna del lemma, che nel 2011 venne ripreso dal movimento sociale studentesco cileno. 

Negli anni successivi al suo impegno nel collettivo CADA, che cessò di operare nel 1985, la dedizione di Eltit alla scrittura, con la quale anche oggi continua ad avere un rapporto privilegiato rispetto ad altre forme espressive, divenne totalizzante: alla sua prima pubblicazione, il romanzo Lumpérica, del 1983, farà seguito un costante susseguirsi di titoli, tra cui i romanzi Manodopera, Mai e poi mai il fuoco e Imposta alla carne, originariamente pubblicati nel 2002, nel 2007 e nel 2010. Attraverso lo spazio materiale e simbolico della pagina scritta, Diamela Eltit consegna ai propri lettori il risultato di un intenso lavorìo linguistico, teorico e politico sempre in divenire, che è, in definitiva, il resoconto di un’instancabile resistenza molecolare. Fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, infatti, quella di Eltit è la parola-veicolo di un sentimento di non adesione psicologica, culturale e politica a tutto ciò che accondiscende alle molteplici forme di prevaricazione perpetrate ai danni di chi ha sperimentato, o continua a sperimentare, sulla propria pelle, l’iniquità e l’oppressione. Le voci deteriorate ma non vinte che prendono la parola nei suoi libri raccontano modi del resistere prima all’aggressione indiscriminata del regime dittatoriale e poi alle dinamiche di esclusione operanti nella postdittatura, che, “governata dall’incrollabile verità neoliberale, condusse all’elitarizzazione dei rappresentanti del parlamento, generando una distanza sempre più grande con gli scenari dei loro rappresentati” (Errante, erratica, p. 73). 

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Nelle pagine di narrativa finora tradotte in italiano, il lungo Novecento di Eltit è un mantice che si allarga seguendo la storia politica e sociale cilena dall’Indipendenza fino al primo decennio del nostro secolo, per poi contrarsi nel circuito chiuso del trauma. Dal movimento di contrazione e di apertura in atto nei suoi congegni narrativi emerge la complessità della reale esperienza delle persone, le cui vicende sono spesso lontane dalla narrazione pubblica, perciò dissonanti; Diamela Eltit ne mostra anche tutto il pesante portato psicologico con espedienti formali mutuati dalle avanguardie e rielaborati attraverso una personale declinazione dello sperimentalismo mai fine a sé stesso. I personaggi di Eltit sono figure indocili che portano i segni di una menomazione: appartenenti alla frangia della cosiddetta alterità radicale, tutti a loro modo (auto)isolati dal corpo sociale, sono frutti guastati dall’esposizione all’intemperie della dottrina della sicurezza nazionale e del suo sistema custodialistico-punitivo: sofferenza, prevaricazione e senso del sospetto. Nella realtà rappresentata da Diamela Eltit, il modello coercitivo finisce per intaccare anche il sistema di produzione neoliberale: in assenza dello stato sociale, la morsa dell’economia del debito impone le sue regole trasformandole subdolamente in valori sui quali si incardina la convivenza civile, che diventa “una battaglia meramente economica” (Manodopera, p. 139) per la sopravvivenza. Alla remissività e al quieto vivere, i personaggi di Eltit contrappongono l’uso della parola interrotta e l’esposizione del corpo che porta i segni della violenta impossibilità materiale di avere una vita dignitosamente decente. 

Coinvolti, loro malgrado, nell’ipnotica gara di resistenza che si ripete ogni mese, al cui arrivo c’è in palio un salario scabrosamente magro (Manodopera), inceppati dal trauma collettivo di una dittatura senza fine, di cui rimangono gli strascichi, come l’impressione perenne dello stato di emergenza (Mai e poi mai il fuoco), disposte persino a negare la necessità degli organi vitali per la costruzione di una patria fuori dalla patria (Imposta alla carne), i personaggi di Eltit sono ectoplasmi dissidenti “[…] intrappolati in un’allucinazione” (Manodopera, p. 148) e non di rado si spingono nei territori della psicosi. Diamela Eltit li colloca in spazi preferibilmente chiusi: le corsie di un supermercato e un appartamento in condivisione (Manodopera), la camera in cui vive una coppia di ex militanti (Mai e poi mai il fuoco), l’ospedale in cui una donna, insieme alla madre, si sottopone agli esperimenti di uno squadrone di dottori sanguinari (Imposta alla carne). In questi luoghi l’inabissamento della coscienza non porta all’annientamento del sé, ma, all’opposto, all’inasprirsi della lotta per un futuro che ancora li riguarda. Ecco perché la camera, la casa o la corsia, più che gabbia o rifugio, è parlatorio: da qui, nel cuore del conflitto, lo stesso luogo da cui ha parlato il poeta César Vallejo (1892 - 1938), i cui dolorosi versi hanno ispirato il titolo Mai e poi mai il fuoco, donne e uomini (ma soprattutto donne), estenuati ma non inerti, incendiati ma non esauriti, raccontano: “Scriverò con la voce di mia madre conficcata nei reni o attaccata al mio polmone più integro. Scriverò il memoriale dello svilimento” (Imposta alla carne, p. 140). 

L’azione igienica dell’intervento militare contro le devianze e quel “nazionalismo ultrapatriottico” che comportò una drastica separazione in due fazioni, “noi e loro” (Errante, erratica, p. 162), facendo dell’anticomunismo uno dei principi non negoziabili alla base del nuovo ordine instaurato dalla giunta militare, hanno forgiato le paure e lo sguardo sul mondo di questi personaggi, di cui, in questo senso, la coppia-cellula di Mai e poi mai il fuoco è l’emblema. I due sembrano abitare in un bunker antiatomico, perché là fuori, nel frattempo, vale a dire durante gli anni che sono trascorsi dalla loro giovinezza politicamente attiva, qualcosa è successo che ha reso impossibile fidarsi del prossimo. L’esterno, quindi, è una pericolosa parentesi legata al necessario sostentamento, cui provvede la donna, mentre il compagno giace debilitato da una malattia cui non è mai dato un nome. Tuttavia, i continui accenni, da parte della donna, alla sofferenza fisica del compagno (dolori articolari, reumatismi, fratture?) marcano semanticamente la sfera dell’invalidità, che diventa la traccia patente di un deliberato esercizio di montaggio altrui sulle ossa delle persone divenute oggetti e materiale di tale montaggio. La presa diretta sulla parola dell’uomo allettato è assente, ma la sua voce compare nei pensieri della donna, cui la narrazione affida tutta la sua spinta centripeta. La stanza si gonfia di presenze e di spettri che appartengono al passato delle loro vite spese nella clandestinità delle forze irregolari, per poi sgonfiarsi nella solitudine di un soliloquio muto che non cede mai il punto di vista a queste presenze. Chi può entrarvi, redarguendola anche – “Dimmi, dimmi, ti domando. Non cominciare, piantala, dormi, mi rispondi” (Mai e poi mai il fuoco, p. 11) – è soltanto lui, con cui ha condiviso, in tempo di sparizioni e di morte, il sentimento del possibile.  

Il soliloquio muto permette a queste figure di rimanere in silenzio e al contempo dire tutto, senza emettere suoni e senza che vi sia la mediazione di alcun narratore esterno ed estraneo alle vicende. Come gli allettati in ospedale, debilitati e lucidissimi, di cui la madre e la figlia di Imposta alla carne sono le più nobili ambasciatrici – “[…] donne che a forza di resistere e resistere sono diventate due spaventapasseri piantati in un campo vulcanico” (Imposta alla carne, p. 140) –, come i reduci e i dispersi – “Noi, gli ultimi sopravvissuti” (Manodopera, p. 146) che “Siamo rimasti, in grande misura, clandestini” (Mai e poi mai il fuoco, p. 30) –, essi riferiscono la loro verità nel silenzio. Senza indirizzarsi a nessuno e rivolgendosi a tutti, rimuginano ma non ne vengono a capo, soli: fanno venire in mente Primo Levi, o meglio, Mendel, che in una delle prime pagine di Se non ora, quando?, afferma: “[…] perché un disperso è meglio se non parla: può solo parlare a un altro disperso”. I dispersi di Diamela Eltit, figure indocili di un secolo lunghissimo, è bene che parlino, perché noi li vogliamo ascoltare, in silenzio, un “[…] silenzio rigoroso […]” (Errante, erratica, p. 151).

Nell'immagine di copertina, Diamela Eltit nel 1980 durante la performance Zonas de Dolor I, fonte.

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