Ester Armanino. Storia naturale di una famiglia

27 Luglio 2011

La narrativa italiana conosce un momento particolare. Sarà per via dell’aumento vertiginoso delle pubblicazioni – romanzi e racconti –, sarà forse per l’arrivo di una nuova generazione di scrittori, nata a metà degli anni Settanta, e anche dopo, ma non passa settimana che non escano libri nuovi, e anche interessanti. Non tutti ovviamente, anche perché l’attuale ritmo editoriale, imposto dalle leggi del marketing, sollecita anche gli scrittori già affermati – quelli della generazione degli anni Sessanta – a pubblicare un libro ogni anno, o quasi, non sempre con risultati soddisfacenti.

 

In questa massa di opere come orientarsi? Quali libri leggere? Quali no? Chi consiglia a chi? Tutti interrogativi cui vale la pena di rispondere. Come? Provando ad affidare il compito di leggere e recensire i libri ad una nuova generazioni di lettori, e soprattutto di lettrici – sono le donne a leggere più libri di narrativa, o più libri in generale, rispetto agli uomini. Ecco allora che inizia con questo primo articolo una “rubrica” di recensioni scritte da persone che debuttano in quest’attività portando con sé uno sguardo che non è quello dei critici di professione attivi su quotidiani, settimanali o riviste.

Pezzi non troppo lunghi, da leggere velocemente, ma sempre con una visione attenta e informata del libro che prendono in esame. Si chiama Italic, dal nome del carattere a stampa: un classico prodotto italiano.


 

Una cadenza lenta e triste accompagna il lettore fin dalle prime pagine. Il romanzo di Ester Armanino (Storia naturale di una famiglia, Einaudi) è ambientato in una Genova senza odori e senza suoni. Un’adolescente racconta la propria famiglia tra mura fragilmente oblique. Bianca ha una madre, ha un padre e ha un fratello, ma ha anche falene, libellule, formiche. Questo mondo animale che la circonda si sovrappone e si fonde nella sua mente con le persone che le stanno attorno, e difficilmente non si penserà a La metamorfosi di Kafka a cui anche la copertina einaudiana fa eco. Come alcuni insetti la mamma muta, cambia pelle, muore per rinascere nuova, diversa. Bianca si tiene stretta con le sue zampette al bordo della tovaglia della cucina. “Mi vedevo piccoli uncini al posto delle mani, con quelli potevo rimanere arpionata alla terra e guardare le cose da lì, dove non era possibile cadere”. Il suo mondo rassicurante di bambina in un’estate le si sfalda addosso: un padre assente si rivela all’improvviso traditore di quel mondo di formiche impegnate a “costruire un’armonia collettiva senza mai concedersi un piacere esclusivamente personale”.

L’infanzia è finita, inciampata nella durezza della vita, la verità dopo la strage delle illusioni. Le mantidi religiose (così sono trasfigurate le belle colleghe del papà) depositano le loro uova lasciandole scivolare sul bordo delle tazzine, giù nei caffè e nei sorrisi, a mescolarsi con lo zucchero e negli sguardi, penetrando feconde nei vestiti del papà. Così all’improvviso la verità: l’amore familiare c’era ma era finto, le parole erano un guscio vuoto come la loro casa di fine ‘800 su un viale di tigli. Il penoso attimo dello sgretolarsi di una famiglia non ha nemmeno il tempo d’essere vissuto, la fine totale toglie fiato a quella contingente perché il padre morirà prima di qualsiasi decifrazione. E allora via da quella casa. La madre distribuisce scatoloni ai figli. Vende una casa, compra una casa (una membrana nuova). Bianca guarda la madre e ancora non capisce. Lasciare, abbandonare per sempre: perché?

L’intero racconto è un requiem, un inno alla tristezza della vita, fatta di morti e rinascite. Il colore è cupo, le luci sono troppo lievi. Ed alcune luci della vita di Bianca si fanno anch’esse spesso instabili, come la commovente figura della colf, che portava ordine e toglieva la polvere dalla casa borghese per poi tornare ogni sera nel suo palazzo anni ‘60, “con le piante grasse sui balconi arrugginiti”. Sapeva di passata di pomodoro, di marmellata ma a casa il marito non c’era, s’era impiccato anni prima.

Se questa è veramente una storia familiare naturale, allora la famiglia non è che inquietudine e disperazione.
Nell’ultima pagina del libro c’è una fotografia, una bambina felice nel bianco e nero, gli occhi accesi e denti da latte scoperti; accanto a lei una donna le si stringe vicina, un sorriso appena accennato, viso sottile e teso, e gli occhi profondi, velati di malinconia e preoccupazione. Sono madre e figlia ma si assomigliano così tanto che potrebbero essere la stessa persona in due differenti età. In questa immagine c’è come in sintesi tutto il libro, in quella differente luce dello sguardo. La bambina a cui non è ancora capitato di morire e la donna che ha già vissuto.

 

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