Delphine de Vigan. Niente si oppone alla notte

3 Ottobre 2012

La morte della madre e la sua vita: ripartire dal suo suicidio per ripercorrerne i tratti di una vita infelice e tragica, faticosa fino all’estenuazione, ma non per questo priva di momenti di assoluta gioia e soprattutto di profonda libertà.

 

Delphine de Vigan ritorna su uno dei temi centrali dei suoi precedenti romanzi, su tutti Jours sans faim con cui ha esordito sotto pseudonimo raccontando la sua lotta contro l’anoressia e il complicato rapporto con la madre. Romanzo autobiografico, ma anche reportage capace d’indagare i tardi anni Settanta del riflusso e del disincanto.

 

Il tono dell’autrice è sempre misurato: in terza persona quando si tratta di rievocare, per altro con splendida delicatezza, l’infanzia della madre e tutto quel mondo antico composto da una famiglia piccolo-borghese, numerosa e di provincia e in prima persona quando lei stessa si ritrova co-protagonista delle pagine che descrivono implacabilmente il disagio psicologico ed esistenziale della giovane madre.

 

Niente si oppone alla notte (Mondadori, Milano 2012, pp. 311, € 18. Traduzione di Marco Bellini) è una storia costellata di violenza famigliare, di morti efferate, di un dolore straziante ed inaudito eppure così comune e normale. Evitando falsi pudori è semplicemente la storia di una famiglia che si riassume tutta nei sessant’anni di vita di Lucile, la madre dell’autrice. Ogni lieto fine sarebbe improbabile, la tragedia perché sia tale ha bisogno di compiersi e dopo non rimane più spazio per il lieto: resta il bisogno di resistere e di opporsi.

 

Delphine de Vigan apre così uno squarcio sulla sua vita intima, sulla propria giovinezza e sui rapporti a volte tesi ed aspri con gli zii e i nonni e anche rispetto ai propri dubbi e problemi di narratrice. Risultano quindi fondamentali le bellissime pagine in cui l’autrice apre al lettore la propria officina spiegando le difficoltà intrinseche nella scrittura di un’opera simile, le soluzioni scelte e quelle non trovate. Varie volte de Vigan dichiara di aver omesso o addolcito (in un certo senso quindi romanzato) alcune vicende non solo per delicatezza nei confronti delle persone coinvolte, ma per assenza della parola stessa.

 

Il linguaggio si ferma sempre prima degli eventi, prima che questi risultino troppo aderenti alla voce che li racconta, uno spazio vuoto che bianco in tutto il suo rumore va ad occupare la pagina con il suo carico di domande non fatte e di risposte per sempre inevase. La difficoltà del raccontare si trasforma qui nell’impossibilità di una spiegazione, di un motivo che possa essere preponderante su tutti gli altri.

 

La morte che apre e chiude il libro è la medesima, il suicidio di Lucile a cui è impossibile rispondere e che di conseguenza deve essere privato di ogni domanda. Da questa presa di coscienza dell’autrice prende avvio la necessità di scrivere il libro. Quella domanda impossibile ne ha liberato così altre mille a cui provare a dare una risposta, trasformando la dura vita della madre nelle infinite vite di altre donne e uomini, facendone letteratura e non un oltraggioso quanto cinico omaggio come sembra essere di moda fare oggi.

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