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John Rawls: libertà e uguaglianza

4 Giugno 2025

Nel 1971, più di cinquant’anni fa, usciva negli stati Uniti, presso The Belknap Press of Harvard University Press, il saggio A Theory of Justice, destinato a diventare una pietra miliare della filosofia politica. L’autore era un professore di mezza età (era nato a Baltimore nel 1921), John Rawls, da alcuni, tra cui Daniel Chandler, autore del saggio, Liberi e uguali. Manifesto per una società giusta, recentemente pubblicato da Laterza 2025 (ed. orig. Free and Equal: What Would a Fair Society Look Like, ©Daniel Chandler 2023), ritenuto il più grande filosofo politico del Novecento. Credo che l’appellativo sia meritato, anche se la concorrenza è agguerrita benché non altrettanto modesta e riservata. John Rawls era infatti una persona mite e per nulla presuntuosa, uno studioso serio quanto seriamente impegnato sul piano della giustizia sociale, una persona gradevole, e in ogni caso, diciamolo, un genio intellettuale.

Negli ultimi decenni del Novecento il fulcro della teoria filosofico-politica della giustizia fu rappresentato proprio dalla dottrina della giustizia come equità di Rawls e dalle discussioni e dibattiti che si svolsero intorno ad essa. La teoria della giustizia giustifica eticamente le istituzioni fondamentali che modellano una forma di vita collettiva stabile. La teoria è chiamata a rispondere alla domanda se una società sia giusta; suo compito è stabilire e definire i criteri di giustificazione di quella società e offrirli alla condivisione dei cittadini. Una teoria della giustizia ha per compito di stabilire secondo quali criteri una società è ben ordinata: lo è se soddisfa nel tempo il perseguimento e il mantenimento di un certo numero di fini collettivi di lungo termine come: benessere, diritti, efficienza, equità, coordinazione, libertà, eguaglianza, identità, integrità.

Il giusto e il bene: la giustizia come equità in John Rawls

Nella dottrina della giustizia come equità di Rawls i due concetti principali dell’etica sono quelli di giusto e bene. Come si possono definire e mettere in relazione queste due nozioni? Sembra che il modo più semplice per farlo sia definire il bene prima e indipendentemente dal giusto, e definire il giusto come ciò che massimizza il bene. Sono giusti quegli atti e istituzioni che in un insieme di alternative disponibili ottengono il maggior bene. La giustizia è il criterio che ci permette di valutare l’importanza di altri valori. Se una linea politica è ingiusta, non c´è nessun insieme separato di valori a cui si possa fare appello nella speranza di passar sopra alla giustizia.

In Una teoria della giustizia Rawls illustra alcune idee fondamentali su giustizia ed eguaglianza, collegandole in particolare alla concezione del contratto sociale.

La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali, così come la verità lo è per i sistemi di pensiero. Una teoria scientifica o filosofica, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata o modificata se non è vera. Allo stesso modo leggi e istituzioni, non importa quanto ben congegnate ed efficienti, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste. La verità e la giustizia sono le virtù principali delle attività umane e non possono essere soggette a compromessi.

I principi della giustizia sociale forniscono un metodo per assegnare diritti e doveri nelle istituzioni fondamentali della società e definiscono la distribuzione appropriata dei benefici e degli oneri della cooperazione sociale.

Una società è bene ordinata quando è regolata in modo effettivo da una concezione pubblica della giustizia. Infatti in mezzo a individui che hanno scopi e finalità diversi, una concezione condivisa di giustizia stabilisce legami di convivenza civile; il generale desiderio di giustizia limita la ricerca di altri obiettivi. Si può pensare che una pubblica concezione di giustizia costituisca lo statuto fondamentale di una associazione umana ben ordinata.

Concetti e concezioni

Naturalmente le società esistenti sono raramente ben ordinate in questo senso perché ciò che è giusto o ingiusto è generalmente in discussione. Gli uomini sono in disaccordo rispetto a quali principi devono definire i termini fondamentali della loro associazione. Nonostante il disaccordo è possibile dire che ognuno di loro possiede una concezione della giustizia. Ciò vuol dire che sono disposti ad affermare la necessità di uno specifico insieme di principi che assegnino diritti e doveri fondamentali e determinino quella che essi considerano la corretta distribuzione dei benefici e degli oneri della cooperazione sociale. Sembra perciò naturale considerare il concetto di giustizia come diverso dalle differenti concezioni della giustizia, come Rawls ribadisce ripetutamente.

Le varie concezioni della giustizia sono il prodotto di differenti nozioni di società, sullo sfondo di visioni contrastanti riguardo alle necessità naturali e alle opportunità della vita umana. Generalmente si concorda comunque sulla nozione aristotelica della giustizia secondo la quale bisogna astenersi dall’ottenere per sé alcuni vantaggi appropriandosi di ciò che appartiene a un altro, i suoi beni, le sue ricompense, le sue cariche e simili, o dal negare a una persona ciò che le è dovuto, il mantenimento di una promessa, il pagamento di un debito, il tributo di un giusto rispetto e così via.

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Il contratto sociale sotto il velo di ignoranza

In particolare la teoria della giustizia di Rawls generalizza la teoria del contratto sociale: l’idea guida è quella che i principi di giustizia per la struttura fondamentale della società sono oggetto dell’accordo originario. Questi sono i principi che persone libere e razionali, preoccupate di perseguire i propri interessi, accetterebbero in una posizione iniziale di eguaglianza per definire i termini fondamentali della loro associazione. Fornendo nuova linfa al contrattualismo, Rawls è riuscito a proporre una serie di principi che andavano contro la dottrina allora dominante dell’etica, ancora dominante ai nostri giorni: l’utilitarismo.

Il contratto di Rawls si svolge sotto quella intuizione geniale che è il velo di ignoranza, cioè senza conoscere nulla della propria condizione specifica. Sarò uomo, maschio, libero, di famiglia abbiente e istruita, che si prende cura di me? Sarò una donna di colore, senza istruzione, povera, misera, abbandonata a me stessa? Di fronte a questa incertezza io, come ognuno, sarò spinto a scegliere delle posizioni contrattuali che mi avvantaggino in caso di svantaggio. È questo che decidono le persone sotto il velo (anche le donne? Eh, questo è un punto discusso che lascia adito a dubbi, benché Rawls, figlio di una donna emancipata e paladina dei diritti delle donne, non fosse uno di quei docenti di Harvard snob e machisti che Judith Shklar, una collega di Rawls a Harvard, così saporitamente aveva descritto).

In ogni caso le persone sotto il velo sanno di avere almeno due capacità morali: la capacità di «concepire il bene» e il «senso di giustizia», e sanno anche che avranno vantaggi dal godere dei «beni primari»: diritti e libertà, libero accesso alle opportunità sociali ed economiche, controllo economico, rispetto di sé.

Libertà e uguaglianza

Insomma, sia Una teoria della giustizia, sia, vent’anni dopo, Liberalismo politico, del 1993, altro testo importantissimo, sviluppano una teoria votata sia alla libertà sia all’eguaglianza, scandagliata con la profondità, l’accuratezza e l’impegno profuso da Rawls. E in maniera affascinante e convincente. Un’operazione difficilissima in un mondo allora sotto l’egida della guerra fredda che contrapponeva in maniera conflittuale e alternativa la pratica della libertà (ritenuta prerogativa dell’Occidente) e quella dell’eguaglianza (attribuita, in termini economici, al mondo oltre cortina e alla dottrina marxista e comunista).

Per molti di noi che negli anni ’70-’80 (dell’82 è la traduzione italiana di La teoria della giustizia presso Feltrinelli, a cura di Sebastiano Maffettone) aprivano gli occhi alla filosofia politica fu un salto, una piroetta mentale che ci permise e ci permette tutt’ora di tenere insieme questi due valori fondamentali, e dichiararci da allora egualitaristi liberali o liberalisti egualitari, a preferenza, pur conservando tracce di marxismo e di italocomunismo.

Il libro di Chandler

Più di cinquant’anni dopo dunque, il pensiero liberal-egualitarista di Rawls viene ripercorso, elaborato, riassunto, spiegato e soprattutto riproposto ai nostri tempi di vuoto morale e ideologico da Daniel Chandler, economista e filosofo della London School of Economics. Chandler si assume il compito di cercare di renderlo operativo, pratico; di occuparsi non soltanto di immaginare la società giusta ma anche di applicarla alla realtà.

Nella prima parte del libro Chandler espone i capisaldi della teoria rawlsiana, un po’ come ho fatto io nelle righe precedenti. Nella seconda, la più corposa, Chandler formula un programma di ampio respiro per dare vigore alla democrazia e trasformare l’economia, adottando le idee di Rawls non tanto come oracolo ma come leva per assegnare un peso significativo alla politica effettiva. Non posso comunque non dire che tutto il saggio è molto corposo, e passi, ma anche decisamente verboso, 300 pagine di 2.800 battute, cento pagine di note. Verboso perché Chandler non smette mai di scrivere, aggiungere, ricamare su quel che ha già scritto, come in un pilpul ossessivo, e questo non giova alla scorrevolezza e alla leggibilità né alla impalcatura logica del saggio, tantopiù che anche Rawls non scriveva con esemplare chiarezza e distinzione. Questo a onor del vero e senza voler nulla togliere all’apprezzamento complessivo.

Il libro di Chandler vuole offrire un quadro di riferimento etico e praticabile di fronte ai problemi che suscitano oggi malcontento nei confronti della democrazia liberale, soprattutto sul piano economico in relazione alla distribuzione impari di denaro e ricchezza, di potere e prestigio. Problemi che gettano i delusi e rancorosi nelle braccia del populismo autoritario, negli Stati Uniti come in Italia, in Francia e altrove. Riproponendo le tesi di Rawls con il loro marcato egualitarismo Chandler intende insomma reinventare il liberalismo e formulare una politica progressista per una società migliore perché più giusta e equa.

La questione del merito

Vorrei soffermarmi in conclusione – ci sarebbero ancora tante cose da dire a non insisto – su un punto di divergenza di Rawls come di Chandler come, si parva licet – di me, con le linee di governo dell’attuale presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Mi riferisco alla questione del merito.

Uno dei principi di Rawls riguarda l’eguaglianza di opportunità, che dovrebbe permettere indistintamente alle persone l’accesso a tutte le cariche fornendo a tutte loro le stesse possibilità di coltivare i propri talenti. A quel punto, ma soltanto a quel punto, si potrebbe parlare di merito.

Il presidente Tump invece sbraita – come ha fatto nel discorso di insediamento, urlando Merit, Merit stringendo le labbra «a culo di gaddrina» – che le scelte vanno fatte in base alla prestazione, e chi ce la fa bene, e chi no, colpa sua, vuol dire che non è meritevole. Eppure Rawls ha spiegato così bene e così pacatamente che si può «meritare» qualcosa soltanto se se ne è direttamente responsabili: ma nessuno di noi lo è, né del talento né del biglietto della lotteria naturale che ha estratto alla nascita. Lo sforzo poi, dipende anche quello dai tratti della personalità che si sviluppano da bambini, dalle opportunità e dagli incoraggiamenti che si ricevono. Ma Trump non è certo disposto a sostenere politiche di «azione affermativa» che cercano di allineare le persone a un livello dal quale possano realmente partire alla pari e mostrare a quel punto il loro merito. Al contrario, proprio pochi giorni fa, l’11 aprile 2025 l’amministrazione Trump ha inviato una lettera al Presidente dell’Università di Harvard nella quale gli si ingiunge di adottare e attuare entro agosto 2025 « politiche di assunzione basate sul merito, e eliminare tutte le preferenze in base a razza, colore, religione, sesso, o origine nazionale in tutte le sue pratiche per ogni assunzione, promozione, compensazione [...] L'Università deve chiudere immediatamente tutti i programmi, uffici, comitati, posizioni e iniziative basati su diversità, equità e inclusione (DEI), sotto qualsiasi nome, e fermare tutte le politiche basate su DEI».

O tempora o mores. Povero Rawls, povero Chandler. E poveri noi.

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