Metafore e realtà del Sinodo

30 Novembre 2015

Nel suo articolo Commento alla relazione finale, Francesca Rigotti muove una serie di osservazioni al documento conclusivo del Sinodo dei Vescovi. E lo fa “dall'esterno”, come è giusto per chi osserva una realtà cui non appartiene e che dimostra, per questo, di conoscere molto approssimativamente, quasi per sentito dire. Ma, appunto, proprio per questo motivo, che non dovrebbe sfuggire a un metaforologa, le metafore delle quali parla vengono lette, pressoché sempre, come se non fossero tali. Prendendo le metafore non come “mezzi di trasporto”, ma come “cose”, l'autrice finisce per infilarsi in piccoli e grandi vicoli ciechi. Da parte mia esprimo anche il mio consenso ad alcune delle critiche che l'autrice muove al documento. Ma mi sembra di dover consentire “dall'interno” e “secondo metafora”. Cerco di spiegare che cosa intendo con questo.

 

a) La questione che Rigotti solleva inizialmente – e che conserva come “basso continuo” per tutto il suo testo – è una rigida separazione tra logiche del Sinodo cattolico e logiche “comuni” o “laiche”. Il mondo contemporaneo non è la Chiesa, certo, e la Chiesa non ha alcun potere di determinare, da sola, il mondo contemporaneo. Su questo Rigotti ha ragione. Ma questo non significa affatto che la Chiesa cattolica, tenendo fermo questo principio di distinzione, non possa dire, con tutta la sua autorevolezza, una parola sulla famiglia, sul matrimonio e sulla cultura di oggi. Qui io capisco bene come il “pregiudizio” anticattolico – per così dire – si alimenti per esperienza storica. La Chiesa cattolica, per quasi due secoli, non ha accettato la società “aperta”. E questo pesa anche sui giudizi di Rigotti, inevitabilmente. Ma altrettanto chiaramente dobbiamo riconoscere che vi è un percorso, non facile e non lineare, con cui, da almeno 50 anni, ci si è avviati su una via di mediazione con il mondo moderno e di valorizzazione della libertà, della coscienza, del desiderio, del corpo... Leggere il documento sinodale del 2015 appiattendolo sui canoni di condanna tridentini o sul Syllabus di Pio IX è una operazione troppo diretta, troppo poco metaforica, troppo semplicistica. Conferma tutti nei loro pregiudizi, ma rischia di non offrire alcun vero chiarimento.

 

b) Non vi è dubbio che la tensione tra l'oggetto famiglia e la “forma istituzionale” del Sinodo crei qualche non piccola tensione: una comprensione delle dinamiche familiari da parte di “maschi celibi” è effettivamente una questione seria, alla quale, tuttavia, possiamo dare solo una risposta istituzionale, modificando gli assetti e le procedure, in vista di una migliore percezione della realtà. Ma anche qui, la metaforologa usa la metafora in modo minore, quasi solo per giocare in difesa! Come Giulietta non è il sole, così i “padri” non sarebbero padri? Tutto qui? Solo una fredda riduzione del linguaggio alla mera “fattualità” sarebbe la nostra salvezza? Non mi stupisce il vigoroso richiamo alla realtà. In questo l'autrice si muove secondo una linea di “sano realismo”, che invita a non usare le parole come “nascondigli”. Benissimo. Ma per “fare cose con parole”, dobbiamo confidare in un regime metaforico che illustri la bellezza delle persone e dei cuori, delle scelte e delle vite, con “finzioni” che sono più vere della stessa realtà! È inevitabile che una grande tradizione religiosa parli “mataforice”. Questa è, in larga parte, la sua salvezza. Benedette metafore, che impediscono di oggettivare del tutto Dio, autorità, salvezza. Preferisco una chiesa che sappia parlare “metaforicamente” della famiglia, piuttosto che una Chiesa che la definisce come “valore non negoziabile”. Ma forse, proprio per questo, non sono così lontano da quanto intende qui Rigotti.

 

c) Missione, crescita demografica, invasione di territori di competenza statale: su questi tre temi l'autrice mostra una forte resistenza a entrare nella logica del testo che giudica. In questo caso è forse un “eccesso metaforico” a condizionarla. Non si può leggere “missione” come se fosse sinonimo di “conquista”, “incremento demografico” come se fosse “automatismo riproduttivo”, invasione di territorio pubblico come se l'ambiente ideale della religione fosse solo l'orticello privato. Su tutti questi punti, in verità, occorre una considerazione “tecnica” delle questioni. Usare le metafore come se fosse “cose” e i linguaggi tecnici come se fossero metafore è molto rischioso, permette anche qualche gioco di parole, ma resta troppo lontano dalla realtà.

 

d) Infine, la natura. Certo, la tradizione ecclesiale cattolica è molto segnata da questo concetto, che nei secoli ha subìto una profonda trasformazione e non può essere utilizzato con troppa disinvoltura. Soprattutto, credo si debba riconoscere un dato fondamentale: con “natura” per molti secoli si è indicato un livello “comune” di esperienza degli uomini. Se oggi lo si usa per dividere, per contrapporre, per preservare, per imporre, quel concetto risulta modificato, spesso svuotato e non raramente del tutto pregiudicato.

 

Ma, detto questo, non comprendo bene quale sia la istanza fondamentale del discorso che sulla natura propone Francesca Rigotti. Soprattutto quando contrappone le evidenze “naturali” di una coppia omosessuale alle considerazioni con cui Paolo, nella lettera agli Efesini, delinea i rapporti tra marito e moglie in analogia con Cristo e la Chiesa. Qui, mi sembra, deve essere fatta una certa chiarezza.

 

Una esperta di metaforologia non può leggere un testo di Paolo come se fosse una ricetta di cucina. Quel testo è stato letto, purtroppo, con scarso senso delle metafore, non solo da Rigotti, ma anche da una lunga tradizione ecclesiale. Che con molta fatica, e solo con Giovanni XXIII, ha saputo elaborare una ermeneutica del testo all'altezza della storia. Il condizionamento con cui nella storia Paolo ha parlato alle generazioni fa parte della grande tradizione ecclesiale e non può essere semplicemente legato a un significato “senza commenti”. Il caro prezzo che Rigotti paga, per potersi ritenere estranea alla tradizione cristiana, è di essere costretta a sposare la peggiore interpretazione fondamentalistica del testo sacro, nella quale si allea, inconsapevolmente, al peggior tradizionalismo reazionario. Essa propone una interpretazione di Paolo che assomiglia a quella proposta dai più chiusi e dai più gretti tra i Padri sinodali, e sembra totalmente ignorare la complicata storia della interpretazione di un brano fondamentale per la tradizione sul matrimonio. La Scrittura, infatti, proprio in quanto è “ispirata”, trova la sua verità non dietro, ma davanti ad essa, non all'inizio, ma alla fine! Non è questa, in fondo, una delle forme più belle e più commoventi di “tradizione metaforica”? Ancora oggi, sì, anche oggi quella parola è vigente, come testo autorevole, il cui significato, però, non è imbalsamato in un museo – non importa se tradizionalista o progressista – ma è affidato alla lettura ispirata delle generazioni a venire. La Scrittura, che certo scaturisce da una società chiusa e centrata, è destinata a (e prefigura) una società aperta e plurale. A volerla chiudere in una società chiusa sono coloro che non ne colgono più il senso metaforico. Non credo che Francesca Rigotti potrebbe sentirsi del tutto estranea a questo modo dinamico e “in uscita” di comprendere il testo paolino. O forse mi sbaglio e preferisce ignorarlo?

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