Il declino di un leader

6 Aprile 2012

Il declino fisico di un leader è sempre uno spettacolo avvilente, ma nel caso di Umberto Bossi si è trattato di una vera e propria via crucis, che il capo leghista ha affrontato senza mai sottrarsi allo sguardo dei suoi fedeli, degli amici, ma anche dei nemici, cui ha riservato negli ultimi anni, in assenza della sua usuale parola sferzante, il gesto provocatorio e sovente volgare: dito medio, corna, pernacchia. Apparso in pubblico nonostante l’evidente menomazione prodotta dalla malattia, che l’ha trasformato in un’icona dello sfinimento e della santità presso i suoi fedeli, ha un unico precedente, almeno in Italia: la lenta agonia di Papa Wojtila.

 

Se si riavvolge il film della sua carriera, a partire da questo epilogo, ci si rende conto che la fisicità, lo sforzo corporale, è sempre stato lo stigma della sua personalità. Impensabile Bossi disgiunto dalle sue posture e dai suoi travestimenti: l’impermeabile bianco degli inizi e la canottiera del 1994, sino alle giacche sportive degli ultimi anni. Travestimenti di un vitellone che è arrivato incredibilmente, e fortunosamente, ai vertici della politica del Paese. Uno del popolo, questo ha sempre voluto essere il leader di “Roma ladrona”, il creatore di slogan e di parole d’ordine, che nei comizi impugnava il microfono alla stregua di un cantante e si concedeva ai suoi sostenitori – i fan – con gli atteggiamenti di una rock star firmando autografi. Fisicità esibita anche nelle centinaia di chilometri percorsi ogni giorno per portare in giro per il Nord, da Ovest a Est, il verbo dell’autonomismo e del separatismo, ma anche la provocazione razzista e gli sfottò degli avversari.

 

Non è un caso che il giorno del suo abbandono, del ritiro, forse solo apparente, ma comunque assolutamente simbolico, si rivolge ai suoi colonnelli, alle truppe della sua armata Brancaleone, dicendo: “Adesso basta piangere, andiamo ad attaccare i manifesti alla faccia di quei coglioni che vogliono fare il funerale alla Lega”. Il ritorno alle origini, quando in compagnia di Roberto Maroni, e degli amici del Bar Sport, appiccicava in una notte centinaia di manifesti sotto i cavalcavia, vicino alle fabbriche, sui muri delle mense e dei circoli di periferia. Una performance che è lontana anni luce: nel Nord di manifesti della Lega non se ne vedono più tanti in giro. Il tramonto della fisicità del Capo ha corrisposto alla fine della stessa fisicità dei suoi militanti e sostenitori: un legame indissolubile e misterioso, com’era già accaduto allo stesso Mussolini della Repubblica di Salò, pallido e smunto, fantasma di se stesso.

 

Trasformato dall’ictus in una sorta di Padre Pio del separatismo, santo patrono da esporre e far parlare, seppur brevemente, negli incontri e nei comizi, il Sénatur è diventato l’ombra di se stesso. Calando la sua forza, la sua capacità di produrre segni e simboli, anche il movimento da lui fondato è rifluito nell’ambito di una fisicità assai stereotipata, una via di mezzo tra la truculenta corte craxiana, con tanto di cerimonieri e salvadanai del Capo, e il passo felpato dei dorotei, abituati a salire e scendere le scale del potere, a gestirlo in santa pace.

 

La sua voce cavernosa, profonda, strascicata, che tanti istinti animali suscitava negli ascoltatori del Nord, oggi è trasformata in un rantolo, un sussurro scomposto, che esce sempre più flebile dal corpo. Non eccita più e non rassicura neppure. La voce è stata in lui tutto, o quasi, più ancora delle cose che diceva, una voce attraverso cui ha parlato per vent’anni e più l’inconscio stesso di una larga parte del Paese, xenofobo, conservatore, retrivo, antistato, spaventato dal cambiamento, che è oggi senza più guida, gregge senza pastore, cui non basta più neppure il santino del leader, e assiste impotente alla sua ultimissima stagione politica, quella del forzoso congedo.

 

 

 

L’articolo è apparso oggi su La Stampa.

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