Speciale

Il pirata romantico

24 Luglio 2011

 

La risemantizzazione romantica raggiunge pure il pirata secondo le linee tracciate nel capitolo precedente. Un alone funereo e fatale avvolge il reietto dei mari, sia il Clement Cleveland di Walter Scott (1822), i Kernok e Szaffi di Eugene Sue (1830 e 1832 in Salamandre), fino al fratello di Euphrasia nell’omonimo racconto di Mary Shelley del 1839 e alle estreme propaggini salgariane (Il corsaro nero 1899, Le tigri di Mompracen 1911). Prototipo infinitamente imitato ci pare però il Conrad della novella in versi Il corsaro di Byron (1814) che si apre con una specie di coro dei pirati che riflettono sulla loro condizione. In prima battuta viene messo in evidenza il mutevole errare dell’avventura (“Qui è l’irrequieta nostra vita, che divisa è sempre / fra gli affanni e l’ozio, sempre gioiosa al mutar/ della sorte”), collegato al vitalistico ballo negli spazi infinitamente aperti e spaesanti dei mari: “Oh, chi può dir, se non colui che ha sperimentato nel / suo cuore, / in trionfo danzando sull’oceano vasto, / il senso pieno della vita, il folle battere del polso, / il fremito che coglie chi solca queste vie senz’orma?”.

 

Alla vita convenzionale e timorosa propria al resto dell’umanità si oppone quindi un’intensificazione che va sempre a braccetto con il pericolo della morte violenta: “Tema di morte non abbiamo, se pure con noi cade il / nemico; / essa non è per noi altro che un sonno più pesante; / e venga quando vuole, la vita della vita noi cogliamo. / Perduta ch’essa sia, che importanza può aver / che ne sia stata causa un morbo o uno scontro in battaglia?”.

Mentre sull’isola si lavora a riparare le navi, canta e fa baldoria, Conrad resta però rinchiuso in disparte, a scrutare dall’alta torre l’oceano, in preda ad oscuri ed indefiniti sentimenti. Se i suoi uomini si sono presentati separati dalla società, egli è a sua volta diverso da loro e a loro stessi sconosciuto: “Ma chi è mai quel Capo? Per ogni lido il nome suo / fama ha tremenda: altro non chiedono né sanno. / Egli si unisce a lor solo per comandare; / rare le sue parole, ma acuto è l’occhio e pronto è il/ braccio. / Mai condisce con gioia quei gioviali conviti, / ma quel silenzio gli perdonano in virtù delle sue gesta”. L’ascendente sulla ciurma si mostra, nonostante la lontananza, comunque assoluto grazie alla sua intrepidezza e sagacia negli assalti, forse accresciuto dalla paura per lo sguardo penetrante che legge in profondità i cuori e per il riso nel quale lampeggia “il ghigno d’un demonio”.

 

Conrad è anche il teorizzatore della più classica grammatica del raid (“ma degno fu il mio intento / nell’addestrar i pochi miei seguaci a scontrarsi coi molti. / Sempre io dissi lor di non versare sangue inutilmente”); assalirà infatti di sorpresa nel secondo canto la flotta in rada di Seyd Pascià travestendosi esso stesso da derviscio per eliminare direttamente il rivale. Mentre il palazzo del nemico brucia, ed egli fugge con le guardie superstiti, “un feroce baglior lampeggia negli occhi del Corsaro, / e subito si spegne, perché gli giungono all’orecchio / grida di donne che come tocchi di campana a morto / risuonan nel suo cuore…” Si slancia allora con alcuni compagni nell’harem, tra le fiamme e il fumo, dopo aver dichiarato che “le creature indifese sempre risparmiammo / e tuttora dobbiamo risparmiare”. Il raid fallisce per la preponderanza delle forze turche che si riorganizzano e Conrad sarà poi liberato dalla prigionia proprio grazie a Gulnare, la favorita del pascià che aveva salvato dall’orribile morte nel chiuso del serraglio. Nel terzo canto, ritornato sull’isola, il Corsaro trova però l’amata Medora morta perché l’ha creduto morto; l’affascinante finale s’affaccia sul nulla della scomparsa dell’eroe sulla distesa marina: “Non c’è di lui né traccia, né segno che possa rivelar / dove conduca la sua vita nell’angoscia”.

 

La passione senza nome che rode Conrad e lo spinge nell’azione ad assumere pose melodrammatiche spesso viene, nei racconti successivi, individuata con la vendetta andando incontro a inevitabili banalizzazioni. Il personaggio fisico e morale del corsaro di primo Ottocento resiste appunto fino a Salgari: “Anche l’aspetto di quell’uomo aveva, come il vestito, qualche cosa di funebre, con quel volto pallido, quasi marmoreo, che spiccava stranamente tra le nere trine del colletto e le larghe tese del cappello, adorno di una barba corta, nera, tagliata alla nazarena ed un po’ arricciata. Aveva però i lineamenti bellissimi: un naso regolare, due labbra piccole e rosse come il corallo, una fronte alta solcata da una leggera ruga che dava a quel volto un non so che di malinconico, due occhi poi neri come carboni, d’un taglio perfetto, dalle ciglia lunghe, vividi e animati da un lampo tale che in certi momenti doveva sgomentare anche i più intrepidi filibustieri di tutto il golfo” oltre che incantare le dame.

 

Le avventure di mare sono sempre intrecciate, a partire dalla dittatura del modello byroniano, all’amore disperato e fatale, ma contengono pure sfondi, sfumature, accenti o motivi politici. Conrad è appunto corsaro e, nonostante il nome, parrebbe guidare dei Greci contro l’oppressore turco, in un’ambientazione cara a Byron e presente pure nel contemporaneo Giaurro. Così il pirata di Scott finisce eroicamente i suoi giorni combattendo nella marina inglese, ed Euphrasia, fervente sostenitrice della libertà greca, viene catturata dai Turchi, mentre il fratello, dopo aver tentato invano di riportarla a casa, si mette egli stesso a capo della guerra contro gli occupanti. La confusione terminologica dei titoli salgariani ci restituisce la medesima realtà ambigua: Emilio Roccanera signore di Ventimiglia ci pare più pirata che corsaro, mentre i raid dei pirati di Sandokan contro i colonialisti inglesi che invadono la Malesia a metà Ottocento sembrano piuttosto venarsi di coloriture nazionaliste e resistenziali. Di qui “sembra di scendere la particolare inclinazione della narrativa salgariana a sposare la causa della resistenza contro le grandi potenze “imperiali”: l’Inghilterra moderna, rapace “rubaterre”, che si confermerà suprema antagonista in tutto il ciclo dei pirati della Malesia, così come la Spagna nell’altro famoso ciclo di ambientazione storica più remota, quello dei corsari del Grande Golfo”; si assiste allora alla “contrapposizione tra un’arcaica e indomita regalità naturale, di cui è dotato l’uomo “formidabile”, e quel regime burocratico e militare, povero di individualità ma ricco di mezzi e tecnologia – un regime che paluda e annacqua la propria volontà di dominio nella pretesa di un’economica e disciplinata amministrazione di porzioni di mondo che non gli appartengono (L. Villa)”.

 

Il ritratto letterario meglio riuscito e scevro di orpelli tardo romantici di pirata va attribuito senz’altro allo Stevenson de L’isola del tesoro. In John Silver il folclore marinaresco – la gamba di legno, il pappagallo sulla spalla, come del resto la cenciosa cecità di Pew – sembra più che altro la citazione di una sapiente messa in scena che fa il paio con la parlantina ed il sorriso bonario. La maschera tuttavia nasconde il vero volto ed il tradimento, prima di Trelawney poi dei propri compari, rappresenta il momento fulminante del disvelamento. In più possiamo dire che costituisce il decisivo giunto strutturale della narrazione basata sul colpo di scena. Se è vero che “i pirati che seguono come ombre le altre navi rappresentano una specie di carnevale permanente in cui le strutture autoritarie della nave sono capovolte o annullate”, ecco allora un’ipotesi alternativa che “oscilla tra un’utopica aspirazione all’uguaglianza” – e ciò per i corsari vale anche a livello di nazioni con il rovesciamento dei governi stranieri oppressori – “e l’idea di una comunità pre-sociale in cui ciascuno pensa solo al proprio vantaggio personale (M. Cohen)”.

 

Viene in mente a questo punto, per chiudere sulle suggestioni del ribaltamento come tratto romantico che mette in positivo figure finora esecrate e come elemento romanzesco della progressione narrativa ad effetto, la finzione esibita dalla nave mercantile spagnola di Don Benito Cereno nel racconto di Melville. Gli schiavi neri si sono ribellati e hanno preso il comando: tutto in apparenza va come sempre, ma in realtà il piccolo mondo galleggiante è stato completamente capovolto (“La casa come la nave – l’una per mezzo delle pareti e delle persiane, l’altra delle murate alte come bastioni – nascondono alla vista i loro interni fino all’ultimo; ma nel caso della nave c’è questo in più, che il vivente spettacolo da essa contenuto ha nella sua repentina e integrale apparizione, in contrasto col vuoto oceano che la circonda, l’effetto quasi di una scena di miraggio. La nave sembra irreale; e i costumi, i gesti, i visi inaspettati, un chimerico quadro emerso allora dall’abisso, che ringhiottirà subito ciò che ha dato fuori”). Chi può sapere, quando incontrano la nave di Amasa Delano che riporterà a posto le cose, quali fossero i loro piani? Forse ritornare alle proprie terre d’origine ed intanto, per forza di cose, vivere di raid pirateschi sfruttando la sorpresa che segue la mascherata della normalità? Anche la cupa e talvolta moralistica visione del Male che si respira nella rappresentazione di Melville lascia allora spazio all’ambiguità capace di contenere nel rovesciamento una favilla di speranza.

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