Il Quinto Stato

16 Dicembre 2013

C’è uno scarto enorme, e non solo un ritardo, tra l’evoluzione che il sistema economico ha attraversato nel corso degli ultimi tre decenni – da capitalismo industriale, fondato sulla grande fabbrica e sull’organizzazione del lavoro fordista a capitalismo finanziario, fondato sul predominio della finanza e la frantumazione e la delocalizzazione delle attività produttive – da un lato e, dall’altro, l’evoluzione dei conflitti sociali e delle sue prospettive che quel mutamento radicale ha portato con sé. Qui non vanno segnalati solo i ritardi dell’analisi sociale o, se vogliamo, della percezione delle nuove contraddizioni che attraversano il sistema; analisi e percezioni rimaste per troppo tempo abbarbicate a una concezione dicotomica del conflitto di classe – tra proletariato e borghesia – che il movimento operaio aveva ereditato dal pensiero politico addirittura di un secolo e mezzo fa; ma che sembrava comunque aver trovato conferma negli sviluppi del capitalismo della prima parte del secolo scorso, fin quasi alla metà degli anni ’70; né va sottolineato solo un altro ritardo: quello nei confronti di quella tripartizione dell’analisi e della percezione sociale che, tra le due classi antagoniste fondamentali, aveva introdotto il cuscinetto dei “ceti medi”: un contenitore di profili sociali scarsamente omogenei e ancor più scarsamente analizzati; spesso disprezzati (“topi nel formaggio” li aveva definiti Sylos Labini, come ci ricordano gli autori)  e utilizzati in sede analitica soprattutto per attribuire una base sociale al potere del grande capitale e “spiegare” così il fatto che la lotta di classe avesse finito per imboccare una strada diversa da quella delle magnifiche sorti e progressive del socialismo, della rivoluzione, della società senza classi.

 

Quello che oggi si para di fronte a noi, che abbiamo a disposizione una cassetta degli attrezzi per l’analisi sociale decisamente obsoleta o che, avendo rinunciato a usarla, non ne abbiamo ancora trovata una adeguata all’evoluzione del sistema e dei suoi conflitti, è innanzitutto un problema di dismisura: dismisura tra la potenza ormai globale della finanza internazionale – i cui attori sono sì in competizione uno con l’altro, ma all’interno di regole che portano questa competizione a tradursi in uno spossessamento sempre più profondo ed esteso del resto della popolazione – e la frantumazione, la dispersione, lo sparpagliamento planetario (la delocalizzazione) e, infine, la debolezza dei fronti di lotta e dei focolai effettivi o potenziali di conflitto. Una debolezza che è difficile interpretare, ma ancor più difficile convogliare verso strade che prospettino un’inversione dei rapporti di forza proprio per l’alto livello di differenziazione sociale delle sue componenti.

 

Il Quinto Stato di Allegri e Ciccarelli interviene in modo appropriato – insieme a molti altri contributi che nel corso degli anni recenti hanno cominciato a dipanare la matassa della nuova composizione sociale dei conflitti e delle loro potenzialità ancora in gran parte inespresse – per costruire un repertorio delle diverse forme in cui questa composizione sociale si presenta, degli obiettivi espliciti o impliciti che esprime, delle forme di lotta intorno a cui tende a aggregarsi. E persino di una storia secolare di contrapposizione al potere secondo modalità difformi da quelle praticate dal movimento operaio: quelle che hanno finito per essere messe in ombra se non cancellate totalmente, come tutto ciò che in qualche modo risultava eterodosso, dalle scelte maggioritarie adottate dalla Prima, dalla Seconda e dalla Terza Internazionale e, poi, dalle organizzazioni – sindacati e partiti socialisti e comunisti – che ne hanno ereditato la cultura e le strutture.

 

 

A questa ricostruzione storica, sviluppata con significativa libertà dai vincoli di una indagine accademica e densa di spunti su cui riflettere, è dedicata la seconda parte del libro, “Una storia a contropelo”, mentre la terza parte – “Atlante del municipalismo” – affronta di petto la tematica delle forme di lotta e di organizzazione adottate dal “Quinto Stato”; ma anche, a monte di quella, il tema di una riformulazione degli obiettivi stessi del conflitto e di una diversa tavola dei valori che emerge dai comportamenti dei protagonisti di questi conflitti.

 

Balzano così in primo piano, come temi di assoluta attualità, tutti o quasi i processi organizzativi sulle “storie parallele” del movimento operaio rivalutate da una pubblicistica recente: in particolare le vicende delle società di mutuo soccorso e del movimento cooperativo, i motivi del loro successo e della loro eclissi e, soprattutto, le ragioni che ne rendono oggi attuale una riproposizione accanto ai temi più dibattuti dell’ecologia, del fai-da-te, dell’autoimprenditorialità associata, del reddito minimo incondizionato (cioè non subordinato all’esercizio di un’attività eterodiretta o alla disponibilità al lavoro salariato), del community organizing (organizzazione sindacale a base territoriale e multi-task), con una puntata eterodossa – per lo meno rispetto al modo in cui il termine viene percepito in Italia e in Europa – anche sul cosiddetto capitalismo cooperativo. Il tutto destinato a convergere verso una ricomposizione dei fronti di lotta e dei processi organizzativi su basi territoriali, attraverso la ripresa del tema generale, sviluppato nel tempo in chiave neo-marxista da Lefèbvre e Harvey, del “diritto alla città”. La città, la sua vita, la sua organizzazione spaziale e temporale, il suo sviluppo, le sue articolazioni interne come sede privilegiata se non esclusiva della trasformazione guidata dal nuovo soggetto della rivoluzione sociale: il “Quinto Stato”.

 

Giuseppe Allegri

 

Se su questi temi si riscontra un larga convergenza con molte delle elaborazioni teoriche e programmatiche che hanno cercato di adeguare il proprio approccio alle caratteristiche più originali dei conflitti in corso – il che non annulla né riduce, ovviamente, l’importanza dell’apporto di Allegri e Ciccarelli – la prima parte del libro – “Che cos’è il quinto stato?” – quella dedicata alla definizione o, in qualche modo, alla perimetrazione di ciò che va inteso come Quinto stato, appare sicuramente la meno convincente. Sia per la prospettiva decisamente ottimistica dell’approccio, che fa del Quinto stato un protagonista orami consolidato e vincente di una nuova concezione dell’esistenza destinata a proiettarsi su tutto il resto della società: un movimento, ma potremmo quasi dire una “formazione sociale” di soggetti senza patria, senza posto fisso, senza radici nel passato e senza prospettive escatologiche nel futuro, perché interamente radicato nell’esercizio della propria libertà giorno per giorno. Questo ottimismo contraddice frontalmente un clima di frustrazione, di depressione e di vero e proprio disarmo che attraversa verticalmente tutte le aggregazioni sociali di fronte all’impenetrabilità delle istituzioni di fronte alla miriade di lotte e di conflitti che pure le circondano e le incalzano da ogni lato.

 

Ma il Quinto stato viene qui presentato soprattutto un movimento a cui attribuire una sostanziale unitarietà di condizioni e di intenti, sottovalutandone probabilmente in misura eccessiva le infinite sfaccettature, la molteplicità delle collocazioni professionali e degli interessi a esse legati e, soprattutto, le differenze radicali delle condizioni materiali che continuano a esercitare un’influenza massiccia sui comportamenti quotidiani dei suoi membri, ma anche e soprattutto sulle modalità dei conflitti in cui sono impegnati e sulle prospettive di una loro seppur temporanea e provvisoria risoluzione.

 

Roberto Ciccarelli

 

Convergono infatti in questo conglomerato sociale delineato e perimetrato dal termine Quinto stato – a volte in aperta contrapposizione con il mondo dei lavoratori cosiddetti “garantiti”, le cui garanzie si stanno in realtà squagliando come neve al sole sotto i nostri occhi – quattro componenti fondamentali tra loro per nulla omogenee: l’esercito dei lavoratori precari, con contratti a termine rinnovati a scadenze sempre più strette e intervallati da periodi di disoccupazione sempre più lunghi, o con finte partite IVA dietro cui si maschera un lavoro totalmente subordinato; la schiera assai frastagliata dei professionisti senza ordine, per i quali la partita IVA – e tutto quello che ne consegue – non è uno stratagemma per mascherare un rapporto di lavoro subordinato, ma l’essenza di una attività e di una condizione in cui cercano e a volte riescono a riversare anche una parte consistente delle proprie competenze e di una personale creatività; i migranti sia clandestini che – ma solo temporaneamente – “regolarizzati”, la cui precarietà non è legata solo alla crescente instabilità del loro posto di lavoro, ma anche e soprattutto alla loro marginalità rispetto a tutta l’organizzazione sociale, giuridica e politica in cui sono immersi; e i “neet”, i giovani e ormai anche meno giovani “scoraggiati”, che non studiano più ma hanno rinunciato a cercare un lavoro; o quando lo trovano non ne fanno il perno di una riorganizzazione della propria vita.

 

Di categorie come queste ce ne sono poi tanti altre, ma vale la pena tener presente che gran parte dell’universo femminile vive da sempre in una condizione di subordinazione sia sociale che lavorativa in un universo ancora sostanzialmente – e forse anche in misura crescente – patriarcale. Questo universo ha costituito e costituisce per molti versi il modello a cui adeguare progressivamente anche l’universo maschile: per lo meno quello perimetrato dalla condizione di precarietà che accomuna, senza per ora unificare né socialmente né politicamente, le diverse componenti del Quinto stato. E ciò rende la ricomposizione di questo mondo ancora più complessa, anche se sicuramente più interessante e produttiva di novità radicali.

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