Jean-Luc Benoziglio. Il re di Francia, seguito e fine

18 Settembre 2012

Scrivere di un mondo che è per noi definitivamente perduto, raccontare di un secolo che non esiste più, non è cosa affatto facile. Del tutto priva di una sua immagine addomesticata perché non ancora disegnata secondo una rete di rimandi che la renda leggibile al nostro occhio contemporaneo, ogni epoca passata porta sempre con sé, nel momento della sua apparizione in un testo letterario, tutta la radicale estraneità del proprio mondo ris­petto al nostro. Come un naufrago sulla spiaggia, ogni secolo riemerso mostra sempre sul corpo le incrostazioni del mare che ha appena lasciato, immagini, segni linguistici per noi impensabili e che ne fanno, di fatto, un fascinosissimo mostro. Un animale sconosciuto. Ulisse sporco di sale che appare improvvisamente di fronte a Nausicaa sulla spiaggia dei Feaci.

 

Di incontri tra Ulisse e Nausicaa, nel panorama editoriale di questi ultimi anni, ce ne sono stati tanti. Moltissimi fallimentari, con la riproposizione di un passato ridotto a sbiadita immaginetta d’Épinal e piegato alle leggi di una fiction spesso davvero troppo convenzionale per essere credibile. Ma le poche volte in cui l’incontro è riuscito, le rarissime volte in cui Nausicaa ha davvero visto Odisseo, si è trattato sempre di un vero piccolo miracolo di scrittura. È stato così per Pascal Quignard con Tutte le mattine del mondo, per Pierre Michon con Les Onze e sembra essere così adesso per Jean-Luc Benoziglio con il suo Il re di Francia, seguito e fine (Ed. Casagrande, trad. di Maurizia Balmelli, pp. 170, € 16,50). In questo caso, il mare che si stende di fronte al nostro sguardo è quello della Francia rivoluzionaria di fine Settecento. Il naufrago, Luigi XVI, già sovrano del regno e adesso semplice cittadino in attesa di giudizio di fronte al Tribunale repubblicano. Mescolando indissolubilmente storia e fiction, Jean-Luc Benoziglio riprende in mano gli ultimi mesi di vita di Louis le Dernier ripercorrendone il corso accidentato fino alla sua tragica fine. Una fine, però, in questo caso, non sulla ghigliottina come tutti ci aspetteremmo, ma giù dalla tromba delle scale di un’anonima casa contadina nel paese svizzero di Saint-Saphorien. Un percorso accidentato, questa volta, non lungo le scale e i corridoi infiniti della prigione del Tempio come la Storia ci ha insegnato, ma in carrozza verso un esilio a vita nella zona francofona del cantone di Vaud.

 

Giocando al gioco del come se, dando un inaspettato giro di vite e un diverso finale agli eventi, Benoziglio regala infatti una seconda possibilità all’appena deposto re di Francia, graziandolo con l’esilio a vita, lasciando sua moglie, Maria Antonietta, suo figlio, il delfino, nelle mani della Convenzione e costringendo lui a una villeggiatura forzata sotto l’occhio placido e neutrale del Gran Consiglio di Berna. Da qui, tutta una serie esilarante di equivoci e incomprensioni tra un re non più re e i suoi nuovi titubanti vicini, a dir poco perplessi per l’ospite inatteso. Una storia di equivoci e incomprensioni non solo tra una persona e il suo involontario pubblico, ma tra un intero mondo e un altro.

 

“Per cui ecco, – proseguì il sindaco rivolto a Luigi, – c’è una roba… una cosa che noi, se premettete vorremmo chiedervi… Ecco…nonostante i… sussidi di Berna, inevitabilmente la vostra presenza in paese, voi mi capite, comporterà alcuni… costi, spese accessorie, uscite impreviste, soltanto la casa in cui alloggiate, mi spiego, prima o poi si contava di venderla, o demolirla e ricostruire sul terreno, per cui volevamo chiedervi, ovviamente in tutta libertà che cosa contavate di… fare. – Fare?!”.

 

Luigi XVI, il re che non sa “fare” nulla, il re taumaturgo, capace di guarire dalla scrofola i suoi sudditi – così come suo padre, suo nonno – con la sola imposizione delle mani e per diretta volontà di dio, è costretto adesso a fare i conti con il senso pratico, calvinista e paesano, dei notabili di Saint-Saphorien. Due universi inconciliabili, separati da un abisso di costumi, di abitudini, di fonduta e kirsch, ma anche e soprattutto da un abisso linguistico costruito su giri di frase, modi di dire, parole storpiate, zoppie sonore che fanno del libro un brillante repertorio di cultura linguistica settecentesca. E se è vero che la parola è anche, di fatto, la cosa che contiene, o perlomeno, se è vero che la parola indica e delimita le condizioni stesse di pensabilità del reale, Il re di Francia, seguito e fine sembra davvero portare in dono, con il suo passo leggero da opera semiseria, l’improvvisa riapparizione di un mondo. Un Settecento giustamente imperfetto, incrostato di termini desueti appiccicati al corpo del suo ultimo sovrano come scarti, granelli linguistici a noi lontani e, nello stesso tempo, inevitabilmente affini. Un Settecento superstite. Vero e proprio naufrago abbandonato sulle rive piatte della nostra contemporaneità.

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