Il Sessantotto di chi non c'era / Ho incrociato il 1968 nel 1998

5 Aprile 2018

La prima volta che incrociai il 1968 fu nel 1998. 

Avevo ventun’anni ed ero uno studente di Scienze della Comunicazione a Siena. Per un corso di multimedia qualcuno di noi insieme al suo professore progettò un CD-ROM interattivo, ormai consegnato all’archeologia dei dead media, che raccontava la cronologia del 68. Per il corso di Storia Contemporanea del professor Labanca, ognuno di noi doveva scrivere una tesina, un saggio di 3.000 parole, su un evento del novecento. Avevo una camicia a quadri da boscaiolo umbro e i miei gruppi preferiti erano i Nirvana e gli Smashing Pumpkins. Scelsi di fare ricerca su Pasolini, il 68, Valle Giulia. La tesina iniziava con le parole di PPP: “Smettetela di pensare ai vostri diritti, smettetela di chiedere il potere. Un borghese redento dovrebbe rinunciare a tutti i suoi diritti, e bandire dalla sua anima, una volta per sempre, l’idea del potere. Tutto ciò è liberalismo: lasciatelo a Bob Kennedy.” PPP era affascinante perché rappresentava una modello di intellettuale duro e puro, critico anche coi giovani sessantottini. 

Nel 1998 a Siena, tra noi studenti fuori sede si finì per discutere molto del 68, nell’unico bar “alternativo” della città, Il Pozzo, gestito da un veronese coi capelli lunghi fino ai fianchi che amava i Jethro Tull. Ci si vedeva lì tutte le sere, ma soprattutto il mercoledì sera, all’uscita dall’aula cinema della facoltà di Lettere, dove un collettivo di studenti curava una serie di proiezioni.

 

Quell’anno i film parlavano del 68. Ricordo bene solo Fragole e Sangue, Blow-Up, Zabrinskie Point e La Cinese. Ognuno di noi si era fatto la propria idea di quell’anno, un’idea mediata, di “seconda mano”, dalle riviste, dai film, dai libri, dai giornali. Qualcuno aveva anche qualche genitore “che aveva fatto il 68” e ai nostri occhi di ragazzi cresciuti nella medietà piccolo borghese di provincia acquistava subito, per linea ereditaria, un’aura da vecchio combattente. In particolare uno, il mio compagno di casa, un genio dei computer e delle reti informatiche, rappresentava il nostro contatto diretto più prossimo a quell’esperienza. Suo padre aveva studiato a Trento nel 68. Lui, suo figlio, era un hippy che maneggiava reti e computer. Ci iniziò a internet, alla net art (fu il primo a trasformare un’immagine digitale in codice ascii), alla letteratura beat, a Vautrin, a Marcuse, alla musica psichedelica e alla sua cultura e ci lasciò quello stesso anno per andarsene a vivere in una comune in campagna, fuori Siena. Aveva piantato in noi i semi della controcultura americana degli anni sessanta, mentre ci preparavamo all’esame di Storia Contemporanea leggendo Il secolo breve di Hobsbawm. Poi il 1998 finì, la copertura mediatica del trentennale del 68 sfumò e molti di noi partirono per l’Erasmus.

Quella fu la prima volta che incrociai il 68. Ne venne fuori un’immagine un po’ retorica, epica, a metà tra realtà e finzione.

 

 

La seconda volta che incrociai il 68 fu nel 2008. Di nuovo si tornava a parlare del 68 e della sua eredità. Nel frattempo erano passati quarant’anni ed ero uno studente di dottorato appassionato di media comunitari, alternativi, underground, civici, democratici, sociali o come vogliate chiamarli. Mi chiesero di partecipare a un libro collettivo sul 68 curato da due storiche. Scrissi un capitolo sull’uso della radio durante il 68, da Parigi a Città del Messico. Passai giornate intere in biblioteca alla Sormani e scoprii un bellissimo saggio della sociologa francese Evelyne Sullerot – Transistors e barricate (contenuto in Philippe Labro, Michel Manceaux (a cura di), Bilancio di maggio, Milano, Mondadori, 1968), che raccontava, tramite interviste, come i giovani di Parigi si fossero appropriati tatticamente delle radioline a transistor per amplificare il proprio messaggio nei giorni della protesta: “A un certo punto siamo andati alla Camera del Lavoro. C'era una brava donna col transistor. Tutti si fermavano a sentire. Poi commentavano. Ho provato l'esaltante impressione che ciascuno si trovasse in uno stato di piena coscienza. [...] Era una cosa che provocava in me, e in tutti quelli che ho incontrato, un'aspirazione profonda: essere degli attori informati – o degli ascoltatori attivi, come preferisce. Ah, che pubblico in gamba hanno avuto i transistors!”.

 

E ancora, quest’altra testimonianza: “Appena ho sentito un transistor, mi sono tirato su moltissimo. Hanno parlato di una trentina di barricate. Ho fatto un salto di gioia e tutti abbiamo gridato: “Non siamo soli!”. È stato per via della radio che ho preso coscienza del numero, dell'ampiezza. Prima mi sentivo solo. Iniziavamo a sentire colpi d'arma da fuoco. [...] poi si è avvicinata una donna con un transistor e abbiamo sentito “trenta barricate” e ho preso coscienza – ma forse era una cretinata – che almeno, se si moriva, si moriva con dei testimoni, collegati col mondo”. 

Sette anni prima, nel 2001, avevo incrociato temporaneamente amici che mi avevano aperto all’esperienza di Indymedia. E un anno dopo stavo scrivendo una tesi di laurea sulle web-radio come continuazione del movimento delle radio libere. Vedevo una linea invisibile che congiungeva tutte queste esperienze: dall’uso tattico dei transistor a Parigi, all’esperienza di Danilo Dolci con Radio Sicilia Libera a Partinico nel 1970, dalle radio libere italiane alle radio pirata londinesi degli anni dell’Acid House fino alle web-radio e Indymedia: movimenti sociali che in epoche diverse avevano reclamato, si erano riappropriati, di strumenti di comunicazione istituzionalizzati e li avevano sottratti alle istituzioni. Be the media, don’t hate the media. Scoprii un saggio di Michel De Certeau sul ruolo dei transistor a Parigi: “Il transistor, per i manifestanti, era l'informazione che ci si poteva portare dietro, che dava il potere di dominare la partita, invece di perdercisi, [...] e che, infine, trasformava gli attori in protagonisti, offrendo a ciascuno il mezzo per controllare l'informazione in tempo reale e per scegliere la propria mossa”. Dai transistor all’uso tattico dei media digitali durante i movimenti globali di protesta del 2011, e ancora prima del 2001, il passo era breve: i media elettronici erano stati strumenti di consenso e di commercializzazione, ma anche di democratizzazione e rivoluzione.

 

In quel capitolo riportai alla luce anche la storia di Radio UNAM, l’emittente dell’Università Autonoma di Città del Messico, che il 18 settembre del 1968 fu brutalmente chiusa dai militari per mettere a tacere la protesta degli studenti: “Radio Unam continuò a trasmettere finché i soldati non fecero irruzione negli studi in cerca di “armi e rivoltosi” e staccarono e tagliarono i cavi. Poco dopo arrivò un ufficiale di alto rango e io lo pregai di non toccare nulla, di non portare via nulla, perchè quello era un patrimonio culturale importantissimo ed inoltre era proprietà dell'Università. Ci arrestarono tutti e ci portarono fuori, insieme ad altre centinaia di studenti, riunendoci tutti sull'esplanade del Rettorato. Poi iniziarono a caricarci sui camion dell'esercito e ci portarono a Lecumberri, il carcere della capitale”.

"Unam, Universidad Nacional Autonoma de Mexico, teritorio libre de America", diceva una voce giovanile amplificata dagli altoparlanti. Poi gli altoparlanti si spensero e le Olimpiadi si svolsero senza problemi, fino al pugno alzato di Tommie Smith e John Carlos.

 

La terza volta che incrociai il 68 fu nel 2009, a Parigi. Finii per caso in una libreria che vendeva manifesti originali del 68, quelli disegnati dagli studenti della scuola superiore di belle arti di Parigi. Speravo di trovarci quel famoso manifesto in cui gli studenti si scagliavano contro la radio stato e avevano disegnato un cartello stradale con dentro un microfono e sopra scritto: “Attention, la radio ment”. “Attenzione, la radio trasmette fake news”, diremmo oggi. Non lo trovai e poi costavano troppo. Mi ricordai delle parole di Lindo Ferretti: “Non fare di me un idolo, mi brucerò” e capii che era stupido cercare di possedere un manifesto del 68 per adorarlo come un mito che non avevo nemmeno vissuto. Uscii a mani vuote. 

Questi sono gli incroci con il 68 di cui ho memoria. E sono tutti incroci mediati da tecnologie della comunicazione: libri di storia, CD-ROM, dischi, saggi filosofici, film, radio, affiches. 

Del 68 ho una percezione estremamente mediatizzata ed estremamente parziale. Non sono figlio del 68, non sono figlio di genitori che hanno fatto il 68, non sono nemmeno nipote del 68. Col tempo ho perso anche quel rispetto tardo-adolescenziale che avevo nei confronti del mito del 68. 

 

Credo che quel che so del 68 sia più mitico che reale. Ogni generazione ha il suo 68. Per me fu il 2001. Ma non mi piacciono le celebrazioni mediatiche per i decennali, i ventennali, i trentennali (ad libitum). Hanno l’aria stanca, ogni dieci anni sempre più stanca, di chi ricorda con nostalgia. La nostalgia è un sentimento personale molto importante, ma quando diventa collettiva è “pericolosa”, perché rischia di disinnescare la capacità collettiva di continuare a immaginare il futuro. Troppa energia collettiva rivolta verso il passato, con un occhio nostalgico e quindi indulgente, ci distrae dal presente. 

Inoltre il 68 gode di un riverbero mediatico superiore a qualsiasi altra celebrazione di qualsiasi altro movimento sociale globale, forse perché i giornalisti più importanti dei più rilevanti giornali nazionali sono stati giovani nel 68 e ogni dieci anni hanno l’occasione e lo spazio mediatico per ricordare con nostalgia o con rabbia la propria giovinezza. Il “come eravamo” è il peggiore servizio che l’informazione possa fare a una generazione ai movimenti che la animarono. Se invece vogliamo che una celebrazione conservi un po’ di senso, dovremmo concentrarci sull’analisi spietata del discorso e dei valori che quel movimento portava con sé e provare a trasmetterli a chi non li ha vissuti.

 

Io che non l’ho vissuto, il 68 l’ho visto, letto e ascoltato attraverso i media. In particolare, c’è uno slogan del 68, che mi è sempre piaciuto tanto. L’ho visto scritto per anni su un muro di Livorno, mentre andavo a visitare un amico degli anni di Siena: Sotto il pavé, la spiaggia.

 E forse, scrivendo questo pezzo ho finalmente capito che il 68 mi ha lasciato in eredità qualcosa: una certa passione per tutti gli usi non istituzionali, anti-autoritari, dei media, elettronici o cartacei, analogici o digitali. Questo è quello che ho imparato dal 68. Ma l’ho imparato soprattutto dai miei amici, mentre progettavamo un CD-ROM, studiavamo Storia Contemporanea e frequentavamo strani hippie esperti di computer. 

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