John Barth. L'algebra e il fuoco

12 Febbraio 2014

Basta una semplice ricerca sul sito web di una libreria online per rendersi conto di quanti pochi risultati pertinenti restituisca, in Italia, la keyword "letteratura postmoderna": con l'eccezione del buon lavoro di Remo Ceserani (Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, 1997), il nucleo forte delle pubblicazioni di area non accademico-specialistica poggia ancora sui classici di Umberto Eco, da Lector in fabula a Opera aperta. Basterebbe questo, e il confronto con la ricca produzione anglosassone, per assegnare un posto importante all'edizione italiana dei saggi di John Barth pubblicati da minimum fax sotto il titolo borgesiano di L'algebra e il fuoco (traduzione Damiano Abeni, cura di Martina Testa) .
    
Tra gli anni Sessanta e Ottanta Barth è stato uno dei più importanti esponenti del postmodernismo classico, quello cioè che ha preceduto l'elaborazione teorica e la new wave minimalista degli anni Ottanta e Novanta. Spesso associato ai grandi scrittori della tradizione postmoderna internazionale (Julio Cortàzar, Italo Calvino, Gabriel Garcia Màrquez) più che alla cerchia nutrita dei suoi connazionali (Kurt Vonnegut Jr., Paul Auster, Don DeLillo), Barth è autore di romanzi importanti nella storia della letteratura nordamericana della seconda metà del secolo scorso come La fine della strada del 1958 o Giles ragazzo-capra del 1966.

 

Nel nostro paese la sua fama è tuttavia legata maggiormente all'opera di teorico e professore universitario: da un lato grazie al ruolo di osservatore in presa diretta del nascere e dell'affermarsi appunto della sensibilità postmoderna; e dall'altro grazie ad una abilità non comune di adattare al linguaggio divulgativo un pensiero letterario e filosofico venato di teoria post-strutturalista e decostruzionista, una qualità questa che lo avvicina molto al nostro già citato Umberto Eco.

 

 

Barth è autore di racconti-simbolo del postmoderno nella sua fase di massima espansione (Perso nella casa stregata del 1968), di formule che hanno segnato il dibattito critico negli anni Sessanta e Settanta (dalla "letteratura dell'esaurimento", su cui torneremo, alla geniale formula "post-Vietnam, post-literary, postmodernist blue-collar neo-early-Hemingwayism" utilizzata per descrivere la narrativa di Raymond Carver). Soprattutto però è autore di saggi critici profondi e argomentati, la cui attenta selezione è il maggior pregio della pubblicazione di minimum fax.

Così il saggio Musa, risparmiamelo, più che una posizione critica convincente costituisce una stupenda istantanea del dibattito sorto in seno alla comunità letteraria sul primo nucleo di quella che sarebbe diventata la letteratura postmoderna americana degli anni Sessanta e Settanta, e che, con il termine 'postmoderno' non ancora entrato in ambito letterario, veniva raccolta sotto l'etichetta di Black Humorism. La letteratura dell'esaurimento, il testo forse più conosciuto di Barth al di fuori degli ambienti della critica letteraria, parte dall'opera di Borges per codificare un concetto molto utilizzato e spesso molto frainteso: quell'"esaurimento" che rimanda non tanto al ripiegarsi su sé stesso della letteratura (peccato originale del postmoderno agli occhi dei suoi detrattori) quanto piuttosto al tentativo di saturazione delle possibilità espressive della letteratura (dagli abbozzi di iper-romanzi borgesiani al Tentativo d'esaurimento di un luogo parigino di Perec, scritto comunque nel 1974 e quindi sette anni dopo il saggio di Barth).

 

Il testo sul romanzo storico e i granchi di Chesapeake affronta il problema epistemologico di quello che gli inglesi chiamano aboutness e noi traduciamo in mancanza di meglio 'riguardare', ma apre anche gli orizzonti del rapporto mediato che sussiste tra realtà e rappresentazione nella tecnica narrativa postmoderna. La letteratura della pienezza arriva nel 1979 a correggere e a mitigare le posizioni espresse dodici anni prima ne La letteratura dell'esaurimento, attestando il pensiero di Barth su quella moderata contaminazione di teoria letteraria tradizionale e innovazione che pervade anche l'importante saggio sul minimalismo del 1986. Realtà contro realismo del 1989 affronta da vicino quella che è forse la problematica più urgente della letteratura contemporanea (si veda in ambito letterario David Shields, Fame di realtà, e in ambito filosofico Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo).

 

La pubblicazione si chiude infine con una piccola gemma di testimonianza culturale, dove in una lista degli scrittori introdotti da Barth a conferenze e seminari nelle diverse università in cui ha insegnato veniamo a conoscenza, ad esempio, della straordinaria performance tenuta da Richard Brautigan alla State University di New York negli anni Sessanta, che comprendeva l'utilizzo di un mangianastri e segni di punteggiatura proiettati su uno schermo e che si concludeva con un anacronistico «Eccolo qui, gente: il Ventesimo Secolo!».

Barth è stato uno scrittore e un critico letterario della propria opera di scrittore e di quella dei suoi amici e avversari letterari. Ma è stato anche e soprattutto uno straordinario testimone della propria epoca, capace di osservare ciò che stava rapidamente cambiando intorno a lui (dalle arti intermediali al lavoro della casa editrice d'avanguardia Something Else Press di New York) e di inserirlo nella più ampia tradizione della letteratura occidentale senza pregiudizi antimodernisti e senza slanci iconoclasti. Nella voce pacata con cui affronta le problematiche della narrazione e del realismo, della formazione dello scrittore nell'epoca delle "scuole di letteratura per corrispondenza" e del ruolo del critico nell'epoca dell'ermeneutica gadameriana, si coglie in Barth la fiducia che, come scriveva Borges, le possibilità della letteratura non si possono mai esaurire perché non è possibile esaurire anche un solo libro.

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