Kiki de Montparnasse: una vita larger than life

25 Marzo 2023

“Kiki è sempre stata una sauvagesse cui non importava cosa le accadesse.”
John Glassco, Memorie di Montparnasse

Da un po’ di tempo a questa parte sembrano godere di un certo successo di pubblico i libri che raccontano in maniera romanzata le vite dei protagonisti del mondo dell’arte. Artisti e, finalmente, artiste, galleristi e galleriste, collezioniste e mecenati, figure eccentriche di sperimentatori e avanguardiste, per approdare a coloro che non hanno equivalente di genere, ossia le muse, categoria che per secoli ha goduto di uno status di venerabilità di cui oggi siamo inclini a vedere tutte le ombre, e per questo in fase di totale riconsiderazione

Se in passato avremmo potuto liquidare forse frettolosamente la figura di Kiki di Montparnasse inscrivendola in questa categoria, il libro di Mark Braude racconta la sua vita larger than life ricostruendone le vicende biografiche con minuzia da storico e contribuendo a restituire spessore artistico a una figura per lungo tempo considerata quasi esclusivamente come la compagna e – appunto – musa di Man Ray. 

“Eccovi un libro scritto da una donna che non fu mai una signora. Per circa dieci anni, come spesso capita, Kiki fu lì lì per essere una regina, ma questo naturalmente è molto diverso dall'essere una signora”, scrive Ernest Hemingway nell’introduzione americana alle memorie di Alice Prin che divenne Kiki, da cui Braude attinge per ricostruire l’affresco di due decenni folgoranti. Pubblicate all’età di trent’anni, con la prefazione entusiasta di Hemingway che proprio a Parigi aveva visto prendere il via la propria carriera letteraria grazie all’incontro con Gertrude Stein (e che racconterà quegli anni in E il sole sorge ancora, del 1926, e poi in Festa mobile, libro autobiografico uscito postumo nel 1964), le memorie di Kiki si aggiungono a una ricchissima bibliografia che puntella la rievocazione della vita dell’artista, al cui centro è incastonato il rapporto con Man Ray. Come è noto, i due sono i protagonisti di una reciproca, conflittuale passione che li lega per alcuni anni ed entrambi sono figure chiave della comunità di artisti di Montparnasse che prende vita nelle pagine: Cocteau, Picasso, Tzara, Chagall, Apollinaire, Desnos, Fujita, Breton, Brancusi, Leger, Braque, il mercante d’arte Henry-Pierre Roché, Sylvia Beach della libreria Shakespeare & Company, Stein, Toklas, Soutine, e poi i Fitzgerald che trascorrono le estati in Riviera, i ricchi coniugi Wheeler e tutti gli altri della “generazione perduta”, amici e sodali.

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La scena è quella di Parigi, il periodo i cosiddetti année folles, quel fatidico arco temporale in cui tutto accadde, una parentesi tra le guerre e uno dei momenti culturalmente più fervidi del secolo. Il contesto è noto, ed è la piccola ma nutrita enclave che si forma grazie agli artisti che accorrono da tutta Europa e dagli Stati Uniti a popolare “il Quartiere”. I Montparnos, così vengono chiamati, sono bohémien, uomini e donne presi dalla febbre dell’arte, in cerca di fortuna e di una comunità all’interno della quale poter dare piena espressione alle proprie tensioni esistenziali. Refrattari alle regole della morale borghese, individualisti e cosmopoliti, animati da una brama di riscatto sociale e da un vitalismo selvaggio, sono spesso sradicati, apolidi o migranti, provenienti dalle classi sociali più basse, attirati dal miraggio di anticonformismo e libertà che solo una grande metropoli come Parigi può promettere. Sono però anche ciò che la borghesia desidera, i freaks, eccentrici da osservare come animali esotici allo zoo e che costituiscono l'eccezione alla regola ma che non mette davvero in discussione lo status delle cose. Sono il frutto romanticizzato di un’epoca dissennata, le rose (parafrasando Jean Genet) del modernismo. 

La tragedia collettiva della Grande Guerra, a cui si aggiunge il flagello dell’influenza spagnola, che nelle ondate del 1918 e in quelle successive miete milioni di morti, sono i due macroeventi che modellano ferocemente le prime decadi del secolo e attraverso i quali vanno considerati il fenomeno delle avanguardie e le personalità che si raccolgono nel Quartiere. 

“Coloro che nella prima gioventù non erano stati testimoni d’altro che di morte e distruzione, coloro che erano sopravvissuti a quel cataclisma di stupidità (che sembrava destinato a non aver mai fine) si volsero con una sorta di febbre alla vita”, scrive Philippe Soupault. “La mia generazione voleva essere viva a tutti i costi. Volevamo amare la vita, per la quale avevamo ragione di provare disgusto. E l’amammo.”

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Kiki at luncheon party 1920s.She is holding Tsuguharu Foujita via dailyartdaily com.

Il racconto di Braude si apre durante una serata del 1925 al Jockey, per un periodo il locale preferito di Kiki. La donna si esibisce con il suo repertorio di canzoni anacronistiche, una voce calda e una vibrazione drammatica che tocca il pubblico. Quando canta le sue canzoni oscene – e non sempre ci riesce, perché spesso è troppo ubriaca – emana un magnetismo che ha scoperto di possedere suo malgrado. È sfacciata e irriverente, ammaliante e spesso imprevedibile. Talvolta eccessiva. Esibendosi nei bar per raccogliere qualche soldo, vendendo i propri ritratti agli avventori, fa esperienza di quell’umanità che diventerà il suo pubblico. Riesce così a sbarcare il lunario in maniera creativa, senza avvilirsi in lavori meschini che le rendono comunque una paga da fame. Ha scoperto di saper cantare, quasi non credendoci, un po’ come ha scoperto il piacere di posare come modella per gli artisti. Che la sua vita diventerà la sua opera d’arte più importante, la sua performance, invece, è ancora lontana dall’intuirlo. 

Alice Ernestine Prin nasce il 2 ottobre 1901 nella campagna della Borgogna, a Châtillon-sur- Seine, duecentoquaranta chilometri a sudest di Parigi. Terzogenita illegittima (e unica sopravvissuta) di un carbonaio e di una povera ragazza di diciotto anni, viene abbandonata insieme alla madre Marie. Alice cresce con i nonni insieme ai cugini, mentre la donna lavora come infermiera in un ospedale in città. A dodici anni la raggiunge a Parigi, dove nel frattempo Marie ha trovato lavoro come linotipista a Montparnasse. Orgogliosamente borgognona, come sempre rivendicherà nella sua vita a venire (l’identità contadina, popolare, costituirà una parte rilevante del suo personaggio, conservando quella naïveté e quel senso di vicinanza verso gli ultimi che saranno un suo tratto distintivo), Kiki inizia a lavorare a tredici anni. Allo scoppio della Grande Guerra va a vivere dalla zia Laure a Troyes, dove trascorre un periodo relativamente felice, insieme alla cugina Madeleine con cui è cresciuta dai nonni. Torna a Parigi nel 1916, non potendo più lavorare a causa di un incidente. Le vicissitudini lavorative e la povertà la spingono a posare come modella, prima con timore e imbarazzo per la nudità da esibire, poi sempre più convintamente, malgrado la netta opposizione della madre. A sedici anni guadagna posando per gli artisti locali e comincia una vita disordinata, all’insegna della sperimentazione continua, che sarà una costante degli anni più fertili della sua esistenza. Ben presto comincia anche a fare uso di cocaina, un’altra abitudine che la accompagnerà sempre, insieme al consumo smodato di alcol fino ad arrivare all’eroina, dipendenze che la condurranno più volte in cliniche di riabilitazione. 

Montparnasse, nei primi anni del secolo, vede il moltiplicarsi di studi di artisti che trovano affitti a basso costo in posizioni strategiche, non lontano dall’Ecole des Beaux-Arts e da altre accademie private, sorte rapidamente sull’onda di una domanda crescente, come l’Académie Colarossi. Montmartre era stata la casa degli Impressionisti ma una nuova generazione di artisti si affaccia alla scena e cerca un luogo più autentico dove stabilirsi. Nel 1912, anche Picasso si trasferisce nel Quartiere, contribuendo ad alimentarne la fama. 

Oltre agli studi degli artisti affermati e di quelli di belle speranze, sono proprio i bar, i ristoranti con le piste da ballo improvvisate, le terrasses della Rive Gauche i veri centri della vita creativa del quartiere. Il Jockey, il Café de la Rotonde, il Dome sono il palcoscenico dove Kiki si esibirà come cantante e dove costruirà il suo mito, dapprima restia e poi sempre più consapevole del proprio ascendente sul pubblico. La sua prima relazione è con il pittore Moise Kingsley, poi con Maurice Mendijzky. Il ruolo di modella e di amante si sovrappone, come accadrà anche con Man Ray.

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È l’inverno del 1921 quando i due si incontrano per la prima volta. Sbarcato a Parigi come molti altri statunitensi alla ricerca di nuove prospettive e del fervore della capitale francese, Man Ray ha trentun anni e una carriera da pittore non ancora decollata. Può contare però sull’amicizia di Marcel Duchamp con cui ha condiviso un periodo di vita a New York, dove è entrato in contatto con altri artisti tra cui Djuna Barnes, Edgard Varèse, Mina Loy, Joseph Stella, Berenice Abbott, Arthur Cravan. Di origine ebraica, figlio di una coppia di sarti, Emmanuel Radnitzy detto Manny, che diventerà Man Ray, porta con sé a Parigi l’accento di Brooklyn, un talento manuale ereditato dai genitori e, come molti coetanei, grandi ambizioni. La sua relazione con Kiki è complicata: si conoscono a una cena di amici, poi lui la invita a posare per le sue fotografie. Lei prima declina, perché sostiene che “un fotografo fissava soltanto la realtà”, poi accetta. La volta successiva finiscono a letto insieme, e da lì in poi Man Ray la ritrae centinaia di volte, come ossessionato da “la piccola Kiki”.

La carriera di Man Ray decolla grazie anche a dei fortunati scatti per Paul Poiret, ex signore dell’haute couture desideroso di rinnovare l’immagine della propria casa di moda. In quell’occasione Man Ray organizza un set con mezzi di fortuna ma intuisce la potenzialità di fotografare la moglie di Poiret che indossa un abito del sarto accanto alla Maiastra di Brancusi. L’effetto è dirompente e Man Ray inventa un nuovo modo di interpretare la fotografia di moda, settore ancora tutto da inventare. Il rapporto con il mondo della moda si consoliderà e nel tempo, e oltre a diventare un ritrattista delle celebrities, Man Ray realizzerà servizi per Vogue, Harper’s Bazaar, Vanity Fair, immortalando le creazioni di couturier come Elsa Schiapparelli. Braude regala al lettore dettagli gustosi e la ricostruzione, nel suo farsi, di alcuni dei ritratti più noti che Man Ray realizza con Kiki. Nel 1924 crea Le violon d’Ingres: la schiena nivea, sinuosa di Kiki, le due effe che rimandano al violino, strumento amato da Ingres, il turbante che rimanda al gusto orientalista compongono uno degli scatti più conosciuti di tutto il Novecento, dall’impronta smaccatamente surrealista. Nel 2022 la foto è stata battuta per 12,4 milioni di dollari, diventando la singola fotografia con la quotazione più alta di sempre. Chissà cosa ne avrebbe pensato Kiki, che finirà i suoi giorni, per una crudele beffa del destino, senza neppure i soldi per poter essere sepolta nel cimitero di Montparnasse.

Ma torniamo ai Roaring Twenties: la carriera di Man Ray si consolida, le attività fervono. John Glassco, nel suo Memorie di Montparnasse, scritto nel 1928, restituisce al lettore una descrizione precisa di Kiki nel momento più fulgido della sua vita:

“Fra gli ospiti c’era anche la celebre Kiki. A quel tempo, come nuovo arrivato a Montparnasse, non ero consapevole del suo status di regina accreditata del quartiere; ma non ci si poteva sbagliare sul magnetismo della sua personalità, sul fascino della sua voce, o sulla bellezza eccentrica del suo volto. Il suo maquillage era un’opera d’arte in sé: le sopracciglia erano completamente rasate e rimpiazzate da linee delicatamente incurvate come l’accento sulla n spagnola, le ciglia erano cariche di almeno un cucchiaino di mascara, e la bocca, dipinta di un profondo scarlatto che sottolineava l’umorismo furbo ed erotico dei suoi contorni, ardeva accanto al bianco gesso delle guance, su cui con arte consumata, appena sotto l’occhio, era disegnato un unico neo. Il suo viso era splendido da qualunque angolazione, ma mi piaceva ancor di più di profilo, quando mostrava la purezza di linee di un salmone ripieno. La voce bassa e roca snocciolava innocue oscenità; i suoi gesti erano pochi, ma espressivi. La pena adeguata per un giornalista arrestato di recente per ricatto, stava suggerendo, sarebbe stata buttarlo in una latrina pubblica. «Et puis – la corde», ha mormorato, piegando leggermente le ginocchia per tirare una catena immaginaria.”

Oltre a esibirsi e lavorare con Man Ray, Kiki dipinge acquerelli e sperimenta con la pittura. Sembra non dare troppo peso alla sua attività di pittrice, benché Roché le riconosca un talento, e affermi che le tonalità e il suo segno gli ricordino Matisse. Nel 1926 Kiki realizza una mostra informale dei suoi dipinti al piano terra dell’Hotel Raspail, la prima, e vende tutte le opere (forse acquistate da Roché). Nello stesso anno Man Ray realizza lo scatto Noire et Blanche, in cui ritrae Kiki sdraiata, la testa reclinata sul tavolo e gli occhi chiusi, mentre sorregge con una mano una maschera africana. Verrà Pubblicato su Vogue e diverrà un’altra delle immagini più popolari dell’artista, un’immagine che incarna quella che Braude definisce “la voga francese del feticismo della negritudine”, un’altra declinazione di quel Primitivismo che è già stato ampiamente indagato a partire dalla metà dell’Ottocento, fino a diventare elemento essenziale nella grammatica cubista e in tante ricerche coeve. 

In quegli anni, Kiki e Man Ray compongono una coppia artistica a tutti gli effetti: lei modella, musa, organizzatrice delle attività, lui già stella dell’avanguardia. La loro sarà sempre una relazione dialettica, tra litigi furiosi e riappacificazioni, tra ritorni al paese natio in cerca di pace dopo sbornie colossali e stravizi e fughe a sud, verso il mare della Riviera, tra notti piene di jazz e albe allucinate. Il confronto intellettuale, la tensione verso un progetto esistenziale in cui l’arte è il denominatore comune li terranno uniti, e anche una passione mai addomesticata. Ma mentre Kiki sarà sempre aperta e protesa verso l’uomo, lui si rivelerà possessivo e riluttante nel dimostrare i propri sentimenti, animato da un’invidia verso la donna ammaliante e vitale che emerge dalle pagine di Braude. Sebbene sostenga e alimenti il desiderio di sperimentazione artistica di Kiki, Man Ray non partecipa alla sua mostra, si sottrae, è spesso ostile, e infine non si recherà neppure al funerale della donna. 

La figura di Man Ray che emerge dalla penna di Braude è quella di un uomo carismatico ma duro, geloso, completamente votato alla propria affermazione, egoriferito e piuttosto avido; e, considerandosi primariamente un pittore, forse mai davvero appagato dal successo raggiunto con la fotografia, nonostante il valore eccezionale della sua ricerca. “Sono stata io a dargli il suo genio”, dichiara Kiki, e se da un lato le sue sembrano le parole di un'amante delusa, dall’altra contengono di sicuro una parte di verità. 

All’inizio del 1929 Kiki e Man Ray si lasciano, forse perché, come scrive la donna nelle sue memorie, lui non vuole darle un figlio. Man Ray invece lascia trasparire un allontanamento di Kiki dovuto alla crescente popolarità di lei e a una sua nuova relazione con l'uomo con cui lavora alle bozze del suo libro di memorie, Henry Broca, con cui successivamente andrà a convivere. Man Ray incontrerà nello stesso anno la giovane fotografa Lee Miller (allora modella), con cui avrà una relazione di tre anni e da cui subirà una rottura dolorosa. Anche Kiki ha altre relazioni e per tutti gli anni ‘30 si esibirà nei locali, fino letteralmente a consumarsi. Nell’ultimo periodo della sua vita sarà una donna appesantita e obnubilata dagli eccessi, l’ombra della stella di soli vent’anni prima. Morirà improvvisamente a cinquantadue anni, stroncata da un malore.

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Man Ray Kiki de Montparnasse 1926.

Leggendo il libro di Braude viene voglia di andare a cercare i documenti e le foto dell’epoca, di ascoltare ogni canzone cantata nei cabaret, di farsi dare un passaggio a mezzanotte come Gil Pender, lo scrittore che torna alla Parigi degli anni ‘20 di Midnight in Paris di Woody Allen. La rievocazione della Rive Gauche e la vita di Kiki, che riuscì a incarnare lo spirito del proprio tempo come nessun'altra. Riferendosi al gruppo degli artisti di Montparnasse, scrive Braude in conclusione al suo libro: “Kiki non dominò nessuno di costoro. Invece li influenzò tutti, come loro influenzarono lei. Sviluppandosi in sintonia con loro, osservandoli mentre diventavano quello che erano, sfidandoli e scherzando con loro e tramite loro, lei stessa svolse un ruolo nel plasmare la storia culturale degli ultimi cento anni.”

Kiki ci appare oggi come una figura modernissima, influencer ante litteram, musa e popolana, local icon e agitatrice culturale. Grazie alla sua intelligenza, a un talento irregolare e al suo essere una donna sempre e completamente libera, autodeterminata, Kiki divenne la Reine du Montparnasse e l'incarnazione di una sensibilità e di un’estetica innovative. Non solo la compagna di Man Ray ma colei che contribuì in maniera sostanziale alla realizzazione della sua opera. In termini di manufatti, di lei non rimane quasi più niente, niente su cui pesare la bilancia del suo effettivo talento. Abbiamo invece gli scatti di Man Ray, i suoi film sperimentali, i dipinti, tutto documentato, storicizzato, feticizzato, tutto raccontato nel suo farsi nelle pagine di Braude. La storia dell’arte è stata fatta dagli uomini, ed è ancora arduo ristabilire ciò che è stato obliato e che è stato sistematicamente negato nel proprio valore, sminuito. Anche Kiki, come la maggior parte delle donne artiste vissute prima della metà del Novecento ha subito questa colpevole rimozione.

“Mi trasformarono in un’immagine: “Kiki”, e io fui obbligata a corrispondere a questa immagine, anche quando non me la sentivo, perché Montparnasse non sarebbe esistita senza Kiki. Ero parte del paesaggio”, scrive nelle sue memorie. Ha ragione Kiki, la sua autoconsapevolezza coglie nel segno. Quello che resta, oggi, è l’impossibilità di separare la donna, il personaggio e un contesto così peculiare. Kiki è e sarà per sempre, soprattutto, Montparnasse, un luogo e un momento fiammeggianti e irripetibili, fatti di miseria e bellezza, una comunità utopica che ha orientato in maniera profonda la storia culturale di tutto il secolo. Rimangono le opere degli altri, di chi l’ha amata, conosciuta e osservata regnare in quel teatro sociale, a restituirci qualcosa di quei fuochi, e quella frase che Life riporta nell’articolo di commemorazione dopo la sua morte, apparso nel giugno del 1953, con le parole di un amico anonimo: “Abbiamo riso. Mon dieu, quanto abbiamo riso.”

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