Man Ray: dare forma alla luce
Se oggi la fotografia è considerata a tutti gli effetti un’arte, e non più una sua ancella, molto si deve a Man Ray, al suo genio creativo e dissacrante, alla sua inventiva di sperimentatore (nel senso vero, etimologico, del termine, ovvero di chi cerca ogni volta nuove vie, tenta nuove strade). La sua opera ha, infatti, provocato un’autentica rivoluzione in ambito fotografico, che ha inciso nella sua collocazione tra i linguaggi della contemporaneità: dalla posizione marginale che fino a quel momento aveva, la fotografia si sposta nel giro di pochi anni al centro della scena. Di quella artistica, proprio attraverso l’affermazione delle avanguardie (Man Ray è uno dei protagonisti assoluti); di quella della comunicazione, attraverso la diffusione di massa dei giornali illustrati. Anche grazie al lavoro di un autore come Man Ray, alla metà degli anni trenta del Novecento, la fotografia si è già avviata a essere il principale linguaggio per immagini del secolo, in grado di permeare ogni ambito della società, in ogni angolo del mondo.
E pensare che Emmanuel Radnitzky (questo il suo vero nome, mutato poi nel più eloquente “Uomo Raggio”) aveva iniziato la sua carriera artistica come pittore e scultore, e aveva imparato la fotografia da autodidatta per documentare e pubblicizzare le sue opere. Nel 1920 l’influente collezionista Katherine S. Dreier gli chiede di fotografare molti pezzi della sua collezione. «Il solo pensiero di fotografare le opere altrui mi ripugnava profondamente, offendeva la mia dignità di artista», ricorderà poi nella sua autobiografia, Autoritratto (Abscondita, 2019), ma ha bisogno di soldi. E da quel momento non abbandona più la fotografia, anche grazie ai consigli dell’amico Marcel Duchamp, che in quegli anni incontra spesso nel suo studio di New York. Proprio qui, nel 1920, realizza una delle sue immagini più misteriose e significative: “Élevage de poussière”, nella quale è rappresentato un particolare del “Grande vetro” (l’opera alla quale l’artista francese avrebbe lavorato per tutta la vita) ricoperto di polvere e fotografato da distanza ravvicinata.
Pubblicata per la prima volta sulla rivista d’avanguardia parigina “Littérature”, questa immagine lo consacra come uno degli artisti-fotografi più influenti del Novecento. Uno sguardo obliquo a una superficie misteriosa, senza un chiaro soggetto o dimensione, è da molti considerata l’immagine visionaria di un pioniere della fotografia ed emblematica del genio di Man Ray, capace di esplorare nuove angolazioni e nuove relazioni tra immagine e linguaggio, interrogando lo status incerto della fotografia a metà tra documento e opera d’arte.
La figura poliedrica di Man Ray è ora indagata nella mostra dal titolo Forme di luce, a cura di Pierre-Yves Butzbach e Robert Rocca, che Milano gli dedica a Palazzo Reale, fino all’11 gennaio 2026 (catalogo Silvana Editoriale). Quasi trecento opere tra fotografie, film, oggetti e disegni, che raccontano il percorso multiforme di questo artista.
Americano di nascita, all’inizio degli anni venti, poco più che trentenne, Man Ray si trasferisce a Parigi, allora capitale mondiale delle arti. Qui attrezza la stanza dell’albergo dove vive creandovi all’interno una piccola camera oscura, dove può stampare le fotografie che realizza per lo stilista Paul Poiret e i ritratti del mondo intellettuale parigino (molti visibili anche in mostra), che nel giro di pochi anni lo faranno diventare una figura di riferimento.
La retrospettiva milanese si sviluppa in più sezioni tematiche, concentrandosi soprattutto sugli autoritratti e sui celebri ritratti femminili che hanno reso Man Ray un’icona dell’immaginario erotico moderno. Per il maestro americano il ritratto rappresenterà ben più di una semplice fotografia, ma un terreno di sperimentazione. Tra le opere più celebri esposte troviamo “Le Violon d’Ingres” (1924), il dorso nudo di una donna trasformato in uno strumento musicale grazie a due effe disegnate sul corpo, e il magnifico “Lacrime di vetro” (1932), volto in primissimo piano di una modella da cui scorrono gocce finte, quasi gioielli sentimentali.
Arte, ricerca, sperimentazione, ma anche professione: questa la fotografia per Man Ray, questo l’ambiente all’interno del quale la fotografia assume un ruolo nuovo nel sistema artistico, vale a dire il mondo delle avanguardie storiche di inizio secolo. In questa direzione il percorso espositivo non si limita all’estetica: racconta anche l’evoluzione personale dell’artista, dalla New York dadaista al fervente clima artistico del Montparnasse parigino degli anni venti, dove conosce e fotografa artisti come Picasso, Modigliani, Kiki de Montparnasse, André Breton, Lee Miller (splendide le immagini con lei protagonista).
Man Ray, come la maggior parte degli autori Dada del periodo, non opera mai attraverso un solo medium: il superamento delle barriere disciplinari è una fondamentale caratteristica che unisce tutti o quasi i rappresentanti delle avanguardie storiche. Tra le forme espressive frequentate dall’artista c’è anche il cinema, come bene mette in luce l’esposizione, con la proiezione dei quattro film da lui realizzati completamente, tra cui L’Étoile de mer, girato nel 1928, ispirato a una poesia letta dal suo amico Robert Desnos in occasione di una cena, poco tempo prima della sua partenza per un viaggio di due mesi.
Nella retrospettiva milanese non potevano mancare le rayografie che hanno reso celebre e unico il lavoro di Man Ray. A proposito di questi lavori, l’artista ha raccontato di avere cominciato a realizzarli quasi per caso. Lavorando fino a tardi in una camera oscura improvvisata, mentre sviluppava delle lastre fotografiche e stampava alla luce di una lampada rossa a soffitto, osservò un fenomeno sorprendente: le forme degli oggetti si imprimevano sulla carta dando vita a immagini di una stranezza affascinante. Quando scoprì quelle immagini sorprendenti, Tristan Tzara, che alloggiava nel suo stesso albergo, condivise il suo entusiasmo. Man Ray battezzò quell’invenzione rayografie. L’autore farà risalire questi lavori a errori in camera oscura: l’errore – come l’attività dell’inconscio – non è più un elemento da nascondere, da eliminare perché testimonianza di incapacità tecnica e mancanza di controllo, ma è invece un ampliamento delle possibilità dell’artista, che deve saperne sfruttare le potenzialità.

Anche attraverso questa ricerca il maestro americano elimina le barriere disciplinari, le specificità, mettendo sullo stesso piano tutti gli strumenti e non affidando più alla tradizione il giudizio sulla minore o maggiore importanza di un’opera a seconda della tecnica con cui è realizzata. Le abilità artigianali non bastano più, anzi, risultano inutili; ciò che conta è il pensiero, capace di utilizzare anche il caso come fonte non solo di ispirazione, ma di creazione dell’immagine. Non è forse questo ciò che informerà, qualche decennio dopo, anche i grandi fotografi americani, come Evans, Friedlander, Eggleston, Shore, Sternfeld, seppure con tecniche e modalità diverse? O ancora, sul fronte italiano, autori come Luigi Ghirri, Mimmo Jodice, Mario Cresci, Olivo Barbieri, Franco Vimercati, artisti-fotografi che hanno spinto più in là le possibilità della fotografia come “avventura del pensiero e dello sguardo”.
Non si può allora non essere d’accordo con i curatori della mostra quando nel saggio introduttivo del catalogo scrivono: «Là dove alcuni artisti cercano di catturare la realtà, Man Ray si dedica a reinventarla. Più che un fotografo è uno sperimentatore, un provocatore che rifiuta qualsiasi compromesso. La sua opera è permeata da una ricerca assoluta della libertà e sfida le norme stabilite. Ancora oggi il suo lavoro sfugge ai tradizionali inquadramenti della storia dell’arte: attraversa le epoche, ispira i creatori, interroga i sognatori e rammenta che l’arte non è semplicemente una rappresentazione del mondo, ma un invito a vederlo in maniera diversa».
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