Le prefigurazioni di Paolo Volponi

6 Febbraio 2024

L'inafferrabilità della volpe

Dopo Levi, Fenoglio, Pasolini, Zanzotto, Bianciardi, Calvino è la volta di Paolo Volponi. L’occasione offerta dai “centenari”, al di là dei rituali, riguarda la domanda circa l’attualità odierna degli autori del Novecento, il secolo che pare a un tempo così remoto e di là da venire. Applicati alla circostanza di un centenario, i due modelli con cui si può pensare la temporalità, la linea e il circolo, possono esitare il primo nella museificazione, il secondo nella domanda impietosa sul senso di quei testi per noi, ossia sul loro contenuto di verità. Le aporie della temporalità fanno irrompere nel nostro presente la voce di quell’autore: ciò implica una verifica dello stato della ricezione e, al contempo, la domanda su cosa sia vivo e cosa sia morto della sua testualità. 

La voce di Volponi, per chi l’ha udita, conserva un timbro memorabile: una creaturalità vocale ritmica e baritonale, sempre sospesa fra l’invettiva e l’utopia. La sua scrittura, figlia di quella vocalità, mescola lo statuto dei versi con quello della prosa e sembra possedere, per carica figurale, qualcosa di inafferrabile, come il procedere della volpe, l’animale con cui questo scrittore si è maggiormente identificato, e non solo per ragioni onomastiche: 

Da ragazzo ho vissuto molto in campagna, e Urbino aveva un cielo molto popolato, colombi, rondini, passeri, merli, tortore, gufi, civette, erano tutti presenti nella mia testa e nel mio animo. E poi altri animali che sentivo vicini, non gatti o cani, ma animali selvatici. Ho ancora delle inquietudini da selvatico: mi piace chiamarmi Volponi e penso all’eroismo della volpe che, presa in trappola, si morde la zampa pur di scappare. Io sono cosí, non riesco a rimanere chiuso in trappola e mi strappo la gamba pur di scappare» (P. Volponi, Quello che sarà domani non ha una forma già prestabilita, intervista a cura di E. Zinato, Urbino, 4 gennaio 1994, in Scritti dal margine, Manni, Lecce 1994, pp. 196-97). 

In tal modo, proprio questa “diversità”, segnalata a fine secolo da Alfonso Berardinelli e da Gian Carlo Ferretti, ha generato la considerazione di questo autore come di un unicum, non collocabile nel canone oscillante e affollato del Novecento. Una condizione di svantaggiosa eccentricità è confermata dalla manualistica: dopo la coraggiosa inclusione di un intero Primo piano sul Pianeta irritabile nell’edizione maior del manuale di Romano Luperini, Pietro Cataldi e Lidia Marchiani (La scrittura e l’interpretazione), lo spazio dedicato a questo autore dalle antologie, ritenuto “troppo difficile” per gli studenti, è andato azzerandosi. Volponi resta, per idee e per forme, uno scrittore marginale, anti-canonico e irriducibile. D’altro canto, i più raffinati contributi degli ultimi due decenni che muovono dai fatti di stile, tendono a registrare nella lingua volponiana soprattutto ossimori, cortocircuiti e contraddizioni. Pier Vincenzo Mengaldo (1994) allude alla forma ossimorica e visionaria dei romanzi, da Corporale a Le mosche del capitale, in cui predomina «l’accavallarsi di monologhi, di masticazioni potenti e insieme impotenti del mondo». Di sintassi «soluta» con riferimento alla Macchina mondiale ha parlato Paolo Zublena (2002). A sua volta Piero Dal Bon (2008), nel tentativo di tracciare un profilo delle strutture della prosa volponiana rinviene un modello schizomorfo («l’indistinzione dei confini tra io e mondo») e sfuggente («una scrittura che scappa da tutte le parti») che soggiace a tutte le scelte formali. 

Senza negare l’ardua densità figurale e il momento marcatamente sperimentale delle opere di Volponi, credo che oggi si possano riscoprirne la praticabilità e l’attualità potenziali a partire dal trattamento di tre nuclei tematici prefiguranti: i conflitti del lavoro, la vita psichica, la distruzione ambientale.  

La rappresentazione del conflitto operaio

Una prima ragione di valorizzazione della scrittura volponiana viene dalle forme con cui i suoi testi hanno saputo “cantare” i conflitti lavorativi e la loro messa al bando.

Negli anni della pubblicazione del primo romanzo di Volponi (Memoriale, 1962) e del dibattito su industria e letteratura promosso da Elio Vittorini, i conflitti, che alla Fiat si risolvevano con i reparti confino e con i licenziamenti, all’Olivetti venivano ricomposti nell’azienda: gli operai in difficoltà giungevano agli psicologi su proposta del medico di fabbrica, dell’assistente sociale o dell’ufficio del personale. Volponi, che a Ivrea dirigeva i servizi sociali, si trovava nel cuore di questi processi: Memoriale, tuttavia, sottopone a un’ambigua verifica finzionale l’utopismo industriale del suo stesso autore, partendo dagli equivoci e dagli scarti della ragione aziendale più avanzata. Il nucleo generativo del romanzo è dato da una breve lettera indirizzata nel 1958 ad Adriano Olivetti da un operaio tisico, in preda al delirio persecutorio. L’intero romanzo è strutturato su un processo di alternanza pendolare tra inclusione ed estraneità all’industria: una oscillazione omologa alla gestione dello spazio, poiché l’io narrante transita quotidianamente in treno dal paesaggio rurale del lago di Candia alla città industriale dove lavora. Inoltre, chi nel testo dice “io”, un contadino-operaio, è anche portavoce delle lacerazioni dell’autore e intrattiene con la biografia autoriale un legame non reciso: la sua, come ha scritto Pier Paolo Pasolini, è a un tempo la voce di un operaio-contadino e la voce di un poeta. I mali, a cui il protagonista si rivolge come fossero dotati di soggettività autonoma, sono insieme il frutto della sua immaginazione inattendibile e il documento della sofferenza operaia e una simile rappresentazione, nell’ambito di un’azienda come l’Olivetti che sull’inclusione del lavoro basava gran parte del suo programma, poteva risultare eretica o allegorica. 

Nella vicenda delle Mosche del capitale (1989), l’ultimo romanzo di Volponi, l’operaio calabrese immigrato Antonino Tecraso è il solo personaggio a non mutarsi in una marionetta o in una mosca cocchiera del capitale. L’invenzione di Tecraso è parte di un più vasto romanzo incompiuto sui detriti della centralità operaia: fra le carte relative alle Mosche è presente infatti un progetto romanzesco (variamente denominato negli appunti autografi «Via dell’Orma», «L’operaio», «T. T.», «La ragazza») sulla riarticolazione robotica del comando nelle fabbriche. Il libro intero si pone il compito di misurare i prezzi pagati per far sì che, nel paese con il partito comunista più forte dell’occidente e con la più decisa combattività sociale, si sia potuti passare repentinamente dalla critica del capitalismo alla più supina, euforica accettazione delle sue regole e delle sue logiche. La raffigurazione letteraria dei costi sociali e politici della “modernizzazione” è resa dunque possibile facendo ricorso a un personaggio conflittuale e subalterno. Non si tratta di un doppio della voce autoriale né tantomeno di un ritorno, fuori tempo, al protagonista proletario e “populista” del romanzo sociale. Tecraso è un «guerriero» allegorico che entra nel romanzo con energia plastica e corporea, immettendo solennità e tragedia nel registro prevalente grottesco e satirico (il suo nome stesso, del resto, è un anagramma di Socrate): a dispetto di chi pensa che il capitale abbia vinto con la sola forza simbolica dell’edonismo, Tecraso rammenta ai lettori, grazie al “lasciapassare” dell’iperbole, il represso sociale, la materialità dello scontro. Il dato documentario di realtà viene letterariamente trasfigurato: nel testo delle Mosche, all’arrivo delle lettere di licenziamento segue una battaglia furibonda e, per riportare ordine nei reparti, smantellare i consigli e rovesciare i rapporti di forza, la direzione aziendale mette in campo l’equazione conflitto = terrorismo. Oggi prevale l’idea, derivante dalla rimozione completa della memoria del conflitto, che la letteratura industriale del Novecento non abbia saputo capire o rappresentare, per ragioni ideologiche, le felici opportunità di sviluppo offerte dalla modernizzazione (G. Lupo, 2023): viceversa, nella scrittura non ideologica ma spietatamente realistica e visionaria di Volponi, la rappresentazione del conflitto assume la forma di una amplificazione capace di rammentare al lettore odierno come l’omologazione attuale sia il risultato di una sconfitta, tanto epica e furiosa quanto invisibile e cancellata. 

La scrittura dell'interiorità

  1.  

Una seconda ragione per valorizzare nel nuovo millennio i romanzi di Volponi è suggerita da quegli studi che, negli ultimi vent’anni, hanno cercato di porre l’autore in dialogo con i modelli della tradizione o con i generi, i modi, i temi letterari del Novecento. Massimo Raffaeli (2007), critico militante di lunga fedeltà volponiana, in opposizione al giudizio sull’inattualità di Volponi espresso da Vittorio Coletti (2002), ha argomentato come l’estraneità di Volponi al senso comune narrativo dominante non si dia per attardato sperimentalismo ma per la statura “fuori mercato” dei suoi romanzi, comparabile a quella delle opere-mondo di Vargas Llosa o di Don DeLillo. 

Cesare Pomarici (2022) ha proposto una nuova interpretazione dell’intero corpus volponiano incentrata sui rapporti con la grecità e con il patrimonio letterario e iconografico classico. Sono stati inoltre oggetto di studio la dimensione donchisciottesca intuita già da Pasolini in La macchina mondiale (Salvatore Ritrovato, 2013) e la fitta trama di riprese leopardiane, a cui sono dedicati, fra gli altri, il saggio di Maria Carla Papini e il lavoro di Enrico Capodaglio su Corporale (E il corpo è l’uomo, in E. Capodaglio (2020). 

 

Nell’ultimo decennio, inoltre, le opere di Volponi sono state poste in dialogo con la stagione del romanzo primonovecentesco: i romanzi maggiori (su tutti, Corporale) rappresenterebbero l’acme di una reviviscenza modernista. È l’ipotesi avanzata da Tiziano Toracca, (2020) e sostenuta da Romano Luperini (2012) e da Massimiliano Tortora (2015). L’interpretazione secondo cui Volponi sarebbe il portavoce più significativo del «secondo modernismo» è inoltre alla base dell’originale lettura di Gloria Scarfone (2022) che analizza Corporale, accanto a Aracoeli di Elsa Morante e a Petrolio di Pasolini, soffermandosi sulle voci monologanti dei protagonisti: utilizzando le ricerche di Dorrit Cohn e Kate Hamburger inerenti il trionfo dell’interiorità nelle forme discorsive del romanzo, le tre opere sono in tal modo accostate ad alcuni testi capitali del canone europeo (Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, Ulysses di Joyce, The Waves di Virginia Woolf, Molloy di Beckett e L’uomo senza qualità di Musil). 

È dunque soprattutto Corporale (1974) con Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, Petrolio di Pier Paolo Pasolini e Aracoeli di Elsa Morante, il romanzo potenzialmente interpretabile come uno dei momenti più alti del late-modernism nostrano. Nell’opera di Volponi il primo oggetto di rappresentazione ritorna a essere la vita psichica e, diversamente dai personaggi di Pirandello e di Svevo, il protagonista di Corporale, come Bloom o come Marcel, amplia enormemente il campo del narrabile verso il basso con irruzione delle percezioni fisiche nei processi associativi e figurali. Corporale è dunque un’opera ancora da scoprire, sia sul piano dei temi, per la capacità di rappresentare la condizione atomica, che su quello delle forme, per il flusso di coscienza di Gerolamo Aspri, intellettuale deragliato e (come Zeno o come Gonzalo) controfigura dell’autore. Volponi ha saputo trapiantare nella prosa la concentrazione del verso esaltando la potenzialità affabulante grazie alla verticalità poetica. Come ha notato Guido Guglielmi, nell’eroe di Corporale «ciò che è più primitivo» si coniuga con «ciò che è culturalmente più complesso e maturo» grazie a una straordinaria combinazione di «sovraeccitazione ideologica» e di «basso realismo» (G. Guglielmi, 2001). Oltre alla rete dei temi (il corpo, la bomba, la mutazione antropologica degli italiani, la crisi delle ideologie) è in questa oltranza costruttiva che va apprezzata la segreta sostanza, ricca di futuro, della più ambiziosa fra le opere volponiane. 

Le prefigurazioni postumane

La terza ragione per dare valore oggi ai testi di Volponi risiede nella forza di prefigurazione sprigionata dalle pagine più visionarie del Pianeta irritabile (1978). Gli interpreti del Pianeta hanno collocato questo romanzo entro il genere della fantascienza distopica d’autore, mettendo in rilievo le intersezioni con le opere di Bradbury, Le Guin, Cortàzar, Vonnegut, Grass: Bruno Pischedda (2004), Francesco Muzzioli (2007), Stefano Lazzarin (2010). 

Una diversa lettura, latamente ecocritica, della “fine del mondo” volponiana (anche nel senso dell’apocalisse psichica e antropologica di Ernesto De Martino) può emergere dal volume di Niccolò Scaffai (2017) che interpreta la relazione tra la tematica ambientale e i dispositivi formali che la modellano, nell’urto delle nuove prospettive ecologiche presenti nel Pianeta, in dialogo con altre opere della letteratura italiana del secondo Novecento (da Zanzotto a Ortese, da Rigoni Stern a Pasolini) e mondiale (da Sinclair a Tournier, da McEwan a DeLillo, da McCarthy a Saramago).

Il Pianeta irritabile (1978) è un’allegoria animale postnucleare. I protagonisti sopravvissuti alla distruzione del loro circo, sono l’elefante Roboamo, il babbuino Epistola, l’oca Plan Calcule e il nano Mamerte. La figuralità del romanzo si pone controcorrente rispetto agli schemi del progressismo industriale a cui l’ideologia “diurna” dell’autore si è a lungo ispirata: non si tratta di una distopia quanto di una utopia concreta, nel senso di Ernst Bloch, della ricerca cioè – fra le latenze del mondo distrutto dalla guerra – di una verità biologicamente fondata capace di sopravvivere al pervertimento della ragione aziendalista, alla falsificazione imprenditoriale e militare e al loro esito geoclastico e di fondare, oltre l’umano, nuovi rapporti elementari. I dialoghi fra Mamerte e Roboamo scandiscono le tappe dell'iniziazione del nano all'animalità comunitaria: inizialmente l'elefante invita il nano a privarsi della nostalgia e della brama di possesso; verso la metà del viaggio, incalzato dall'ironia pedagogica di Roboamo, il nano sembra guardare con sarcasmo misto a nostalgia al suo stato precedente:

Io sono stato un uomo, – concluse Zuppa.

– Bel lavoro, – gli rispose Roboamo tra i monconi delle zanne, gialli come il cerchio più rotondo e più giallo intorno al culo di Epistola.

Soltanto nella solennità rituale della pagina conclusiva, l'apprendistato di Mamerte ha termine e la sua mutazione (l’abbandono dello stato umano) può dirsi conclusa. Le mani con cui poteva forgiare ordigni sono divenute zoccoli e anche il suo più intimo oggetto privato, una poesia d’amore scritta su un foglio di riso, diventa «pane comune». 

 L'autore, a proposito del Pianeta, ha fatto cenno all'universo dei fumetti fatto coesistere, con funzioni di contrappunto, con una filigrana leopardiana. In esergo spicca la citazione dagli appunti di Leopardi, gli Esercizi di memoria, il tono di «dilagante, contagiosa ilarità» (Raboni) con cui nel testo viene contemplata la scomparsa dell'uomo rievoca la dura ironia e il radicale rifiuto dell'antropocentrismo delle Operette morali, mentre il conclusivo segnale cosmico della «caduta della luna di mezzo» rinvia al Frammento XXXVII dei Canti. Insomma: è il Pianeta il libro che più preannuncia il nostro futuro. L'impianto leopardiano di questo romanzo, il suo pensiero figurale, creano un cortocircuito fra diverse temporalità e danno voce nell’era in cui viviamo, quella della più tragica cecità tecnocratica e ipercapitalista, alla forza corporea dell’utopia e alla naturalità coraggiosa del materialismo lucreziano. 

Nota di lettura

Citazioni e riferimenti a testi critici sono tratti da:

Pier Vincenzo Mengaldo (1994), Storia della lingua. Il Novecento, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 182.

Paolo Zublena (2002), L’inquietante simmetria della lingua, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2002, pp. 23-24.

Piero Dal Bon (2008), Profilo stilistico della prosa narrativa di Paolo Volponi, PPU, Barcellona, 2008.

Giuseppe Lupo (2023), La modernità malintesa. Una controstoria dell’industria italiana, Marsilio, Venezia, 2023.

Massimo Raffaeli (2007), Don Chisciotte e le macchine. Scritti su Paolo Volponi, peQuod, Ancona, 2007.

Vittorio Coletti (2002), Uno scrittore di un’altra epoca?, in “L’Indice”, n. 9, 2002.

Cesare Pomarici (2022), Paolo Volponi, memoria e innovazione. Dalla cultura classica alla rivoluzione informatica, Carocci, Roma, 2022.

Salvatore Ritrovato (2013) All’ombra della memoria. Studi su Paolo Volponi, Metauro, Pesaro, 2013, pp. 99-115.

Maria Carla Papini (2007), La desinenza in -ale: Paolo Volponi e Giacomo Leopardi, in Pianeta Volponi, a cura di S. Ritrovato e D. Marchi, Metauro, Pesaro, 2007, pp. 159-178

Tiziano Toracca (2020), in Paolo Volponi. Corporale, Il pianeta irritabile, Le mosche del capitale: una trama continua, Morlacchi Editore, Perugia, 2020.

Romano Luperini (2012), Sul modernismo italiano, Liguori, Napoli 2012, pp. 3-12.

Massimiliano Tortora (2015), Volponi e la tradizione del romanzo moderno, in Volponi estremo, Metauro, Pesarp, 2015, pp. 365-377.

Gloria Scarfone (2022), Il pensiero monologico. Personaggio e vita psichica in Volponi, Morante e Pasolini, Mimesis, Milano-Udine, 2022.

G. Guglielmi (2001), Il romanzo centrale di Volponi, in Miscellanea di studi in onore di Claudio Varese, Urbino, Vecchiarelli, 2001, pp. 439-46.
Bruno Pischedda (2004), La grande sera del mondo, Aragno, Torino, 2004.
Francesco Muzzioli (2007), Scritture della catastrofe, Meltemi, Roma, 2007.
Stefano Lazzarin (2010), Atomiche all’italiana. Il tema della catastrofe nucleare nella fantascienza italiana d’autore (1950-1978), in “Testo”, n. 59, 2010, pp. 97-115.
Niccolò Scaffai (2017), Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma, 2017.

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