Mario Dondero, l'uomo

15 Dicembre 2015

Non sono di quelli che possono vantare di averlo conosciuto bene e peraltro odio la morte e i necrologi, per cui mi si perdonerà il tono impacciato con cui scrivo di Mario Dondero in questa occasione. È che, ancor prima che il fotografo, è l’uomo straordinario che è stato, come tutti hanno testimoniato di lui fino a farne una leggenda proprio da questo punto di vista, a non permetterci un ricordo scontato. Generoso, umile, solidale, impegnato con tutti – purché non antagonisti politici! ancora negli ultimi anni rivendicava di essere “comunista” guardando gli interlocutori a cui si rivolgeva con sguardo sornione, non di sfida né di ironia –, ma soprattutto spontaneo in tutte le sue manifestazioni. La naturalezza è stato il carattere che tutti gli abbiamo riconosciuto non solo come persona ma anche come fotografo, tanto da farne la sua etica-estetica. La questione che incarnava era in effetti proprio questo: non si possono fare fotografie così senza essere così. Ciò che facciamo ci rispecchia, volenti o nolenti. Ma non solo: in barba agli artisti costruiti, che pensano che artisti si diventa, nel senso che si impara seguendo delle regole dettate dal sistema, dalla crudele realtà, Dondero ha dimostrato che lo si diventa solo se si costruisce la propria naturalezza, che non è già data, che non resta per sempre, ma va mantenuta momento per momento, difesa dalle minacce della manipolazione. Scattare al modo in cui ha scattato non solo le sue foto più famose ma anche quelle che ti faceva al momento, avendo sempre la macchina fotografica in mano, e ti regalava in formato ricordo.

 

La memoria dunque, certamente, lo interessava prima di tutto. Così quando commentava le immagini di una sua mostra o di una sua pubblicazione, non faceva che ricordare il momento dello scatto e la storia che stava dietro l’immagine, le persone ritratte, le circostanze, il senso dei dettagli. Era puramente “descrittivo”, nel senso più alto del termine, apparentemente tautologico – “Vedi? Questo è Pasolini con la madre” – in realtà affermativo della realtà dell’immagine proprio nel suo rappresentare.

Ma anche la seduzione lo interessava. Tutti i suoi conoscenti non possono dimenticare come usava come strumento di galanteria la macchina fotografica con le signore: “Lei è bellissima, posso farle una fotografia?”. Con discrezione, senza alcuna malizia, erano proprio l’affermazione della bellezza della realtà e la seduzione, la comunicazione di tale sentimento, del desiderio di condividerlo, perché la bellezza, la gioia, la naturalezza esistono solo se condivise.

 

Io ho incontrato il suo nome studiando Ugo Mulas e subito mi sono reso conto che il legame che li univa aveva un senso profondo, sia umano – a riprova per me che anche Mulas era così – sia artistico, ma qui come le due facce della stessa medaglia. L’acutezza di sguardo di Mulas è l’altra faccia della naturalezza di Dondero, è un’acutezza “naturale” tanto quanto la naturalezza di Dondero è “acuta”, piena e significante, estetica. Mulas è andato verso l’arte, non solo quella degli altri ma poi la propria, mentre Dondero ha sempre caparbiamente voluto rimanere nell’ambito del reportage, com’è giusto e coerente con le sue premesse. Ma è reportage il suo? E che tipo di reportage? Tutti se lo chiedono di fronte alle sue immagini, che appaiono come un album di famiglia, un diario per immagini, più che ostentare volontà di fissare momenti particolari o particolarmente significativi. Che cosa cercava nell’immagine quando scattava? Ci si scusi la ripetizione, ma: la naturalezza appunto. Ovvero, qui, la naturalezza di ciò che fotografava, perché lì emerge una verità che solo l’immagine sa catturare, a cui le parole girano intorno come a un buco, che l’immagine invece restituisce come fosse già da sempre lì, come suo carattere peculiare.

 

Tornando a noi, sono passati diversi anni prima che avessi l’occasione di guardare con più attenzione la sua opera e poi di conoscerlo di persona. L’occasione fu il festival Fotografia Europea, l’edizione in cui mi si chiese di riassumere in qualche modo i caratteri secondo me della fotografia italiana. Non esitai un momento a pensare a lui, per me la sintesi del reportage classico e insieme del neorealismo, nonché la loro essenza, in senso proprio di distillato profumato. Allora cercai tutte le sue immagini che mi è stato possibile reperire, ho ripercorso la sua storia, ho letto il non molto in realtà che è stato scritto su di lui, il bellissimo e citatissimo testo di Giorgio Agamben, naturalmente, in cui allo scatto fotografico è affidato non solo, o non tanto, l’è-stato ma il Giudizio universale stesso.

 

Ho visto i magnifici ritratti, apparentemente, dicevamo, occasionali, e invece così acuti nel dare a vedere senza dare a vedere di farlo. Ne scegliemmo insieme un certo numero per la mostra di Reggio Emilia, quelli che lo hanno comunque reso famoso, la Callas con Visconti e Bernstein (1955), il gruppo del Nouveau Roman (1959), il Pasolini con la madre (1962), Edoardo Sanguineti tra le bolle di sapone (1963), i fratelli Cervi (1966), Louis Althusser (1974), Primo Levi (1985), Giorgio Caproni (1986), e le bellissime attrici, tra cui Jean Seberg (1958) e Anicée Alvina (1974), ma anche le mondine (1959), la diffusione in bicicletta del quotidiano “L’Unità” nelle campagne emiliane (1966), i due contadini calabresi ammiratori di Mao Tse Tung (1967), la Sorbona occupata (1968), le foto del muro di Berlino appena prima, “in attesa”, della caduta (1989), e “l’uomo che voleva raggiungere la luna”, come ha titolato significativamente un uomo che si arrampicava su un palo colto con la luca proprio accanto (1994)… Ora finalmente una monografia, quella Electa a cura di Nunzio Giustozzi e Laura Strappa lo racconta per esteso e gli ha reso giustizia.

 

Il suo mito era Robert Capa, della sua foto del milite colpito a morte parlava in continuazione negli ultimi anni, essendosi prodigato personalmente a ricostruirne la veridicità messa in dubbio da altri. La fotografia era dunque per lui ancora e sempre una questione di verità, forse era la verità stessa. In che senso lo abbiamo capito, quello della corrispondenza con la realtà da tutte e due le parti dell’obbiettivo.

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