Franco Vaccari, fotografo onirico

15 Dicembre 2025

Ho conosciuto poco Franco Vaccari e molto tardi. A me è sembrato annoiato dai luoghi comuni del mondo della fotografia e sempre desideroso di smuoverne le acque. Era un fotografo colto e non solo in fotografia, basta rileggere il suo tanto citato ma spesso solo per il suggestivo titolo Fotografia e inconscio tecnologico, che è del 1979, per rendersi conto che maneggiava con cura semiotica, psicanalisi, riflessione politica. È un libro che andrebbe studiato nella sua originalità di assunto insieme agli altri sull’“inconscio ottico”, da Walter Benjamin a Rosalind Krauss e oltre. Lui ci provava in tutti i modi, come si deduce da altri suoi libretti o interventi; alla fine cercava anche di buttarla sul gioco, come in Duchamp messo a nudo (2009), dopo essere partito trent’anni prima da Duchamp e l’occultamento del lavoro (1978). Analogie, coincidenze, anche forzate, almeno così appaiono a me, tra le opere di Duchamp, i readymade in particolare, e altre opere d’altri o oggetti trovati, ma il meccanismo è quello: l’inconscio, non quello personale ma quello sociale, non quello nascosto ma quello nell’evidenza, e i suoi effetti.

Mi ricordo l’Esposizione in tempo reale alla Biennale di Venezia del 1972, che fu l’opera che lo rese famoso. Era composta da una photomatic per fototessere a disposizione del pubblico che era invitato, con una scritta a parete, a farsi una serie e lasciarla sulla grande parete a disposizione. Il risultato fu strabiliante: volti in quantità, smorfie, scenette, un ritratto collettivo – primo significato dell’“inconscio” in causa – attraverso una macchina –; secondo significato, il “tecnologico” –, non un autore, non un soggetto, ma un meccanismo. E c’era il coinvolgimento attivo del pubblico, e tutto in tempo reale, senza scarto temporale tra la produzione e l’esposizione, e sotto gli occhi di tutti.

Allora ero troppo giovane e inesperto per coglierne l’importanza, ma è difficile dimenticarsene. Poi ho cercato di rimediare in diverse occasioni analizzando l’aspetto dell’entrare dentro quella speciale macchina fotografica che è la photomatic, l’aspetto di autoanalisi a cui si è costretti di fronte allo specchio, nell’attesa degli scatti, del senso della sequenza che se ne può costruire, del paragone con l’uso che ne aveva fatto Andy Warhol e poi con il “formato tessera” rivisitato da altri come Thomas Ruff. Lo si confronti con i tedeschi della recente mostra Typologien alla Fondazione Prada (vedi la recensione qui) e se ne vedrà tutta l’originalità, e l’importanza.

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L’esposizione in tempo reale di Venezia era la numero 4, preceduta da diverse ricerche precedenti. Il loro argomento principale era il viaggio ed è in esso che Vaccari aveva senza dubbio messo a punto il “tempo reale”, quello della registrazione delle sue fasi, ma anche la “ritualità”, come indica esplicitamente il titolo Viaggio + Rito dell’anno prima, ritualità non solo del viaggio ma dello svolgimento programmato della sua registrazione.

Poi me lo ricordo nel 1984 che si era chiuso per giorni e notti intere nella galleria Marconi di Milano e aveva prodotto delle strane opere che avevano un risvolto onirico che mi aveva stupito, ma che aveva coltivato nel frattempo e il cui riflesso su tutto il suo lavoro è illuminante, perché non lo riduce nella categoria della fotografia puramente “concettuale”, ma lo apre a diverse altre considerazioni. L’argomento è stato al centro proprio di una mostra recente a Bologna (qui la recensione qui). Ma se ne veda il riflesso sulla visione, per fare un altro richiamo ad opere degli inizi, di video come Cani lenti, del 1971, in cui sono ripresi al rallentatore, da cui l’aggettivo del titolo e la dimensione temporale dell’opera, dei cani che gli ringhiano contro ma accompagnati dalla colonna sonora psichedelica dei Pink Floyd: la scena diventava un vero e proprio sogno.

Le installazioni diventarono complesse, con proiezioni, anche distorte, anamorfiche, oggetti, ricostruzione di ambienti, disegni, pagine diaristiche. Il percorso è lungo da descrivere, ma arriviamo a un’altra Biennale di Venezia, quella del 1993, dove Vaccari aveva esposto il suo “ambiente” forse più complesso. Nel frattempo era apparso il cosiddetto “codice a barre” – più avanti arriverà anche il qr code, che pure utilizzerà, a riprova della sua attenzione continua al suo campo, non si dimentichi, l’inconscio tecnologico – e Vaccari gioca nel titolo Bar Code - Code Bar, costruendo una stanza all’interno della sala a lui dedicata, trasformata in vero e proprio bar, “reale” come in “tempo reale”, funzionante, a disposizione del pubblico, e sparse sui tavolini fotografie di Silvia Baraldini, un caso famoso del momento, condannata a 43 anni di prigione – da cui l’ulteriore gioco di parole “codice a sbarre” – e appunto un codice a barre identificativo dell’operazione.

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Esposizione in tempo reale n.4: Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio (1972). Veduta dell’installazione alla XXXVI Biennale di Venezia.

In questa fase personalmente l’ho trovato un po’ più irrigidito, dimostrativo, l’attualità fa questi scherzi, ma in realtà è un limite mio, perché avevo perso di vista il suo percorso, mentre lui era conseguente e come sempre teneva insieme tutto. Anche i due code infatti li ha intrecciati ai diversi aspetti della sua opera, compreso quello “onirico”. Ero io a non averlo notato. E così avevo scoperto solo dopo aver scritto il mio libretto sulla telepatia che aveva realizzato una intera mostra sull’argomento a Napoli nel 2014 (Rumori telepatici, alla Fondazione Morra Greco). È una mia mancanza e un mio rimpianto.

In Italia Vaccari ha avuto i suoi riconoscimenti e le sue celebrazioni, diverse retrospettive e diverse pubblicazioni su di lui. All’estero meno, ed è un peccato, significa che non siamo convincenti nel far conoscere e difendere i nostri artisti. Ricordo la sua partecipazione ai Rencontres de la Photographie di Arles nel 1998, dove ripropose l’Esposizione in tempo reale n. 19: Codemondo del 1980. Lo rievoco qui perché è significativo che egli partecipasse con un’opera per niente o ben poco “fotografica”, invece complessa installazione con proiezioni e oggetti vari, nella più importante manifestazione europea. Forse fu vittima anche un poco di questa ambiguità che hanno i mondi artistico e fotografico nei loro rapporti. Artisti come Franco Vaccari sollevano tutte queste questioni e questo, se li ha forse ostacolati nel loro pieno riconoscimento da vivi, costituirà anche un argomento che li terrà in vita nella storiografia e nel dibattito futuro. Resta in ogni caso il suo valore intrinseco e storico di artista originale e complesso di prima levatura. E restano i suoi scritti, che andranno sicuramente raccolti, a ricostruire e ricordare di nuovo l’intreccio complesso del suo pensiero e della sua opera.

In copertina, Photomatic d’Italia (dettaglio; 1973).

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Mauro Zanchi | Una conversazione / Franco Vaccari. Migrazione del reale onirico

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