Richter, Deleuze, Pancrazzi
La Fondazione Vuitton di Parigi ospita fino al 2 marzo 2026 una grande e bellissima mostra di Gerhard Richter. C’è tutto, in bell’ordine, ben esposto e ben presentato nelle schede delle sezioni e delle singole opere. Una mostra davvero esemplare. Richter è artista famosissimo, credo anche presso un vasto pubblico. È stato definito come la versione europea, o tedesca, alla Pop Art, perché ha iniziato negli stessi inizi dei Sessanta, più decisamente critico degli americani alla società della merce e dei consumi, anche lui tornando alla figurazione prendendo le immagini da rotocalchi o comunque fotografiche.
L’ho visitata in compagnia di Riccardo Panattoni, filosofo, che, direttore del Centro di ricerca “Tiresia” dell’Università di Verona, mi aveva invitato a una giornata di studio incentrata sul libro Sulla pittura di Gilles Deleuze (qui già recensito da Massimo Donà), che sarebbe stata il giorno dopo il nostro ritorno, per cui era nei nostri pensieri e discorsi. Per il mio intervento io avevo pensato all’opera di Luca Pancrazzi, di cui avevo appena visto la triplice mostra in corso nelle tre sedi della galleria Marcorossi, a Milano, Verona e Torino (fino al 31 gennaio 2026), intervistando l’artista per farne una recensione su questo sito. Lungo la visita della mostra di Richter coglievo alcuni aspetti che li confrontano e i pensieri mi si intrecciavano ad ogni sala.
L’opera di Richter sembra davvero l’illustrazione perfetta del libro di Deleuze. Vale rileggere Sulla pittura sfogliando passo passo un catalogo di Richter: caos, catastrofe, grigio-germe, diagramma, colore, modulazione. La mostra inizia significativamente con un quadro “fallito” con nere pennellate rabbiose scarabocchiate su un tentativo sottostante considerato non riuscito. È la catastrofe. Prima c’era stato il caos dell’Informale, che ora Richter voleva superare. Il passaggio avviene, come in Deleuze, attraverso il grigio, di cui Deleuze, con riferimento a Paul Klee, distingue una versione spenta e morta, il grigiume, da una viva e risolutiva, in cui già vibrano i colori. Questo secondo grigio è il paradigma che permette il salto – così viene descritto, ancora sulla scorta di Klee –, non un ordine, ma l’origine stessa, retroattivata, après-coup, come si dice in francese, della pittura nella sua specificità, nella sua forma, nel colore.
Così Richter passa al grigio e al tempo stesso “torna” alla figurazione, ma è un ritorno sui generis, retroattivo appunto, proprio perché basato su un’immagine derivata, cioè presa, come detto, da fonti fotografiche. La fotografia fa qui da ponte. Un ponte determinante, perché cambia tutto, cambia la pittura, la quale perde la sua specificità nel senso greenberghiano modernista del termine. Qui si esce da Deleuze.
Richter da allora esercita simultaneamente pittura e fotografia, in modo così stretto che potremmo parlare di un medium doppio. Richter lo dirà con una delle sue frasi celebri, apparentemente lampante e in realtà ambigua tanto da apparire misteriosa: “Fotografo con la pittura”. Cosa significa fotografare con la pittura, se di fatto si dipingono fotografie? Significa appunto che le due non vanno più distinte, sono un medium solo grazie al loro legame dato per indissolubile. Allora Richter dipinge delle fotografie, prima in grigio poi a colori, rielaborando l’immagine, come si ricorderà, ripassandola con un pennello grande mentre è ancora umida, facendola apparire come “sfocata” – termine e peculiarità fotografici. Poi ritorna all’astrazione, e allora il colore esplode insieme alla elaborazione, spatolate, pennellate vistose, grattamenti e quant’altro. Ma anche questi dipinti comportano una parte “sfocata”.
Quindi prima ha sfocato l’immagine poi ha sfocato la pittura. A volte ne rifotografa delle parti e le “copia” ingrandendole di nuovo in pittura. Fotografa radente dei dettagli dei suoi dipinti e ne fa un libro fotografico. Poi passa della pittura astratta su delle fotografie e insomma non le disgiunge più. Fino all’ultimo periodo, in cui si dedica al disegno, e attraverso di esso mette in gioco altri effetti fotografici che potremmo definire più “inconsci”, da inconscio ottico.
Così Richter ha rappresentato dagli anni Settanta, ma ancor più dagli Ottanta, il campione di tutta una progenie di artisti che hanno rifatto fotografie in pittura con intenti vari. Ora, basta paragonare questo lavorio sui medium al puro rapporto simulativo degli iperrealisti degli anni Sessanta e della Pictures Generation degli anni Ottanta per capire la posta in gioco: non competizione, non simulazione, per sintetizzare, ma vera e propria rielaborazione dell’immagine e ripensamento del medium.
Se questo è il percorso formale, quello dei contenuti rappresentati apre un altro importante capitolo. Se ne è discusso molto soprattutto rifacendosi all’Atlas, ovvero alla raccolta di ritagli e fotografie che Richter ha costruito – e appunto sottolineo costruito – per decenni. Sorta di archivio, esso è però anche un diario di lavoro in cui di nuovo tutto si intreccia: alle immagini storiche (famoso è il ritratto dello zio in abiti militari nazisti, e i cicli sulla Bader Meinohf e sulle fotografie rubate del campo di concentramento nazista) si uniscono quelle che hanno attirato la sua attenzione (le candele, i teschi), quelle private (le mogli, i figli), quelle di dettagli di suoi dipinti, come del resto nella sua opera. Ma quello che colpisce nel parallelismo non è tanto il mescolamento dei soggetti quanto l’andirivieni che scombina la cronologia lineare, che mostra un Richter che torna sui propri passi, riprende e sviluppa, per poi continuare e di nuovo riprendere anche più indietro. Non per niente in diverse occasioni – non in questa parigina, purtroppo – Richter ha esposto l’Atlas stesso in grandi pannelli. È l’archivio che, frutto di rielaborazione, diventa forma e diventa opera tra le opere, o opera delle opere.
Ma quello che mi sembra più importante in questo modo di procedere è che lo sviluppo interno del lavoro artistico da un lato si ripercuote sulla memoria della storia e della biografia, dall’altro procede secondo il continuo ripensamento di ciò che di mano in mano si sviluppa su ciò che si è già fatto, in un percorso di rinnovamento costante. Si ri-parte sempre dal presente, ma il passato ritorna e si rinnova senza sosta.
Anche Luca Pancrazzi lavora in questo modo ed è una sua peculiarità. Ha un archivio smisurato, di materiali di vario tipo, anche lui, misto di ritagli e di fotografie scattate da lui stesso, a migliaia, di paesaggio soprattutto. Non c’è l’aspetto personale, biografico, che è sostituito da quello del lavoro artistico, l’atelier, gli strumenti, i tavoli, le pareti, i giochi di luce e ombre nella stanza, le esposizioni. Questo diventa di mano in mano la fonte dei suoi dipinti e, appunto, torna di mano in mano che procede il suo sviluppo, la sua ricerca formale, per riprenderlo e rielaborarlo. Così si ritrovano gli “orizzonti” negli anni, prima acquarellati, poi costruiti tridimensionalmente in maquette, poi disegnati, sia contemporaneamente sia variati a distanza di anni. Lo stesso per i paesaggi e gli altri soggetti.
Così nelle mostre odierne “torna” il soggetto degli alberi, già dipinto come parte dei paesaggi o nelle ombre di quelli di fronte alle grandi finestre dell’atelier. Il fatto è che sia per contenuto che per forma il lavoro si è rinnovato. Per quel che riguarda il contenuto, lo suggerisce il singolare titolo nientemeno che in latino: Urbs ex arboribus. Il paesaggio, la città, ora è visto “dagli alberi”, sia nel senso di fatta di alberi, quasi nata dal bosco, sia in quello di come vista da o attraverso di essi. L’idea del titolo in latino, dice l’artista, gli viene dal fatto che le piante sono classificate scientificamente con nomi latini. “Così questo titolo sposta la questione sulle piante e vorrebbe inaugurare un ribaltamento di visione da soggettiva (umana) a quella delle piante stesse”, dice l’artista. “Sono adesso le piante che osservano e giudicano il nostro stile di vita ed affascinate dal nostro spasmodico fare non hanno abbandonato le città ma sarebbero pronte a riprendersele in poco tempo se solo glielo lasciassimo fare”.
È un tipico rovesciamento asimmetrico di Pancrazzi, il “paradigma” logico del suo intero lavoro, che chiama “simmetria variabile variata” ad indicare che nella simmetria degli opposti è sempre contenuta una differenza che permette la variazione, e la ripresa appunto. Così il paesaggio visto dagli alberi non è il puro simmetrico della natura opposta alla città: è un punto di vista straniante che apre su analogie e differenze altrimenti invisibili. Tra esse in particolare mi pare qui evidenziato il tema dell’intrico dei rami che si riflette su quello della visione della città. Pancrazzi era infatti, nei nuovi temi, giunto alla questione dell’intrico, del suo aspetto di casualità, che si ripercuoteva su una pennellata che definiva “stocastica”, aleatoria, non strutturata.
È come se fosse tornato alla “catastrofe”, per riprendere i termini e il discorso deleuziani. Resta infatti da dire che i quadri sono – e lo sono da tempo, come una cifra stilistica ormai di Pancrazzi – dipinti con il bianco, solo con il bianco. È il suo “colore-germe”, ma, come il grigio kleeiano, anche nel suo caso esistono bianchi diversi. C’è chi lo ha inteso come assenza di colori, chi come loro somma, chi ancora come non-colore, acromo. Il bianco di Pancrazzi è ulteriormente un altro. Viene infatti dal bianchetto, quello che si usava per cancellare gli errori e riscrivere sopra. È così che entra in scena l’errore, lo scarto, la correzione, di nuovo non come opposto dell’esatto, del necessario, ma come ciò che Pancrazzi sintetizza con l’espressione, spesso titolo di intere serie, “fuori registro”. Il dato è rilevante, mi pare, fin nel ripensare, esteticamente se non filosoficamente, la pittura, nonché la fotografia e il loro rapporto.
Anche in Pancrazzi il bianco dà origine all’esplosione del colore e alla sua modulazione. Come si vede anche nelle mostre alle gallerie Marcorossi. Ai quadri bianchi infatti sono contrapposti simmetricamente variati dei dipinti su carta tutti colorati. La novità è che sono sì tratti da fotografie ma realizzati a mano libera, non più con l’aiuto della proiezione, variazione non da poco, perché mette in gioco la mano, il carattere precipuo della pittura, come prosegue lo stesso Deleuze, ovvero qui la componente casuale del segno, del tratto, della pennellata. Infine questa casualità, da stocastica, vista dalla parte degli alberi, come indicato, rappresenta uno sviluppo caotico sì, ma nel senso di “naturale”, e questo sia per l’immagine che per la pittura, che per l’opera, la storia, la biografia.
Quanto alla fotografia, questi dipinti portano scritto in basso una serie numerica, che costituisce anche il titolo, che appare di primo acchito a sua volta casuale, ma si decifra in realtà come data completa di fine registrata della realizzazione del dipinto, quasi fosse uno scatto, un’istantanea. E in un certo senso lo diventa, appunto.
In copertina, Luca Pancrazzi, 130423032025, 2025.