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Paola De Pietri: storie di pianura

6 Dicembre 2025

La pianura è un destino, verrebbe da dire, determina lo sguardo e anche i pensieri. Magari anche per contrasto: ti viene voglia di vederla dall’alto, o di notte, di capire il rapporto tra un albero e una casa, soprattutto sentire e far sentire le stagioni, far sentire a chi non è di pianura che le luci, i volumi, le cose stesse insomma, prendono altre forme. Il pensiero vaga, non trova ostacoli insormontabili, forse si sente libero, che si può vivere in un labirinto, che basta poco perché si creino, o si vedano, delle storie.

Paola De Pietri è una fotografa del tutto indipendente. Certo, è emiliana, e a sentire parlare di pianura da quelle parti non può non venire in mente Luigi Ghirri e Gianni Celati, e Marco Belpoliti più recentemente. Ma il suo sguardo è diverso.

Ricordo la prima volta che vidi una sua fotografia, anzi era un Dittico, e l’effetto di vertigine che mi diede quel piccolo spostamento spazio-temporale dei due scatti così vicini. C’era, e c’è, tutta una storia della fotografia, dell’arte e dello sguardo dentro. Io lo ritrovo in tutte le sue altre immagini e mi pare la sua “storia”. Niente stranezze, niente effetti, niente straordinarietà, anzi proprio il contrario: le cose come sono, perché contengono già una straordinarietà se le si osserva e le si restituisce in un certo modo. Per De Pietri sono o riportano le tracce di qualche storia, direi “notturna” nel senso di altra da quella manifesta. Non è così ogni immagine in realtà?

De Pietri è della generazione che, iniziando negli anni ’90, ha il concettuale alle spalle, la fotografia è già autonoma e integrata nell’arte, va per la sua strada liberamente, non ha bisogno di rivendicare alcunché, lo sguardo ha già guadagnato la sua dignità estetica, la tecnica quella che la mano voleva contrapporle, propone una sua metodologia, il lavoro a progetto, a serie, a libro.

A vederli in fila i progetti di De Pietri disegnano una linea limpida: dal frammento allo spostamento, a un altro sguardo, quello notturno, al confronto, alla trasformazione. L’argomento principale, inutile dirlo, è il paesaggio, il paesaggio umano, il rapporto natura. Architettura, presenza o assenza umana. È sorprendente e al tempo stesso straniante che la prima immagine scelta sia un’inquadratura azimutale su una signora che sembra camminare su un filo, sembra contenere già tutto: è la storia di De Pietri, e della fotografia.

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Frammenti di spazi e storie, 1994.

EG: La prima immagine che hai scelto è tratta dalla serie Frammenti di spazi e storie. Cosa guardavi in quel momento, da dove ti è venuta questa idea?

PDP: Siamo nel 1994, mi ero laureata al Dams qualche anno prima e pur occupandomi di fotografia da tempo, questo è il mio secondo progetto esteso. Il primo è Nel millenovecentonovantatrè, poi esposto in una mostra curata da Roberta Valtorta a Casa Lazzaro Spallanzani, Scandiano. Frammenti di spazi e storie è nato da una committenza di Linea di confine, a me e a Walter Niedermayr, sulle Casse di espansione del fiume Secchia a Rubiera. Un parco nel quale convivono aspetti sia naturalistici sia legati al mondo dell’agricoltura. Quando ho fatto il sopralluogo, camminando lungo gli argini o attraversando i campi e trovando difficoltà a comprendere il luogo pieno di vegetazione e canali ho sentito il desiderio di potere vedere le cose dall'alto. C'erano gli uccelli nel cielo e ho pensato che, il loro, era il punto di vista ideale.

Dopo una serie di ricerche – l’ipotesi del deltaplano o elicottero, erano interessanti, ma troppo invadenti per questa situazione e, soprattutto, non mi permettevano di scendere fino a 20, 30 metri – ho trovato che la mongolfiera era adatta allo scopo. Le uscite sono state fatte principalmente all’alba e al tramonto, perché la temperatura troppo calda dell’aria impedisce l’uso della mongolfiera. Le riprese sono state abbastanza complicate, perché la mongolfiera si sposta solo con il vento, perciò per sorvolare i luoghi che avevo individuato occorreva, usando la bussola, trovare il punto di partenza adeguato.

In questa serie di fotografie ho cercato di assumere un punto di vista diverso dall’abituale, quello come ti dicevo degli uccelli, che pur consentendo una maggiore e diversa chiarezza del luogo conserva anche una certa vicinanza alle cose. Cioè non mi sento separata da quello che vedo, ne faccio parte, le persone sono riconoscibili, potrei chiamarle per nome. Un altro aspetto che ricorre qui, come anche in altri miei progetti, è il frammento perché le immagini, quasi zenitali, potrebbero essere viste anche come le tessere di un puzzle di cui si fatica a capire il disegno completo.

EG: Senti, essendo in mongolfiera, hai pensato a Nadar?

PDP: È un pensiero che è venuto dopo. Forse inconsciamente…

EG: Hai fatto un sogno di volo!

PDP: Non saprei. Uscendo dai percorsi stabiliti del parco gli ostacoli visivi e fisici, situazioni in cui non puoi vedere oltre. mi hanno fatto pensare a uno sguardo sulle cose posto ad una diversa altezza.

EG: Torno a chiederti: agli inizi che cosa guardavi, che cosa ti colpiva nel panorama fotografico e artistico?

PDP: Considera che all’età di vent’ anni facevo tutt'altro, lavoravo in banca e non avevo mai fatto una fotografia.  Proprio in quel periodo vado in Scozia con un amico e una volta tornati guardiamo le sue diapositive, il solito resoconto del viaggio, come allora spesso capitava. Questo è stato il punto iniziale, perché dalle sue fotografie capisco che, pur essendo stati negli stessi posti, abbiamo percepito e guardato in modo completamente diverso. Da quel momento è stato tutto molto rapido: l’acquisto di una reflex, la lettura di un manuale di fotografia prestato da una collega di banca, la frequentazione di alcuni corsi sulla fotografia, l’iscrizione all’università (Dams) e il licenziamento dalla banca. Fondamentale è stata una conferenza di Luigi Ghirri che, oltre a mostrare il suo lavoro (siamo credo nel 1981), parlava delle immagini e del suo sguardo sul mondo. Non avevo allora nessuna conoscenza della fotografia, della sua storia e tantomeno del lavoro di Luigi Ghirri, ma quello che disse fu per me illuminante e dirimente nelle mie scelte successive. Quella conferenza mi fa pensare ancora oggi alla forza delle opere e immagini che si nutrono di una loro intrinseca necessità.

Mi chiedi che cosa guardavo all'inizio. La mia prima serie/mostra Nel millenovecentonovantatrè raccoglieva per frammenti gli appunti di un anno, come l’impronta di un corpo su una poltrona di un treno o una forchetta illuminata da una luce verde etc. La serie Frammenti di spazi e storie dell’anno successivo di cui abbiamo parlato, è sul paesaggio e le persone che lo abitano. Questi due estremi sono ancora presenti nelle serie degli ultimi anni. Mi trovo a fare riferimento spesso al concetto di esperienza e di tempo.

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Dittico, 1997.

EG: Passiamo alla seconda immagine. Questi dittici sono veramente molto particolari. Ricordo che hanno avuto subito una grande accoglienza.

PDP: È vero. Non mi ricordo esattamente da dove è nata l’idea, anche se tra le fotografie fatte dalla mongolfiera c'è un dittico, diverso ma un dittico. In quel caso muovendomi io nello spazio è stato naturale fare una doppia fotografia. L’idea della sequenza era già presente qui.

EG: E tornerà anche dopo.

PDP: Sì, infatti. I dittici nascono dalle sensazioni che avevo guardando le persone che camminano per strada. I percorsi fatti mi facevano pensare alle scelte continue e al cambiamento del quale siamo oggetto e soggetto. Nei dittici è rappresentato uno spazio temporale definito dal passaggio da un punto all'altro di quel luogo. Le persone sono fotografate due volte in un tragitto di pochi secondi che serve per attraversare lo spazio definito dalle immagini.

EG: L'effetto è veramente speciale. Giustamente nel testo con cui le presenti sul tuo sito parli di labirinto: a guardare il tipo che gira l'angolo, il passaggio del marciapiede eccetera restituiscono una spazialità e una temporalità davvero straniante. Credo che proprio da questi dittici viene fuori il legame che tu hai con lo spazio che si ritrova poi in tutte le tue serie e tutte le tue immagini seguenti.

PDP: Una spazialità che si accompagna al tempo.

EG: Al tempo stesso sono dei concentrati, sono delle micro narrazioni, delle apparizioni che poi escono dall'inquadratura.

PDP: Ogni immagine esaminata singolarmente ha delle sue particolarità, come dici tu, sono delle micro narrazioni. Nell’immagine, qui pubblicata, ci sono due signore con un bambino che le rincorre e che non compare nella seconda fotografia: stanno camminando sul marciapiede delimitato da una rete metallica dalla quale si vede una fila di rose i cui colori e forma ritornano nel vestito della donna in primo piano.

EG: Faccio anche qui un rimando antico, molto più antico in questo caso che la storia della fotografia. Mi hanno sempre impressionato i dipinti medievali in cui la storia viene narrata con diverse scene nella stessa immagine, dunque la presenza diverse volte dei protagonisti.

PDP: Sì, hai ragione a citare dei dipinti medievali, interessano molto anche a me.

EG: La cosa curiosa è che oggi, se vai in Google Street, trovi delle situazioni di questo tipo, non volute in questo caso, in cui una o più persone compaiono in due momenti seguenti. Ci sono degli autori, non so se li conosci, che sono andati a caccia di queste incongruenze. Sono diventati famosi perché sono nel libro sulla postfotografia di Fontcuberta.

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Dormi sonni tranquilli, 2004.

EG: Con la terza immagine passiamo alla notte. Bello anche il passaggio, magari non voluto, all'assenza delle persone. L'atmosfera cambia completamente e qui, come dire?, c’è la solitudine dei luoghi. Anche questo è un grande argomento della storia della fotografia, ma veramente tu l'hai trattato in un modo particolare. Intanto è suggestivo il titolo: Dormi sonni tranquilli?

PDP: Parto da una vecchia abitudine, non so se può interessare. Quando ero più giovane e abitavo in campagna, mi capitava di prendere la macchina e andare in giro di notte. Tutto si acquieta, c'è una visione del mondo diversa sia per l’oscurità, sia per l’assenza o quasi di esseri umani. Da queste peregrinazioni è nata l'idea di Dormi sonni tranquilli? Fotografie fatte dopo mezzanotte fino alle 4-5 del mattino.

Mi piacevano gli aspetti banali, non osservati con la luce del giorno. Un mondo che si rivela totalmente diverso, come se le piante crescessero di più, per esempio, o la creazione di nuovi spazi ai bordi delle strade o nei parcheggi semivuoti, ridisegnati dall’illuminazione stradale.  Durante la notte stacchiamo, dormendo, dalla nostra vita, ma il sonno e la notte sono a volte popolati dagli incubi. Le fotografie di Dormi sonni tranquilli? sono state realizzare nelle periferie dei paesi e delle città emiliane, ai bordi dei quartieri nuovi o seminuovi, che durante la notte, a volte, non sembrano più così rassicuranti.

EG: Viene fuori anche, intanto la periferia, che comunque in quel momento era un argomento importante, ma anche l’emergere di quello che non guardi mai. Ne risulta uno strano mondo, non sembra neanche il mondo in cui viviamo.

PDP: Questa pianta di pomodoro, oppure l’ombra di un cartello stradale su delle erbe selvatiche, subiscono una trasformazione. È la costruzione di un'immagine diversa. Tengo molto a questo progetto al quale vorrei lavorare ancora.

EG: A parte gli incubi, la dimensione del sogno?

PDP: No, le varie situazioni che ho fotografato vengono a galla con semplicità. Non si tratta di un sogno, ma di un aumento del senso di permanenza delle cose, c’è anche più attenzione, forse il contrario del sogno. Può essere inquietante ma anche molto rilassante, due direzioni opposte.

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To face, 2008.

EG: Bene, passiamo alla seguente. Qui siamo sul fronte della Prima guerra mondiale. Dunque siamo apparentemente lontanissimi dalle immagini precedenti.

PDP: La serie To Face è stata realizzata dal 2008 fino al 2011. Ho scelto To Face come titolo perché è un verbo utilizzato in ambito militare per indicare due schieramenti nemici che si fronteggiano, ma significa anche guardare, affrontare, implica anche la nostra presa di posizione. Sono state importanti due circostanze: la lettura dei Racconti di guerra di Mario Rigoni Stern e i racconti dei fatti accaduti al mio bisnonno durante la Prima guerra mondiale, ancora narrati nella mia famiglia. Questi racconti, a distanza di un secolo, collocano gli eventi della guerra nelle memorie personali, private, trasmesse da una generazione all’altra. Ho cominciato, inizialmente a fare una serie di sopralluoghi per capire quali segni rimanevano delle battaglie di quasi cento anni fa. Mi riferisco al paesaggio naturale e non alle fortificazioni che sono ancora molto numerose. Il primo sopralluogo è stato sull’altopiano di Asiago, seguendo la descrizione che ne fa Mario Rigoni Stern in uno dei suoi Racconti di guerra e che ho poi pubblicato nel mio libro.

EG: Qual è stata l’idea con cui hai scattato proprio questa immagine? Cosa guardavi?

PDP: Le fotografie sono arrivate dopo un periodo di studio e ricerche sull’argomento. Come ti dicevo sono andata a cercare i luoghi sul fronte italo-austriaco che conservano i segni delle battaglie come le buche delle bombe, le trincee, le caverne. Luoghi che nello stesso tempo hanno un aspetto ‘naturale’ perché la natura nel corso dei decenni ha ricucito, riempito attenuato i segni della guerra. Questa fotografia è stata scattata vicino a Forte Verle. Il terreno vicino al forte, preso di mira da moltissimi tiri d’artiglieria è pieno di buche e di gobbe ancora oggi molto visibili. Nell’immagine si vedono molto bene perché nelle buche è rimasta la neve dell’inverno.

EG: Ora voglio azzardare una considerazione, ovvero che molti hanno fatto fotografie di luoghi di battaglia, il fronte sulle Alpi e altrove, eppure se io guardo queste foto e non sapessi che le hai fatte tu, mi verrebbe da dire che sono fotografie di De Pietri. Mi chiedo cosa sia che le rende così tue, il colore, il trattamento dello spazio, tu lo sai dire meglio di me?

PDP: Sì, la dimensione spaziale è fondamentale, così come la distanza dalle cose. Mi piace la costruzione di uno spazio nel quale ci possiamo collocare, non asfittico, ma uno spazio che posso conoscere, in cui posso camminare da lì a là. In questo lavoro in particolare ho cercato proprio di dare l'idea che lo spazio possa continuare sotto i miei piedi, e quindi anche di chi osserva la fotografia. Ho scelto prevalentemente le giornate nuvolose, con una luce morbida, senza ombre. Per questo, la maggior parte delle fotografie è stata realizzata in autunno o alla fine dell’inverno.

EG: Sì, la luce, anche i colori, li ritrovo in altre serie, ricordo quella su Istanbul per esempio, sembra proprio che ti appartengano e caratterizzano.

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Questa pianura, 2014-17.

EG: Comunque, passiamo alla serie seguente, che, per coincidenza, vede anch’essa da un lato un albero al centro dell’immagine accostata a un’altra con invece una casa diroccata, sempre al centro.

PDP: Questa Pianura è il titolo della serie di cui parli. La pianura Padana. Sì, sono i luoghi che frequento da sempre. La campagna costruita, fitta di alberi, filari, siepi, che ho conosciuto bene perché i miei genitori erano agricoltori, ora non è più riconoscibile. Percorrendo l’autostrada A1 o la Brennero o la Bologna Padova, ai lati, si vede spesso una specie di deserto, pochi alberi superstiti, e molte case coloniche in rovina. Chiaramente c’è stato un cambiamento di ordine economico e di conseguenza anche sociale, che ha fatto sì che il paesaggio si trasformasse in un tempo rapidissimo.

Le case e gli alberi superstiti sono spesso isolati e sembrano privi di senso perché hanno perso il loro valore funzionale.  Mi fanno pensare all’archeologia, anche se si tratta di reperti molto recenti; sono come delle parole di una lingua, di cui si è perso il significato. Le immagini delle case, orizzontali, e quelle degli alberi, verticali, si possono accostare, perché condividono la stessa porzione di terreno, dal cui si alzano. Questa Pianura è composta, però, non solo dalle grandi immagini in bianco e nero degli alberi e delle case, ma anche da una serie di fotografie a colori, di formato molto più piccolo, legate al ciclo annuale della natura. La percezione della pianura è piuttosto legata, qui, agli aspetti vitali, sensoriali, atmosferici. Sono frammenti, situazioni instabili, di breve durata.

EG: Come già in Dormi sonni tranquilli, qui usi il bianco e nero. Come mai?

PDP: Anche ora lo sto usando di più. Spesso, però, all’interno di una sequenza di fotografie in bianco e nero, inserisco delle singole fotografie a colori, un piccolo shock visivo. Ho fatto le fotografie degli alberi e delle case in inverno, con la vegetazione al minimo così da potere vedere la loro struttura. Qui come in To Face ho lavorato nelle giornate nuvolose, quando la foschia cancella la nitidezza della linea dell’orizzonte. L’immagine reale era, tutto sommato, già un bianco e nero. Anche il disegno è stato un mio riferimento.

6 Da inverno a inverno, 2019. Allestimento.

EG: L'ultima serie: Da inverno a inverno, anche qui un titolo molto suggestivo. Intanto rimanda ancora una volta al tempo. È curioso che qui il titolo sembra un dittico! Infatti anche nell’allestimento dell’esposizione è ripreso il dittico. Da dove nasce questa serie?

PDP: Da inverno a inverno nasce da una committenza dell’Istituto dei Beni Culturali di Bologna nel 2018. Mi è stato chiesto di fare una serie di fotografie sul paesaggio rurale in Emilia Romagna – richiesta nata in occasione dell'acquisizione delle fotografie sull’Emilia Romagna di Paul Scheuermeir. Filologo e linguista svizzero, nel corso del ‘900, aveva condotto diverse campagne di studio per la realizzazione dell’Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia. Il paesaggio, e, ancora di più se si pone l’accento sulla ruralità, è mutevole in base alle stagioni dell’anno. Per questo è stato naturale estendere il mio lavoro a tutto l’anno solare, che è cominciato, per me, nel febbraio del 2019 e finito a gennaio del 2020. Fin da subito è diventato un progetto strutturato per giornate, ognuna caratterizzata da un aspetto specifico e legato al periodo dell’anno. Le fotografie e il tempo dedicato al progetto sono diventati un po’ il diario del mio anno; aspetto che è stato ripreso, anche graficamente, nella realizzazione del libro e della mostra. Ogni giorno è una piccola narrazione costruita con più immagini, come puoi vedere nella fotografia dell’istallazione del 3 luglio. Siamo in provincia di Ferrara, nella bassa vicino al Po, dove ci sono campi di grano a perdita d’occhio, che possono far pensare alle grandi pianure degli Stati Uniti. Le fotografie documentano il movimento nello spazio – un po’ come nei dittici – il cambiamento continuo di prospettiva che si ottiene girando attorno o avvicinandosi e allontanandosi al soggetto. Mi chiedi ora di scegliere una fotografia di questa giornata (anche se le preferisco insieme)... quella del campo di grano in basso, che è un particolare della fotografia vicina, in alto a destra. La scelgo per la semplicità e per il volume creato da quell’ombra di lato. E poi perché è l’immagine di una natura pianificata con le spighe tutte alte uguali in fila, senza l’ingerenza di nessun’altra pianta.  Non sono nemmeno sicura, a questo punto, si possa parlare di natura…

EG: Richiamandoci alla serie precedente possiamo quasi dire che è natura e architettura insieme.

PDP: Sì, hai ragione, è un po’ una sintesi di molti pensieri.

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