Ultimo stadio al Maxxi
Penso agli stadi della mia vita. Prima di tutto quello della squadra per cui tifo, l’Atalanta. La prima volta che ci andai era il 1962, a sei anni, in curva Sud con mio padre. I sessant’anni successivi raccontano la mia evoluzione sociale e culturale: gli anni Ottanta in tribuna coperta con gli amici ricchi, poi in gradinata col ceto medio e oggi in curva Nord con gli ultras. Un curioso periplo che descrive le contraddizioni della mia vita. Anche l’onomastica dello stadio rivela qualcosa: era intitolato a Mario Brumana, un caduto fascista; diventò semplicemente il Comunale, trasformandosi poi ai tempi del Ciampi patriottico in un sentimentale “Atleti Azzurri d’Italia”; e, oggi, venduto al Club, non ha un nome fisso, prende quello dello sponsor di turno. Poi ci sono gli stadi da trasferta: l’Olimpico di Roma; quello della Juve dove una volta mi è capitato di vedere la partita in uno Skybox con invito al ristorante, il modo più straniante di frequentare uno stadio; e San Siro.
Al Meazza tanti ricordi non legati al calcio ufficiale. Per esempio il concerto di Bruce Springsteen nel 1987, dove andai nel backstage perché avevo amici che allora lavoravano col Boss. E io, invece di parlare con lui, mi persi ammirato a guardare gli spogliatoi… Gli stessi in cui 10 anni dopo mi sarei messo braghette e maglia da portiere per una “Partita del Cuore” davanti a 80.000 spettatori in diretta su Canale 5: un’esperienza le cui immagini registrate su un vecchio VHS mi hanno guadagnato presso i nipoti una stima incommensurabilmente più grande di qualsiasi riconoscimento cinematografico o letterario. E sì, anche quella volta che, invitato da Diego Abatantuono a vedere un Milan-Atalanta, mi ritrovai per sbaglio in ascensore con Berlusconi. Ricordo anche lo stadio dei Giants, a New York, nel 1982, oggi demolito: stavo per iniziare il mio fatale coast to coast americano in auto e lì giocavano un’amichevole tra Europe All Stars e Resto del Mondo. L’Italia aveva appena vinto il Mondiale, dovunque andassimo ci dicevano “Paolo Rossi!” battendo le mani. Non potevo perdere l’occasione, comprammo i biglietti dai bagarini e fu una serata memorabile, alla fine della quale io e il mio amico Max comprammo un pallone con cui giocammo nel mese successivo dovunque, nei parcheggi dei mall e nel deserto. Infine, lo calciammo nel Pacifico da una piazzola del Golden Gate Bridge. Gesto sconsideratamente antiecologico, penso oggi, ma così sentimentale... E poi ci sono gli stadi che non sono legati a un ricordo di calcio. Quello di Castelnuovo di Conza, quando giravamo Nuovo Cinema Paralitico con Franco Arminio: un impianto abbandonato ancora prima di avere vissuto, una di quelle speculazioni post-terremoto che restano piantate nel Meridione come tante Via Crucis dimenticate. Ma anche lo stadio senza pubblico di Mostar, Bosnia, nel 1998, dove accompagnai i CSI per un concerto che fu l’atto di hubrys che mise in moto il disfacimento del gruppo. Quello stadio, pochi anni prima, era stato utilizzato come campo di prigionia durante la guerra. Tutti abbiamo delle storie da stadio, anche quelli che non seguono il calcio. Gli stadi sono cattedrali della modernità, luoghi dove ancora va in scena un rito capace di muovere passioni. E anche uno stadio vuoto, come una chiesa senza messa, parla di un’attesa e di una memoria.
Ecco perché Stadi. Architettura e mito, la mostra curata da Manuel Orazi, Fabio Salomoni e Moira Valeri in corso al MAXXI di Roma fino al 26 ottobre non è solo curiosa e interessante, ma necessaria. Gli stadi, oggi, hanno sia un valore simbolico che molto concreto: basti pensare alla centralità di San Siro nell’attuale scandalo edilizio di Milano. O al fatto che, dopo i grandi musei, sono proprio gli stadi ad attrarre le archistar internazionali per dare prova della loro creatività. Per non parlare dei rapporti tra stadi e politica: sia per l’uso propagandistico che di questi impianti è stato fatto nella storia e si può fare nella contemporaneità (da Hitler a Berlusconi; e giuro che lo scrivo senza sottintesi); sia perché il semplice accesso a uno stadio può implicare questioni politiche di enorme rilevanza, come per il divieto di entrata alle donne previsto dai regimi islamici, su cui Jaffar Panahi imbastì la storia del suo bellissimo Offside (2006). Peraltro, gli stadi sono luoghi di elezione per le paranoie cinematografiche sugli attentati di massa: ci sono dozzine di film imperniati sulla minaccia di una bomba piantata in mezzo alle tribune affollate da migliaia di spettatori. Di solito, l’eroe interviene in tempo. Talvolta no: nemmeno Jack Ryan impedisce l’esplosione di una mini-atomica durante il Super Bowl in Al vertice della tensione, che in originale suona The Sum of All Fears, la perfetta descrizione di ogni responsabile della sicurezza in uno stadio…. Evidentemente, si tratta di icone potenti della modernità, in cui si concentrano passione sincera, business, commercio, costume in un viluppo inestricabile.

La mostra cerca di dare conto di tutti questi aspetti, a partire da una riflessione sullo stadio in quanto manufatto architettonico. L’idea di uno stadio come spazio specifico dedicato allo sport e differente da un campo di gioco ad accesso libero nasce alla fine dell’Ottocento. Che sia dedicato solo al calcio (come quelli di Archibald Leitch, “firma” di quasi tutti gli impianti inglesi) o anche ad altre discipline (come l’atletica o il ciclismo su pista), lo stadio nasce all’insegna della funzionalità, non certo dell’estetica. Nessuno, allora, si immaginava che uno stadio potesse – come oggi – contribuire al branding di una città, diventando un luogo da visitare a prescindere. Ma è ovvio che laddove si aggregano migliaia di persone, il significato sociale del fenomeno cambia presto la prospettiva, attirando l’attenzione del potere politico ed economico. Sotto i totalitarismi gli stadi diventano gigantesche tribune per mettere in scena la celebrazione delle ideologie su cui si reggono quei sistemi. Si sbaglia però chi crede che questo sia un uso limitato al Novecento. In realtà gli stadi moderni (che sono anche spesso centri commerciali e talvolta alberghi) recuperano quell’istanza di controllo delle masse con gli strumenti del soft power. Gli unici decenni in cui hanno dato spazio a qualche forma di contropotere popolare (per quanto ambiguo) sono stati quelli della ribellione globale: in parte i ’60, ma soprattutto i ’70, con la nascita del tifo organizzato e delle varie curve degli ultras. È un processo che abbiamo cercato di documentare in A guardia di una fede, il film sulla Curva Nord atalantina diretto da Andrea Zambelli e prodotto da Andrea Zanoli e dallo scrivente.
Partendo dalla ovvia osservazione che lo stadio, con la sua divisione in settori, è uno specchio preciso della società e dei suoi ceti, il movimento ultras (con tutte le sue derive) è stato un chiaro tentativo di mettere in discussione quei rapporti di classe almeno nella dimensione simbolica dello stadio. E non c’è metafora più chiara di un’invasione di campo, accompagnata da abbattimento di recinzioni e scontri con la polizia, per raccontare quella storia. A guardia di una fede descrive esattamente il passaggio dalla ribellione alla sostanziale sconfitta degli ultras, simboleggiata dall’abbattimento della vecchia curva senza tetto che è stata sostituita con una bellissima tribuna coperta (seguita dal restyling di tutto il Gewiss Stadium di Bergamo, di cui si occupa anche la mostra del Maxxi).
Il paradosso sta proprio in questo oggettivo “progresso” delle condizioni materiali che significa però anche il definitivo controllo delle curve da parte del sistema, in modo non dissimile da come la gentrificazione trasforma i quartieri delle città. Per questo suonano molto vere le parole di Fabio Salomoni che nel catalogo (Panini Editore) scrive: “Dopo un percorso di circa un secolo e mezzo, lo stadio appare oggi alquanto trasformato. Ha fondamentalmente eliminato qualunque comunicazione con l’ambiente urbano circostante, è diventato spesso un gioiello architettonico e tecnologico, macchina multifunzionale che offre una vasta gamma di attività a un pubblico pacificato formato per lo più da clienti-consumatori e garantisce un’atmosfera vellutata e innocua – teatrale, direbbero alcuni –, dominata da una delle ossessioni delle società contemporanee: la sicurezza. Lo stadio contemporaneo finisce quindi per riflettere il fastidio che le nostre società provano nei confronti di uno spazio capace di generare effervescenza collettiva, momenti di partecipazione rituale che includono anche la messa in scena di conflitti, simbolici o concreti, anche di natura “politica”. Se lo stadio è uno spazio sociale totale, parafrasando Alessandro Dal Lago, quello contemporaneo sembra lanciarci un messaggio sulla qualità della nostra vita quotidiana e del nostro destino di cittadini.”
Se – da frequentatori del luogo – non volete lasciarvi andare alla malinconia, potete consolarvi con la sezione dedicata alla rappresentazione dello stadio nell’arte. Dove si nota che gli artisti contemporanei sono molto sensibili alla complessità di significati che ha assunto quel tipo di spazio dentro la società. Purtroppo non vi si fa menzione (ma temo che non esista nemmeno più documentazione…) di un mural di Andrea Mastrovito (artista di fama internazionale, ma anche tifosissimo dell’Atalanta e autore di alcune delle gigantesche immagini usate dai tifosi per coprire gli spalti). Stava fuori dalla Curva Nord del vecchio stadio di Bergamo e si trattava di una citazione del celebre dipinto di Goya intitolato La fucilazione del 3 maggio 1808. Solo che al posto dei popolani di Madrid c’erano gli ultras nerazzurri; e nelle vesti dei fucilatori i poliziotti della Digos…
