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V / Cinque domande sullo scenario futuro

Con queste cinque domande ci prefiggiamo di individuare i nodi che la crisi sanitaria del Covid-19 con le sue conseguenze ha provocato a livello mondiale, con l’idea che, come disse anni fa un economista americano, la crisi, per quanto terribile, è un’occasione da non perdere.

 

Elena Pulcini, filosofa

 

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

 

Abbiamo subìto uno shock che ci ha destituiti dalle nostre certezze e dai nostri privilegi consegnandoci a una condizione di vulnerabilità radicale: radicale perché il vulnus, la ferita inflitta sulla parte di noi più esposta e fragile, cioè il nostro corpo, si è allargata al nostro intero stile di vita costringendoci a un momento di arresto, a disfarci rapidamente di tutti gli “ornamenti”, come direbbe Georg Simmel, di tutto il superfluo con cui da consumisti seriali abbiamo agghindato le nostre vite, per concentrarci sullo stretto necessario. Lo shock allora, con tutto il suo inevitabile carico di paura, è stato salutare: perché la paura, se reagisce a un vero pericolo, funziona come la passione del limite, quella che risveglia la memoria della nostra vulnerabilità umana troppo umana, e rompe il mito prometeico di una libertà e di un potere senza limiti. Abbiamo imparato, sembra, ad apprezzare il silenzio e la solitudine dopo una lunga sbornia di esteriorità, ci siamo addentrati nelle nostre regioni interiori per lo più sacrificate al nostro edonismo e a una coattiva passione dell’apparire, abbiamo riscoperto l’esistenza dell’altro con uno stupore e perfino un’euforia non priva di retorica, come sempre accade con il ritorno del rimosso. Ma ora la domanda è: quanto durerà questo risveglio? Quanto resisterà ai colpi della dura necessità dell’economico e all’imperativo della crescita che ha quasi subito ricominciato a esercitare la sua ineffabile tirannia su ogni nostro timido tentativo di provare a dar vita a un arendtiano “nuovo inizio”? E soprattutto, fino a che punto saremo capaci di interrogarci sulle vere cause di questa beffarda pandemia che ha reso schiavi soggetti abituati a pensarsi come sovrani? Perché è questa la posta in gioco: capire che il covid-19 è figlio del nostro (di noi umani) distorto rapporto cartesiano con la natura, l’effetto eloquente dell’inquinamento e delle polveri sottili che asfissiano le nostre città, la conseguenza delle deforestazioni e violazioni dei polmoni verdi del nostro pianeta esposti a quel misterioso spillover, quel salto di specie che ha reso il virus libero di vagare a piacimento per il mondo, rendendoci vittime globali di un pipistrello. Siamo infatti nell’era paradossale dell’Antropocene: nella quale l’umanità è il potente fattore prioritario che condiziona la natura e la vita sul globo terrestre e allo stesso tempo è la vittima potenziale del suo stesso agire. 

 

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?

 

La parola globalizzazione è entrata nel nostro lessico da molto tempo, diventando anche una parola quasi quotidiana, mediatica, familiare. Eppure non credo che la maggior parte delle persone abbia davvero capito, finora, di che si tratta. Globalizzazione è un concetto che allude in primo luogo a due aspetti essenziali: l’interdipendenza delle vite e degli eventi e l’erosione dei confini territoriali, di cui siamo solo vagamente consapevoli. È indubbio infatti che attraverso eventi simbolici come l’attacco terroristico alle Twin Towers del 2001, o la crisi economico-finanziaria del 2008, abbiamo avuto la percezione di una interconnessione globale e fatto esperienza di una inattesa vulnerabilità; ma è vero anche che non ne abbiamo tratto un vero insegnamento, come auspicava tra gli altri Judith Butler nel suo Vite precarie. La risposta all’insicurezza globale è stata piuttosto la regressione endogamica e aggressiva della politica (dei singoli Stati e della stessa Europa al suo interno) sostenuta dal revival immunitario di cittadini sempre più motivati da passioni negative come la paura persecutoria proiettata sull’altro, e il risentimento vendicativo che sfocia nella violenza. Passioni ulteriormente alimentate dalla crisi migratoria, quale facile pretesto per la costruzione di capri espiatori su cui legittimare la chiusura identitaria. Purtroppo la comunicazione globale consentita dalla rete, che pure ha rivelato potenzialità preziose – dalla immediatezza delle informazioni al sostegno sia pure “virtuale” delle relazioni affettive – ha mostrato anche il suo volto oscuro, non solo alimentando la costruzione del nemico attraverso le famigerate fake news, ma rivelando la sua doppia e ambivalente struttura di dominio e anarchia: da un lato il controllo verticale delle informazioni pilotate ad hoc dai grandi poteri, dall’altro la dinamica anarchica del mercato delle opinioni che rimbalzano attraverso i social offuscando pericolosamente la verità dei fatti. Eppure in questa forbice tra dominio e anarchico disordine, abbiamo visto riaffacciarsi momenti corali e solidarietà artigianali, come i canti collettivi dai balconi, gli applausi a chi ci cura, la spesa portata dai più giovani agli anziani del condominio. Un’àncora a cui è bene restare saldamente legati.

 

3. Negli ultimi decenni si è parlato di ampiamento della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

 

Se per umanesimo intendiamo genericamente, attingendo alle sue origini, un risveglio della cultura e delle arti fondata sulla capacità dell’“uomo” di dare libero corso alle proprie qualità e alla propria creatività, non si può non auspicarne un ritorno, soprattutto in un’epoca come la nostra in cui rischiamo di essere risucchiati dalla tirannia di un potere tecnologico pervasivo, dai suoi algoritmi omologanti, dalla sua vocazione al controllo totalizzante che, da affamato divoratore di big data, ci sottrae sempre più la libertà di decidere cosa leggere, dove andare in vacanza, quale vestito comprare, prevenendo ogni nostro desiderio e orientando ogni nostra scelta. Bisogna tuttavia fare attenzione perché in quanto illimitata fiducia nelle capacità e nelle possibilità del soggetto umano, l’umanesimo rischia di cadere in quella che è forse la trappola più insidiosa della nostra storia e della nostra cultura: vale a dire l’antropocentrismo, qualcosa che si afferma appunto ancora prima della modernità, se già Montaigne nei suoi bellissimi Saggi ne denunciava la pretesa e l’arroganza. Pretesa dell’uomo di essere il signore dell’universo, di poter sfruttare la natura ai suoi propri fini e bisogni, dando per scontata una relazione gerarchica con il mondo vivente. C’è infatti l’antropocentrismo alla radice del saccheggio delle risorse naturali e animali, dell’individualismo illimitato e dell’imperativo della tecnica in virtù del quale ciò che si può fare si deve fare; una visione tanto più pericolosa quanto più rivendica le virtù dell’umanesimo e di queste si fa velo. Bisogna allora tenerli accuratamente distinti per accedere a un umanesimo, se vogliamo ancora chiamarlo così, che valorizzi le dimensioni rimosse dell’umano – la vulnerabilità e l’empatia, la reciprocità e la cura – attraverso le quali è possibile ricostruire la profonda alleanza con la natura e il mondo vivente. 

 

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

 

La coazione alla crescita, all’espansione e all’innovazione, sempre più necessaria alla sopravvivenza stessa del capitalismo, ha da tempo imposto una logica predatoria “neoliberista”, rispetto alla quale l’ottimismo di Adam Smith e perfino il disincanto critico di Max Weber appaiono il lontano e utopico ricordo di una stagione ancora fiduciosa in una possibile alleanza tra economia ed etica. Si ha la netta sensazione che mai come ora sia in atto invece una scissione irreversibile; e che un manipolo di poche élites eserciti un dominio senza ammortizzatori dietro le quinte di un set teatrale apparentemente democratico, tessendo i fili del nostro futuro. Solo che si tratta di un dominio senza progetto e senza futuro, il cui unico scopo è appunto quello di acquisire per non morire, di primeggiare per non fallire, di restare a galla per non affogare. Un dominio cieco e irresponsabile che non riesce a farsi carico neppure delle prossime generazioni di figli e nipoti, e si serve di politiche immunitarie o sovraniste (da America first a Prima gli italiani…), preoccupate solo di garantire la coesione endogamica del proprio Stato territoriale con la quale sperano (o si illudono? o fingono?) di gestire i rischi sempre più ingestibili di un modello di sviluppo che non riesce più a risolvere i problemi che esso stesso crea. Il capitalismo, come ci ha spiegato di recente Jason Moore nel suo Antropocene o Capitalocene?, non ha un regime ecologico, ma è un regime ecologico, cioè un modo specifico di organizzare la natura, fondato sulla incessante subordinazione di quest’ultima alle necessità della produzione e all’accumulazione di ricchezza. Ma il fatto è che questo bisogno illimitato di risorse e di crescita si infrange nella realtà di un mondo con risorse limitate. Ancora una volta, dunque, la questione ecologica è cruciale se è vero, come ipotizza Bruno Latour, che nell’accordo di Parigi del 2015 le élites che partecipano al vertice sul clima si siano rese conto che il pianeta non sarebbe più stato in grado di sostenere le loro aspettative di sviluppo e di vita, che non c’era più per tutti un luogo dove “atterrare”: e dunque l’unica possibilità era quella di mettersi singolarmente al riparo, ponendo così fine ad ogni idea di un mondo condiviso e ad ogni sforzo collettivo di responsabilità per il futuro.

 

 

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

 

Il capitalismo, come ci ha mostrato Thomas Piketty qualche anno fa (Il capitale nel XXI secolo), confermando di fatto la denuncia prima rousseauiana e poi marxiana delle promesse non mantenute della modernità, produce disuguaglianza: anzi, una molteplicità di forme di disuguaglianza che proliferano sempre di più nello spazio globale. Era dunque inevitabile, come sempre accade quando esplode una crisi sociale, che a pagare siano in primo luogo i soggetti svantaggiati: che si tratti dei paesi del Sud del mondo o dei poveri di un paese ricco. Basti pensare agli effetti della quarantena: alcuni potevano permettersela, altri (i senza casa, i precari, i disoccupati) no. Ma non solo. La pandemia ha infatti fatto emergere un’altra terribile disuguaglianza: quella tra i (più) giovani e gli anziani, che sono diventati gli scarti, i déchets, per usare un termine di Georges Bataille; quelli che, di fronte all’alternativa di una vita giovane da salvare vengono necessariamente sacrificati. D’altra parte perché dovremmo stupirci? Il nostro mondo funziona attraverso la produzione costante e sempre più massiccia di scarti, attraverso i quali definiamo ciò che all’opposto è utile, funzionale, produttivo. Salvo poi, per una sorta di sarcastico contrappasso, essere invasi da una proliferazione di scarti (le isole di plastica, l’immondizia che invade le città, i rifiuti tossici) che cerchiamo affannosamente di ignorare o di spostare altrove ottenendo per lo più la loro moltiplicazione: perché gli scarti sono il risvolto oscuro e putrido della benjaminiana fantasmagoria della merce, la verità nascosta e ormai endemica di un mondo edificato sull’imperativo tirannico e abbagliante della produzione e del profitto. A questo imperativo abbiamo sacrificato i nostri anziani, morti silenziosamente senza affetti e senza degna sepoltura, ormai ridotti ad una categoria, inutile e superflua. Ma con loro abbiamo perso un pezzo della nostra storia, della nostra identità, e soprattutto la memoria di un modo diverso di vivere da cui avremmo ancora molto da imparare: come il fatto che gli scarti hanno un loro specifico e potenziale valore, che non è quello dell’utile e del guadagno.

 

Vincenza Pellegrino, sociologa

 

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

 

Mi vengono in mente diversi modi di rispondere alle domande sugli scenari futuri aperti dal corona virus.

Da un lato, potrei azzardare alcune ipotesi sulla effettiva evoluzione della società-mondo a partire dai processi innestati dalla pandemia. Magari a tratti lo farò, ma in generale parlare di futuro come “fatto” (come cose che effettivamente, probabilmente accadranno) mi interessa meno, scientificamente e politicamente. Mi viene sempre la tentazione di sottrarmi a questo invito (di solito inizio a tergiversare con i ‘dipende’, a chiedere precisazioni rispetto ‘a quale arco temporale’ ci si riferisce e così via), non per spocchia accademica, credo, quanto piuttosto per non assumere gli elementi inerziali del sistema come referente privilegiato dei miei discorsi (anche se capisco perché molti lo fanno).

Dall’altro lato, cosa che preferisco, potrei parlare del futuro non come fatto ma come “prodotto culturale” legato alla pandemia, azzardare cioè l’ipotesi di una evoluzione in corso nell’immaginario delle persone rispetto a ciò che si aspettano ora, dopo questo incredibile esercizio collettivo di dirottamento della storia. Potrei parlare cioè di come la pandemia ha aperto spazi immaginari di futuro (su questa differenza mi permetto di rimandare al mio Futuri possibili. Il domani per le scienze sociali di oggi, ombre corte, Verona 2019.  

Questo forse mi interessa di più, perché si tratta di discutere di futuro in termini di “bivi” che riusciamo a decifrare ora, nuovamente, da questa inedita posizione, snodi di storia ri-aperti alla mente collettiva che ora percepisce in modo nuovo la tensione tra possibilità e rischi, tra desideri e paure, e così via. Forse sono molte di più le persone che in questo momento non danno per scontato quanto sarà, cosa a cui invece la retorica realista del tardo-capitalismo di cui parla così bene Mark Fisher (Realismo capitalista, Produzioni Nero, Roma 2018) ci aveva ormai piegato. 

Prendiamo ad esempio i materiali del laboratorio di sociologia culturale che sto facendo da un mese con un centinaio di studenti universitari dell’Università di Parma, e che si chiama proprio “Fare Memoria Collettiva del Virus” (si veda Maurice Halbwachs, I quadri sociali della memoria, Ipermedium 1997.) Il dolore della costrizione a cui il virus è legato e il senso di morte che accompagna le giornate, convivono con un “certo potenziale reattivo che si accende” – dice uno studente – “perché appunto il virus mostra che siamo capaci di sconfiggere l’inerzia, si allarga la consapevolezza che dipende da noi forse, e inizio a chiedermi più chiaramente cosa non volevo del vecchio mondo”.

Allora riprendo la domanda: ai loro occhi cosa cambierà davvero con la pandemia? Come inquadrano i cambiamenti legati al corona virus? (è interessante se immaginiamo che questi giovani tra poco laureati sono in qualche modo futura classe dirigente…) 

Socialmente parlando, ad esempio, gli studenti colgono cambiamenti legati al peso delle relazioni in Rete. L’uso delle piattaforme digitali produce un certo spazio di libertà: svegliarsi tardi, rallentare, una minore mobilità ed una esperienza profonda del non-produrre, “che è diverso dal non-fare” dice una studentessa, “è un fiorire nei momenti di esistenza slegati dalla continua promozione di sé”. Dall’altro lato, sentono il rischio di una conversione stabile (“io temo verrà l’università telematica”) che porti ulteriore frammentazione sociale, distanziamento fisico, e anche una nuova sussunzione delle energie: “un conto è fare lezione in rete con la fame di vedersi che abbiamo adesso, un conto sarebbe stare sempre connessi da una stanza con un tele-casa-studio-lavoro nella vita frenetica di prima, il che significherebbe lavorare anche di notte e anche nel bagno”.

Economicamente, “la crisi rischia di spalmare verso il basso il peso delle conseguenze” dice uno studente E continua: “Io sono arrivato in Italia dall’Albania a 7 anni, ho studiato con i denti, non ho ‘casa’ da tanto. Casa sono i genitori, la volontà, la strada. Se togli la strada e la piazza ad alcuni, gli togli tutto quanto li mette nella stessa casa degli altri, come ad esempio per me era l’aula con i miei compagni di studio”. 

Culturalmente, paiono aprirsi fronti inediti di riflessione: “Ci eravamo dimenticati che le istituzioni producono protezione reale”; “tutti parlano in tono eroico di professionisti che prima identificavano non come ‘pubblici’ ma come ‘servizi’ e ora di nuovo sono ‘operatori pubblici’”; “non ci vuole una laurea in scienze politiche per accorgersi che sarà più difficile ovunque nel mondo proporre ora lo smantellamento dei sistemi sanitari: si apre una potenziale nuove fase di centralità del welfare, no?”.

Sono solo esempi, per dire che i futuri ri-aperti dal virus agli occhi dei giovani sono quelli di prima, solo più evidenti e più disponibili al dibattito in forma di possibilità che abbiamo davanti, e questo è una importante occasione, il fatto che più persone intendano in modo semplice e accessibile la storia non come un fatto ma come un compito.

 

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?

 

Ragiono ancora a partire dalla pratica riflessiva dei “bivi”. Questa che chiamiamo “crisi sanitaria” – che non è propriamente sanitaria, credo, cioè non investe il sanitario, quanto il sociale in senso ampio, perché investe la tenuta delle istituzioni, la fiducia reciproca, la capacità di redistribuire i costi, oltre ad implicare una profonda innovazione del fare quotidiano, che tocca tutti (e lo dico per non far passare troppo facilmente l’idea che il ‘sanitario’ sia un aspetto a sé e non un aspetto del sociale, o che alcuni stanno agendo mentre altri attendono: la società non funziona così…) – comunque, questa crisi rispetto alla globalizzazione economica credo comporterà sia l’accelerazione di alcuni processi precedenti (si arricchirà ancora di più chi venderà ‘app’ per il controllo, chi organizzerà piattaforme digitali del lavoro, chi venderà oggetti utili al distanziamento, e così via), quanto l’accelerazione di contro-tendenze già in atto (chiudendo molte attività, ne apriranno di nuove che credo prevedranno più micro-mercati locali, produzioni a km zero, forme mutualistiche e cooperative tra lavoratori che comportano minori intermediazioni, gestione di spazi di lavoro comuni e spazi di autoformazione e così via). Sono bivi appunto: tendenze opposte entrambe favorite dalla crisi, il cui esito dipenderà ancora una volta dai discorsi che sapremo fare, dal basso e sapranno dall’alto, e maturare intanto. 

Certo, non nego che alcune tendenze siano quasi inevitabili: la comunicazione planetaria aumenterà in ampiezza e profondità (le piattaforme si moltiplicano, gli utenti aumentano ogni giorno). Ma dove questo conduca è aperto: ancora una volta, se “l’esperienza di morte così comune che è riuscita a circolare è come se avesse iniziato un’epoca globale di appartenenza unica ora più sentita”, come dice uno studente del laboratorio, d’altro canto “la richiesta di notizie reciproche aumenta la comparazione continua e rafforza il controllo”, per citare un’altra studentessa.  

 

Non processi lineari, quindi, ma tendenze opposte con-presenti, da immaginare in lotta, per discuterne.

 

3. Negli ultimi decenni si è parlato di ampiamento della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

 

Qui torno all’esperienza degli ultimi giorni come docente universitaria. Da un lato, mi chiedono di registrare alcune lezioni e di metterle sui siti a disposizione degli studenti: prodotti ‘stoccati’ in luoghi deserti che spero davvero non divengano la scusa per intendere le lezioni come ‘oggetti’, o i programmi come ripetizioni di sequenze fisse. Dall’altro lato, sperimento lezioni in streaming che mostrano elementi interessanti: gli studenti, con la possibilità di non misurarsi reciprocamente rispetto ai canoni di bellezza che rendono ossessiva la paura di esporsi, parlano e discutono di più, a schermi disattivati imparano quasi a confliggere durante le lezioni, ed io mi scopro contenta. 

Insomma, credo che se questi giorni ci consegnano una Scuola o una Università telematiche, sarà davvero un passo irreversibile in direzione opposta al neo-umanesimo a cui molti di noi stavano pensando in termini di maggiore capacità di governo delle tecnologie, capacità di ri-condurle fuori dai meccanismi del misurare e del produrre ricchezza. E tuttavia, in questa fase le tecnologie mostrano un potenziale nuovo e diverso nell’aiutare le persone, de-comprimere i tempi, diminuire gli spostamenti e la frenesia delle giornate. 

 

Ora credo si tratti in questo passaggio di esplicitare con più forza a quali relazioni sociali, educative, affettive tendiamo proponendo l’uso di tecnologia ai giovani. O per dirla più aulicamente si tratta di ripoliticizzare il nostro linguaggio\pensiero rispetto alle funzioni che svolgiamo, per impedire che si vada più rapidamente verso cose che non volevamo neanche prima, in nome dell’emergenza. 

 

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

 

Domanda difficile, perché il nesso tra élite e capitalismo credo sia complesso e ambivalente. Mi spiego meglio: se le élite politiche nazionali europee, ad esempio, mostreranno nei prossimi mesi la tenuta della volontà di sostegno ai sistemi di welfare, se continuano a contrapporsi in qualche modo alle priorità imposte da chi tutela gli interessi finanziari, e così via, possono uscirne rafforzate in chiave politica locale, e questo può rendere più significativo il ruolo dello Stato nei confronti degli interessi dei capitali transnazionali (per semplificare molto, può indebolire alcuni automatismi e servilismi politici che hanno caratterizzato le fasi espansive del tardo-capitalismo o neoliberismo che dir si voglia). 

Ma questo atteggiamento può portare a una sorta di ‘rilancio simbolico’ del livello nazionale che poi non aiuta le alleanze politiche più vaste di cui a mio avviso abbiamo bisogno proprio per contenere il potere della classe economica egemonica a livello globale, può togliere impulso al passaggio storico verso il superamento delle retoriche nazionaliste (tutto questo contare i ‘propri’ morti e i ‘propri’ contagi per nazionalità, ad esempio, è inquietante). 

Gli ingredienti in campo si intravedono, quindi, ma è difficile capire come si combineranno tra loro per quantità e quindi con quale esito. 

 

Io azzardo nel dire che la pandemia in sé è un’occasione per maturare la direzione verso quella ‘Repubblica Universale’ di cui parlava già Victor Hugo – tra i tanti – a fine ‘800: forme di governo locale connesse tra loro e non competitive. Ma molto dipende appunto da come gestiremo il discorso tutti noi nei prossimi immediati tempi, da se e come dismetteremo questo pensar per nazionalità, regioni, province, insomma se e come dismetteremo questo persistente ‘profiling’ che va ben oltre la pragmatica organizzativa e non aiuta a pensare un mondo migliore ‘dopo’.

 

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

 

Beh, qui mi verrebbe da dire che la diseguaglianza sociale è una componente ineludibile delle società, uno degli elementi più plastici della storia, e quindi, sì, è destinata a perpetuarsi ‘dopo’, appartiene al mondo che ereditiamo ma che noi stessi reiteriamo spesso senza accorgercene (il continuo profiling dei gruppi sociali di cui ho parlato poco prima ne è un esempio). 

Rispetto a questa crisi credo che, da un lato, le classi sociali subalterne pagheranno più duramente l’esperienza della pandemia: “io resto a casa” è un’espressione sensata solo per chi ha la casa, per chi ha una stanza, per chi ha un pc personale; tutti vengono colpevolizzati se escono ma molti non sono nelle condizioni nemmeno di obbedire. Sto seguendo progetti che riguardano richiedenti asilo ‘diniegati’ (che non hanno diritto a nessun aiuto), persone senza fissa dimora, persone che abitano in nuclei dove vi sono uomini violenti. L’epidemia per loro sarà ammalante di più e in modo diverso che per tutti gli altri.  

Dall’altro lato, il ceto medio che già impoveriva pagherà maggiormente il prezzo del ‘dopo’. Partite iva, precari cognitivi, ma anche artigiani e così via: si allargano ora le platee di quelli che – avendo dovuto interrompere la folle corsa quotidiana a cui li portava il bisogno di mille lavori poco pagati per arrivare a fine mese – si troveranno con meno contatti e completamente a terra. 

A mio avviso, questo “rendersi evidenti” di alcune forme di sfruttamento ormai insostenibili anche ‘prima’ della pandemia, potrebbe essere un’occasione se si assumerà più seriamente l’idea – che a tratti spunta nel dibattito di questi giorni – di politiche a sostegno del reddito di base e incondizionate – o comunque politiche che assumono più esplicitamente il fatto che non avere un salario sufficiente oggi non è questione di colpa o di mancanza di formazione o di mancanza in genere, ma è questione di deregolamentazione del lavoro e del salario. 

Ma potrebbe anche essere un vero disastro, se, in nome della restaurazione di un rendimento prefissato, la politica colpevolizzasse ancora una volta coloro che non stanno al passo. Se così fosse, dopo questa pandemia, si aprirebbe credo una stagione di conflitti sociali durissimi. 

 

Leggi anche:

Walter Siti, Matteo Meschiari, Francesco Guala, Cinque domande sullo scenario futuro (I)

Francesca Rigotti, Davide Sisto, Luigi Zoja, Cinque domande sullo scenario futuro (II)

Nus, Nicole Janigro, Gustavo Pietropolli Charmet, Cinque domande sullo scenario futuro (III)

Andrea Tagliapietra, Paolo Jedlowski, Franco D’Intino, Cinque domande sullo scenario futuro (IV)

 

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