Internet delle cose / Connessione. Anche le macchine si parlano

13 Agosto 2017

La grande promessa che Internet sta facendo alle persone sin dalla sua comparsa sulla scena sociale è quella della connessione. Della possibilità cioè di collegarsi ovunque e con chiunque. Pertanto, il successo della Rete è fondamentalmente basato sulla capacità di soddisfare una delle più importanti necessità degli esseri umani: quella di costruire e coltivare le relazioni con gli altri. Di conseguenza, oggi viviamo in un mondo in cui siamo tutti fortemente connessi gli uni con gli altri. E il nostro livello di connessione reciproca sembra crescere costantemente. 

 

Ma tutto ciò crescerà ulteriormente con la connessione, oltre che con gli esseri umani, anche con gli oggetti materiali. Come mostra chiaramente il giornalista statunitense Samuel Greengard nel libro Internet delle cose (Il Mulino), il cosiddetto “Internet delle cose” di cui si sta parlando ormai da diversi anni è esattamente questo: un network che sfrutta il fatto che gli oggetti oggi, grazie al processo di digitalizzazione in corso, tendono sempre più a comportarsi come gli esseri umani, cioè generando e condividendo dati e informazioni. Ma le “macchine” possono anche comunicare direttamente tra loro. Lavatrici, frigoriferi e automobili, ma anche cancelli, pneumatici, strade sono sempre più in grado infatti di elaborare informazioni e di trasferirle ad altri apparecchi. La società Cisco Systems stima che nel 2020 gli apparecchi connessi nell’“Internet delle cose” saranno 50 miliardi, mentre attualmente gli utenti di Internet sono “solo” 7 miliardi. 

 

Illustrazione di Laura Berger.

 

Tutto ciò porta indubbiamente degli enormi vantaggi alle nostre società, sia sul piano dell’efficienza del sistema economico (che riduce tempi e costi), che sul piano delle prestazioni a disposizione del singolo per rendere maggiormente confortevole la sua vita. Questo processo è inarrestabile e probabilmente in futuro indosseremo abiti connessi a Internet o saliremo su automobili intelligenti in grado di portarci da sole a destinazione e scegliendo sempre la strada migliore. Ma unire enormi quantità di soggetti comporta anche di poter sfruttare le possibilità offerte da quella “intelligenza collettiva” che inevitabilmente si genera. Una intelligenza che può offrire nuove soluzioni per i numerosi problemi che le società contemporanee sono costrette ad affrontare ogni giorno.

Tutto bene dunque? Non proprio. Prima di tutto va considerato che già oggi siamo connessi oltre le nostre necessità. Oltre cioè la nostra capacità di coltivare delle relazioni soddisfacenti. Queste infatti richiedono impegno e tempo e certamente tutto ciò non può esserci se le relazioni da coltivare sono centinaia come abitualmente succede. 

 

Ma va considerato anche che il mondo digitale si basa su un evidente paradosso. Chiede alle persone di poter sempre più accedere alla loro esperienza di vita. Di avere cioè delle informazioni sulla loro vita privata per essere in grado di offrire dei servizi migliori. Dei servizi selezionati e costruiti “su misura”. Questa apertura del mondo privato produce però delle conseguenze sul piano della privacy, perché, se tutto viene registrato e condiviso, questa non viene più adeguatamente tutelata e si producono inevitabilmente degli abusi e degli sfruttamenti intensivi delle informazioni personali. E come riporta Greengard, gli hacker hanno dimostrato di poter entrare in tutto quello che è connesso: nei sistemi frenanti delle automobili, così come nelle apparecchiature sanitare (pacemaker, defibrillatori, ecc.). Ma va anche considerato che tutto ciò peggiora via via che il Web diventa un universo connesso. Via via cioè che persone, organizzazioni e oggetti si collegano tra di loro, mettendo conseguentemente in comune dati e informazioni. 

 

E sta venendo avanti anche l’idea che le macchine possano essere totalmente autonome. Che possano connettersi soltanto tra loro, senza considerare gli esseri umani, i quali, tutto sommato, sono considerati un fardello inutile, con le loro lentezze mentali e soprattutto con le loro limitazioni morali. Ma come ha affermato in un’intervista rilasciata a Greenberg la psicologa del MIT Sherry Turkle, che ha a lungo studiato come il Web influenza i rapporti umani, «Quando pensiamo di affidare la cura dei bambini a un robot, ci imbarchiamo in un “esperimento proibito”. Lo sviluppo sano di un bambino dipende dall’essere esposto alla piena gamma delle espressioni e delle inflessioni vocali umane. Le future capacità del bambini di dare amore e cure dipendono dal modo in cui il bambino percepisce l’amore e la cura da parte di una persona. Nulla di tutto ciò può venire da un robot. E i nostri anziani – e un giorno tutti noi saremo come loro – vogliono parlare del senso della loro vita con coloro che capiscono cosa sia una vita e quali siano le cose che hanno significato per l’essere umano: i ricordi della nascita di un figlio, di un matrimonio, della perdita di un coniuge. I robot non possono capire nulla di tutto questo» (p. 128).

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