5 per mille

Saviano: il romanzo e la storia vera

19 Giugno 2025

Firenze, autunno del 1977. La città è travolta dalla contestazione studentesca e dalle tensioni. Nelle aule dell’università esplodono dibattiti infuocati. I posti a sedere sembrano quasi scomparire in mezzo alle persone accalcate che rimangono in piedi. Molti decidono di alzarsi sui banchi o sulle poltrone per avere una visuale migliore, per poter prendere la parola o per attirare l’attenzione della folla. Ogni intervento è seguito da applausi, mugugni, urla di dissenso, ondate di fischi. Alcuni fanno partire cori contro le forze dell’ordine, ma altri preferiscono indirizzare la loro rabbia verso le autorità accademiche, proclamando a gran voce l’inizio dell’autogestione.

In questo clima di euforia e tensione si muove Rossella Casini. Ha 21 anni, studia pedagogia e vive a Borgo La Croce insieme alla sua famiglia (è figlia di un ex dipendente Fiat e di una casalinga). Decide di unirsi a un corteo che percorre le strade del centro fino al piazzale della Porta del Prato, con fischietti, tamburi, bandiere rosse. Molti si affacciano alle finestre e rivolgono lo sguardo ai manifestanti: “qualcuno applaude, qualcuno saluta, qualcuno sbircia e basta”. Non si tratta di una massa compatta di persone, ma di “assembramenti più o meno corposi” somiglianti alle “isole di un arcipelago”, che non mantengono il contatto con gli altri gruppi.

L’apparente tranquillità che si respira nella disunita carovana viene interrotta, all’imbocco di un vicolo, da una pioggia di monetine e dal suono di una pernacchia. La provocazione arriva da alcuni giovani in giubbotto nero, in sosta davanti a un bar. Di fronte al propagarsi di insulti sempre più pesanti – “comunisti buchi di merda!” – gli aggrediti si paralizzano e sembrano spacciati, anche perché sono rimasti isolati dai loro compagni. Arrivano tuttavia rinforzi insperati. Due ragazzi che parlano un dialetto del sud mettono in fuga gli aggressori, con modi tanto bruschi quanto efficaci. Rossella riconosce uno di loro, che le rivolge la parola per assicurarsi che sia tutto a posto e le sorride, mostrandole un’insolita premura. È “uno del palazzo”.

Dopo qualche giorno, la giovane decide di incontrare il suo misterioso benefattore. Si chiama Francesco Frisina e vive in un appartamento abitato da fuorisede provenienti dalla Calabria. Rossella bussa alla sua porta e viene accolta con cortesia. Riesce ad apprendere le storie di alcuni inquilini, fra i quali c’è anche un ex seminarista. La sua curiosità è però tutta concentrata sul protagonista dello scontro. Vuole sapere qualcosa in più di lui: cosa studia, come vive, perché partecipava a quella manifestazione. Francesco in un primo momento è evasivo, ma poi si decide a svelare le sue motivazioni. Non si interessa di politica, di lotte sociali, di destra o di sinistra. È andato lì solo per lei: “Se so che tu rischi qualcosa, io mi faccio tutti i cortei dei comunisti e pure dei fascisti. […] Me ne frega solo di te”.

In questo episodio affonda le radici la trama dell’ultimo romanzo di Roberto Saviano, L’amore mio non muore, uscito per Einaudi il 6 maggio del 2025. Come chiarito dallo stesso autore, il libro racconta “una storia vera”, incardinata su fatti “realmente accaduti, come reali sono i nomi dei protagonisti principali”. Gli stessi dialoghi sono stati modellati “sulla base di interviste, intercettazioni, inchieste giudiziarie e relative sentenze”, ma non sempre questa operazione si è potuta fondare su basi documentarie solide. La presenza di numerose “lacune” ha infatti contribuito a conservare alcune zone di oscurità, impedendo la definizione di un quadro generale “dettagliato e compiuto”. Proprio con lo scopo di colmare i vuoti, sono entrati in gioco gli strumenti rinvenibili nell’arsenale “dell’invenzione narrativa”. La ricostruzione – si legge in una nota esplicativa in apertura del testo – è stata resa possibile anche dall’uso della “congettura”, sia pur in forma sorvegliata e non arbitraria, seguendo “i criteri della deduzione logica e della coerenza”.

Roberto Saviano esplora segmenti di vita che le sole fonti (storiche, giudiziarie, scritte o orali) non riuscirebbero mai a raccontare in maniera esaustiva. Prova a scavare nella mente e nella coscienza profonda di Rossella, sforzandosi di comprendere le ragioni di un sentimento che a tratti sembra cieco, autolesionista, ostinatamente orientato verso la ricerca della felicità. Guidata dall’amore per Francesco, la giovane comincia a inabissarsi nella realtà atroce di una famiglia obbediente alle logiche della criminalità organizzata. In questa discesa verso l’abisso, Rossella oscilla fra il rifiuto razionale del male e la speranza di una redenzione impossibile. Raggiunge la cittadina di Palmi in Calabria, portando con sé i genitori e sua nonna, scoprendo logiche che le erano ignote. Impara a comprendere che in quella terra la saggezza è conoscere “il momento migliore per sparare”, che l’inazione è solo “dei codardi”, che per avere una proprietà “un po’ più grande di una catapecchia” devi avere “certe amicizie”, che a contare non è solo il cognome, ma anche “per chi combatti, e per chi muori”.

Ciò nonostante, L’amore mio non muore si sviluppa anche su un livello narrativo più ampio e si iscrive con buoni motivi nel genere del romanzo storico. L’autore focalizza la sua attenzione su un contesto talvolta difficile da decifrare, ricostruendo l’incontro e lo scontro fra due mondi lontani fra loro sul piano sociale, economico, politico e culturale. Dalle piazze e dalle università delle città del centro-nord, dove si sogna la rivoluzione o si muore di eroina, i lettori sono condotti in un microcosmo nel quale le persone vivono in tenute simili alle “fazendas” dei teleromanzi sudamericani, in contrade abitate da un unico gruppo di parenti, con uomini che indossano abiti costosi sognando di somigliare a Steve McQueen, ma finiscono loro malgrado per scimmiottare Mike Bongiorno.

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Roberto Saviano.

In questo scenario si collocano fatti e misfatti ricostruiti – sia pur in modo parziale – dai tribunali competenti, ma anche parole che, dopo essere state pronunciate, non hanno lasciato alcuna traccia visibile o storicamente indagabile, andando a depositarsi solo nelle orecchie, nel cervello e nel cuore di chi le ha ascoltate. Pur non rinunciando alla sua voce informata, per certi versi demiurgica, lo scrittore accetta l’idea di non essere completamente onnisciente e spinge sull’acceleratore dell’intelligenza creativa per ricostruire il passato andando oltre il silenzio delle carte, anche a costo di rischiare deragliamenti. Nel farlo, finisce per affondare la lama in contraddizioni insanabili, che pongono le logiche dei sentimenti in contrasto con le logiche della fedeltà al sangue.

Trovandosi di fronte all’evidenza di un odio atavico e insanabile, Rossella decide di rivelare tutta la “verità” alle autorità, quanto meno la “sua” verità, ma le ragioni di questa scelta non trovano spiegazioni definitive se non nel profondo del suo animo. Potrebbe essere stato il desiderio di giustizia a guidare il suo operato, in prima istanza. Tuttavia bisogna tenere in considerazione anche altri fattori, come ad esempio la sua volontà di reclamare il diritto a vivere con libertà il suo amore e il bisogno profondo di trovare qualcuno che ascolti il suo dolore. Del resto, lo stesso romanzo di Roberto Saviano vive su questo doppio registro semantico, muovendosi fra una missione civica, e una missione più puramente letteraria. Da un lato, c’è infatti l’ambizione – dichiarata anche in pubblico nelle ultime settimane, spesso divenuta preponderante nelle opere dello scrittore campano – di contribuire alla riapertura del caso per definire una verità credibile sulla morte della protagonista, superando le incertezze dei procedimenti ufficiali. Dall’altro lato, c’è la pretesa di ascoltare le sofferenze della stessa protagonista, andando oltre i limiti imposti dal diritto penale o dalla ricerca storica.

È quindi carica di implicazioni la scelta di aprire il finale a diverse soluzioni, fondata sul rifiuto di conferire alla narrazione – a quella storica prima ancora che a quella letteraria – un assetto irrevocabile. Di certo siamo chiamati a tenere in considerazione l’idea che il “profilo tecnico-giuridico” di alcune ipotesi formulate in tribunale prevalga su alcuni “convincimenti in fatto della Corte”. E non possiamo ignorare che la responsabilità di alcuni soggetti coinvolti sia stata ritenuta enorme nella sua chiarezza, così come il movente dell’assassinio (“imponente, mastodontico, innegabile”). Ciò nonostante, rimangono ampie le distanze che separano le sentenze formali dalle condanne morali.

Sia chiaro: la distinzione fra l’universo delle indagini condotte sulle fonti e quello dell’immaginazione dello scrittore resta sfumata, in termini generali. Tuttavia, chi si confronta con un libro come L’amore mio non muore può provare a orientarsi fra i confini che George Orwell intendeva disegnare nel suo The Road to Wigan Pier (1937). Più nello specifico, può tracciare una linea di separazione fra gli eventi realmente accaduti e quelli “riarrangiati” (“Nearly all the incidents described […] actually happened, though they have been rearranged”). Roberto Saviano decide infatti di agevolare questo sforzo e – percorrendo una strada in parte nuova nell’ambito della sua ormai ampia produzione, basata sull'estremizzazione di una strategia già sperimentata nel libro su Giovanni Falcone – innesca un processo di disvelamento che fa diventare sempre più corpose le connessioni fra romanzo storico e ricostruzione storiografica (difficile non pensare ai casi sensazionali di antico regime raccontati da Natalie Zemon Davis o alle riflessioni sviluppate, più di recente, da studiose come Lisa Roscioni e Fernanda Alfieri): inserisce nel suo testo alcuni congegni di riconoscimento che mettono in evidenza il lavoro di preparazione, dichiarando le sue scelte in maniera esplicita, aprendo a lettrici e lettori le porte del suo laboratorio investigativo, mettendo persino a nudo le tecniche di cucitura.

La forza della scrittura si rende visibile proprio nella possibilità offerta alla testimonianza documentale di convivere con “l’avventura conoscitiva” della letteratura (richiamo consapevolmente le espressioni usate da Walter Siti proprio per criticare alcune opere dell’autore di Gomorra), che non teme le ambiguità o le stonature, ma al contrario le affronta a viso aperto. Accettando una sfida difficoltosa sul piano della definizione di uno stile narrativo, L’amore mio non muore riapre il discorso sulla potenzialità della narrazione e dell’immaginazione, che tenta di avvicinarsi alla verità senza avere talvolta risposte esaustive, che non ha paura di perdersi negli angoli più nascosti della mente umana, che aggira i limiti di una documentazione elusiva intraprendendo percorsi tortuosi, rivolgendosi agli universi contigui, nel tentativo di rinvenire risposte plausibili.

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