Stefano Jacini, Il romanzo di Radetzky

19 Novembre 2024

È una seduta spiritica La cuoca di Radetzky di Stefano Jacini (La nave di Teseo, pagine 220, € 18), spassosa, ironica, piena di leggerezza e intelligenza e, last but not least, una lettura politica sottilmente contemporanea, nonostante la storia sia ambientata tra gli anni 30 e 40 dell’Ottocento a Milano. Milanese doc è l’autore, consumato novellista, melomane, esperto d’opera e di case editrici (ha lavorato alla Sugar, a il Saggiatore, ha fondato e diretto le edizioni Il formichiere, è socio fondatore di Edt) e collabora con il Giornale della musica. Per cui questo romanzo, oltre alla scrittura, sviluppa una robusta colonna sonora.

Siamo nel Lombardo-Veneto nel periodo che va a cavallo tra la dominazione napoleonica e quella austriaca e per i milanesi, speranzosi dell’indipendenza, si cade, come si suol dire, dalla padella alla brace. Ce la racconta dall’alto il fantasma di Giuseppe Prina, che fu onesto Ministro delle Finanze in epoca napoleonica, linciato a ombrellate (e gli ombrelli torneranno nella trama, sarà perché Milano è una città piovosa…), denudato e trascinato per le strade della città dai milanesi guidati dal rivoluzionario Federico Confalonieri. Jacini si inserisce nel solco della Prineide di Tommaso Grossi, erroneamente attribuita al Porta, per riabilitare il Ministro, vittima di un’ingiustizia e della pazzia della folla. La rivoluzione, ci avverte Jacini tra le righe, deve essere ben guidata e non solo soggetta a un impulso immediato, perché può avere conseguenze nefaste, come nel “caso Prina”, che mise in moto, tramite l’aiuto dei nobili, l’arrivo degli austriaci in città dal vicino Garda. Da parte dell’autore non possiamo nemmeno lontanamente sospettare una spinta conservatrice, visto che è animato dalla stessa fibra democratica dei suoi antenati: il suo omonimo ottocentesco, il trisnonno, è stato padre dell’Inchiesta agraria e l’altro omonimo, il nonno, uno dei fondatori con Don Sturzo e De Gasperi del Partito Popolare, picchiato dai fascisti durante il delitto Matteotti, e, in seguito, Ministro della Guerra nel governo Parri.

Dunque, dopo il linciaggio Prina, i milanesi si vedono arrivare il feldmaresciallo Joseph Radetzky, in qualità di governatore del Lombardo Veneto. Un militare che, dopo tante vittorie su Napoleone, avrebbe potuto vivere con tranquillità un’esistenza di agio a Vienna e, invece, decide di trasferirsi in una città che lo vorrebbe morto. Però qui, oltre al potere, Radetzky ha una consolazione speciale. A Prina e al generale si aggiunge, infatti, come comprimaria, la figura di Giuditta Meregalli, giovane cuoca che rapisce presto l’anima, e non solo, del feldmaresciallo. Quarant’anni più giovane di Joseph, sfornerà per il feldmaresciallo un numero imprecisato di manicaretti e di pargoli, che formeranno una famiglia parallela rispetto a quella ufficiale della moglie, Francesca von Strassoldo Grafenberg, ludopatica e alcolista, madre degli altri quattro Radetzky.

Questo dunque è anche un libro sulla voluttà, sull’amore che però non cancella le responsabilità di Radetzky sulle molte esecuzioni, impiccagioni e fucilazioni di rivoluzionari, avvenute a Milano.

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Le trame si intrecciano e i personaggi sono tutti legati tra di loro: Giuditta aveva assistito all’età di nove anni, assieme alla madre, al linciaggio di Prina avvenuto in piazza San Fedele e forse anche in virtù di quel trauma si trasforma in un’evoluta popolana e in una moderata progressista che ha a cuore gli insorti della prima Guerra di indipendenza e delle Cinque giornate. Particolarmente interessante la spiegazione per cui le barricate hanno avuto successo: erano state erette nei budelli del centro, impenetrabili, quasi come un piccolo Vietnam, dalla carica dei dragoni. E il paradosso che ci fa accompagnare festosamente battendo piedi e mani l’esecuzione della famosa Marcia di Radetzky, composta da Johann Strauss per la “presa” di Custoza.

La cuoca di Radetzky non manca di rimarcare le ambiguità del sabaudo Carlo Alberto con il suo esporsi e ritrarsi, lanciare il sasso e poi nascondere la mano, ma parla anche delle feste, degli amori, della vita culturale dei salotti e della Scala, luogo temuto dagli austriaci perché le opere esaltavano la lotta contro il tiranno.

I personaggi sono tutti venati da uno humour quasi inglese e da una benevolenza che a fatica la nostra storia ravvisa nei confronti del generale che occupò il palazzo Arconati, nel cuore della città, distrutto poi dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale.

Nel suo essere molteplice, come si addice a un buon romanzo, con uno stile che oscilla tra Balzac e Manzoni (che non piaceva affatto a Giuditta e a Balzac stesso), la lettura porta a una riflessione sul risorgere attuale dei nazionalismi, quando quei rivoluzionari che volevano l’Italia unita avevano già in petto l’idea di una federazione di Stati europei di cui ora siamo incuranti, dopo averla faticosamente raggiunta, o di cui alcuni si vogliono sbarazzare. Ma è anche una godibilissima storia di trame di corte, di dame e damazze, di femministe ante litteram, come la contesse Maffei e Samojlova, amante dello zar, o Mademoiselle Cardillac, la cui figura era stata già abbozzata nel romanzo precedente, La dama di Rue de Vaugirard (Bompiani, 2021), una Coco Chanel risorgimentale, membra del clandestino Club delle giardiniere.

Si parla, in omaggio al titolo, naturalmente anche di irraggiungibili ravioli alla zucca, dell’ossobuco e di una cotoletta, il famoso orecchio di elefante, di molto superiore per consistenza e sapore alla proverbiale wiener schnitzel.

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