Milano e Palestina: io c'ero

24 Settembre 2025

Caro Doppiozero, 

anche io, lunedì, sono stata alla manifestazione indetta dai sindacati di base in sostegno della popolazione della Striscia e della Global Sumud Flotilla. Non sono andata per sostenere i sindacati, pur essendo iscritta a un sindacato, ma perché da troppo tempo non ho una voce, quella di chi si oppone ai massacri e vorrebbe fare qualcosa ed è ormai relegata in un virgolettato che non fa più notizia. 

In strada ho trovato soprattutto ragazzi. Le scuole erano chiuse o occupate, ma non è questo che li ha spinti a sfilare. Potevano anche andarsene in un bar o al parco e, invece, camminavano, si abbracciavano con più forza di quella che avrebbero usato in altre circostanze, perché si riconoscevano in un ideale: poter alzare la voce contro l’uccisione impunita dei bambini, a sostegno dei civili che vengono cacciati dalle loro case. Potevano quella mattina far arrivare un messaggio di solidarietà, fieri che la loro voce finalmente esistesse e che si potesse sentire.

Personalmente avrei fatto lo stesso per i bambini e i civili uccisi dalla follia di Hamas il 7 ottobre in Israele, per gli ostaggi rapiti e detenuti in maniera inumana. 

Non c’erano solo ragazzi e insegnanti in piazza, c’era anche La classe media normale, pacifica: trentenni con i figli al seguito, quarantenni pieni di tatuaggi, cinquantenni e tanti “anta” di quel ceto medio riflessivo di cui si è parlato per i girotondi. Alcuni gridavano slogan idioti (non gli anta), come accade nelle folle, ma erano una vera minoranza. I più chiedevano di fermare il genocidio. 

C’erano anche donne con l’hijab, che sorridevano felici di vedere il calore di Milano per una causa che li vede in prima linea, ragazzi e uomini mediorientali e nordafricani, sorpresi ed emozionati. Mi scuso a priori di questa imprecisione etno-geografica, ma spero possiate capire.  Io credo, e qui sta la prima novità della giornata di ieri, che qualche cosa in loro cambierà dopo questa manifestazione, perché hanno sentito l’amalgama, la bellezza dell’inclusione. 

Se i meccanismi del diritto internazionale si sono inceppati, rimane quel senso del diritto conforme alla natura dell’uomo, e, in questo caso, alla sua spinta all’empatia e all’idiosincrasia per ciò che marchianamente non può essere sopportato, come l’uccisione di persone innocenti. Questo vale per tutte le ingiustizie nel mondo, plateali e sotterranee, come quelle che avvengono quotidianamente in Ucraina, anche per i soldati carne-da-macello russi che non volevano andare in guerra, per il Sud Sudan, Afghanistan, Myanmar, Sahel, Maghreb e per tutti i fronti che sto dimenticando e che ieri si sono condensati nel sostegno alla Palestina e alla flottiglia. Vorrei che ogni giorno in Italia ci fosse una staffetta che pronunciasse il nome delle vittime di Hamas, assieme al nome delle vittime civili palestinesi, come ha fatto il cardinale Zuppi per i bambini di Gaza.

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Avevo già sentito una liberazione, e assieme a me altre centinaia di persone, quando avevo assistito alla proiezione in anteprima a Venezia di La voce di Hind Rajab, che ricostruisce l’impossibile salvataggio da parte della Mezzaluna Rossa di una bambina palestinese di sei anni sotto il fuoco israeliano, attraverso la sua voce vera. Il film non è di certo ricattatorio perché, per fortuna, nessuno di noi può immedesimarsi in quella situazione. Ma a me spettatrice ha dato modo di pensare che qualcosa si poteva fare per fermare il massacro, perpetuando la voce di Hind, che la madre coraggiosamente ha permesso che venisse usata per ricordarla. Dare un nome alle cose è importante, dare un nome alle persone ancora più importante. 

Quando ai manifestanti chiedevo perché erano scesi in strada dicevano tutti la stessa cosa: “Perché non potevo fare diversamente”. Un obbligo morale e civile. 

In molti abbiamo patito quando il solito camion con la musica a volume sparato che fa ballare i cortei è partito in direzione del consolato americano per bloccare i visti. “Ecco adesso rovinano tutto”, abbiamo pensato. E, invece, no, sono tornati indietro con la musica a volume ancora più alto e ci siamo diretti verso la stazione. 

Nessuno sapeva cosa sarebbe successo in Centrale, semplicemente si andava felici di aver avuto per un giorno la voce. Quello che è successo dopo, i tafferugli con la polizia, è stato forse il termometro di quanto era spontanea la manifestazione. Non c’erano comizi, pian piano ci si sperdeva. Come tanti, con i visi felici, chi con l’anello al naso, i capelli azzurri, chi, come me, con la faccia da colletto bianco, siamo andati a berci il caffè da un euro e venti lì attorno. E tutti ci salutavamo come se fossimo stati a scuola insieme. 

Poi sono voluta andare un’ultima volta a guardare quella piazza per ringraziarla di avermi restituito per qualche ora la dignità. Ed ecco che è successo: sul lato più vicino all’entrata un gruppo, davvero piccolo, ha detto: “Blocchiamo tutto, prendiamo i binari”. Molti, “normalissimi” li hanno seguiti per curiosità o forse perché fino ad allora erano stati in pace ed erano fiduciosi.

I cancelli erano chiusi, dietro c’erano i poliziotti in stato di antisommossa. Solo una piccola feritoia era aperta per permettere l’afflusso e il deflusso dei viaggiatori. Sono entrata con gli altri, per lo spirito da cronista che è ancora in me, e non perché apprezzavo la folla che cercava un varco. L’ho guardata con attenzione quella folla: era gente comune, soprattutto ragazzi con gli zaini. 

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La folla mi fa paura e quindi mi sono messa dal lato in cui c’era meno gente, quello con accanto la polizia. Eravamo in un cul de sac tecnicamente, tra l’accesso chiuso dell’androne coperto della stazione e le inferriate che recintano il grande porticato. Accanto a me vedevo il capo dei celerini, in borghese, che andava avanti e indietro per cercare di capire cosa accadesse. Era preoccupato, aveva un viso assolutamente normale, non arcigno, non cinico, sarebbe potuto stare bene in manifestazione. Poi, il solito guastafeste vestito di nero è salito su un palo e ha rotto le telecamere. Avrebbero potuto fermarlo. Non lo hanno fatto.

La folla è esplosa in un boato di gioia. E qui sta la seconda notizia della giornata, quella brutta. Ad esultare è stata una folla di gente molto simile a me e non il solito black block (quello che aveva rotto le telecamere) o l’autonomo di turno.  Io sono una persona media, con uno stipendio buono, vivo una vita borghese e mi sono accorta che da tempo non rappresento più la maggioranza. E questa maggioranza, brava gente, è esasperata. Non solo perché fatica ad arrivare a fine mese, ma perché non conta nulla. Altrimenti non ha senso esultare perché si cerca di forzare, e quindi rompere, le porte della stazione, che è un bene comune, il nostro tramite quotidiano per il mondo. Mi sono convinta che è la frustrazione di non aver voce che porta a gioire perché si distrugge la propria casa. Un sentimento autolesionista di castrazione.

 Quando ho saputo dell’uccisione dell’influencer conservatore Charlie Kirk, ho provato grande dispiacere per lui e per la famiglia. Non condividevo una virgola di quello che diceva, ma almeno si confrontava. Quando la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che mi dovrebbe rappresentare, relazionandosi alla vicenda Kirk, ha detto che la sinistra in genere, ovvero chi non l’ha votata, agita l’odio, mi ha tolto la voce. E, oltre a me, a quasi metà degli italiani. Togliere la voce toglie la speranza. E nell’androne della stazione ho visto un popolo a cui hanno tolto la speranza. 

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I poliziotti, come ho detto, non hanno agito subito. Quel ragazzo che li guidava andava avanti e indietro con cautela e poi ha spostato i “suoi” nell’androne coperto.  E lì ho visto uno spettacolo che mi ha addolorato: una nuvola rosa, i lacrimogeni della polizia, e un frullio di manganelli sopra le teste che mai avevo visto in vita, pur essendo una manifestante di lungo corso. 

Ho sentito la violenza lambirmi fisicamente, ne ho provato disgusto, ho sentito disperazione. Sapevo che dentro lì, oltre ai facinorosi che non perdono occasioni di menare le mani, c’erano ragazzi e ragazze con gli occhiali infranti per terra, con i loro zainetti, assolutamente impreparati alle reazioni dei poliziotti. C’era un ragazzo, amico di mia figlia, di vent’anni, nato a Milano e di origini egiziane, che ha ottenuto la cittadinanza italiana dopo quindici anni, nonostante abbia frequentato le nostre scuole. Nonostante abbia un nome italiano, addirittura ebraico, pronunci bicicletta con la e aperta e “amo” per chiamare un coetaneo come fanno tutti. Mi ha spiegato mia figlia che quel ragazzo era in prima fila contro i celerini. È pieno di dolore e Gaza rappresenta la sua voce. Spero non sia uscito come quel ventenne svenuto, tutto insanguinato, portato a braccia dai manifestanti, che cercavano una ambulanza che non era nei paraggi. Tra l’altro, mai avevo visto manifestanti così combattivi, che si opponevano pacificamente, ma riuscendoci, all’arresto di uno di loro.

La guerriglia è durata molto più di un’ora. Sono tornata a casa depressa, con la sensazione che avevamo toccato un punto di non ritorno. 

Naturalmente i media hanno parlato per lo più della guerriglia a Milano, tranne lodevoli eccezioni (le radio, per esempio, Radio 24, Radio Popolare). E la mia presidente del Consiglio ha puntato il dito contro la violenza, senza prendere atto che migliaia di persone erano scese in piazza per chiedere al governo di prendere posizione contro il genocidio.

Caro Doppiozero, io ieri, come altre 50mila persone a Milano, sono stata felice di sentirmi umana. Almeno tu dì, per favore che eravamo 50mila e avevamo finalmente una voce. 

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