Federica Manzon: Alma Trieste

27 Febbraio 2024

Trieste ci ciondola sempre addosso come tensione letteraria o brama di Oriente, forse perché è stato faticoso acciuffarla con la Prima guerra mondiale e poi doloroso perderla e riconquistarla solo settant’anni fa per il rotto della cuffia, quando gli alleati la restituirono dopo quasi dieci anni di amministrazione controllata nel 1954. E non era del tutto scontato, visto come avevamo perso la guerra e visto quanto gli iugoslavi desiderassero quella conquista, sedendo al tavolo dei vincitori. 

Trieste è la meno italiana delle nostre città e forse per questo così fascinosa, patria di irredentisti e madre di scrittori, anche adottivi, che hanno cambiato la letteratura e la poesia (da Joyce a Svevo, da Saba a Kosovel, da Pahor a Magris), nonché primo approdo italiano della psicoanalisi. 

Federica Manzon è una “mula” triestina adottiva, ma ha radici nella stessa terra di cui Trieste è capoluogo: è una friulana di “là da l’aga”, al di là del Tagliamento, come Pasolini, dove cambia la lenghe. Ha perciò uno sguardo “terzo”, ma vicino, innamorato e insieme acuto su un luogo così singolare. Qui Manzon ambienta l’ultimo suo fortunato romanzo, Alma (Feltrinelli, pagg. 270, euro 18), in cui Trieste è quella erede delle apparizioni, dei palazzi bianchi, degli incubi, delle foibe, del genocidio culturale sloveno da parte dei fascisti che ha diviso sloveni e italiani, destrorsi e sinistrorsi. È la città in cui si sono rifugiati i perseguitati del purismo iugoslavo, i profughi istriani e dalmati: uno degli sfondi più belli del romanzo è proprio il Magazzino 18, dove sono custodite le masserizie che gli esuli, emigrati in altri continenti, fatalmente hanno lasciato in custodia e poi non sono più venuti a ritirare.  

La protagonista di Alma è in fondo la stessa Trieste, impersonata da una signora, ormai di mezz’età, nata qui, ma da tempo lontana. Vive nella Capitale – così chiama sempre Roma – come un’aliena, perché la lingua è la stessa ma parole e gesti non hanno il significato della sua terra natìa. E i comportamenti di Alma “provvisori”, poco inclini alle convenzioni, non sono capiti, ma forse nemmeno lei tiene che lo siano. A un certo punto però Trieste la richiama, da “carta moschicida” qual è, come direbbe Bazlen, uno dei pochi intellettuali citati: Alma deve ritornarci per fare i conti con la sua vita e con la Storia.

Diversamente dalle stanze grigie di Svevo, la Trieste di Alma è più simile al ragazzaccio di Saba “aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore”. È la città delle clanfe a Barcola, i tuffi dei ragazzini che spruzzano tutti, dei “bagni”, gli stabilimenti balneari, della scogliera, dove tutti sono stati “almeno una volta degli dèi”, delle derapate con le biciclette arrugginite sul Carso. Perché i ragazzi triestini sanno essere selvatici come la natura che li circonda. Alma è una perfetta figlia del luogo, nipote di nonni dell’alta borghesia asburgica, figlia di una donna fuggita via da quella gabbia fatta di ritrovi con cioccolata ai Caffè di tradizione con le  boiserie e gli specchi eleganti, di letture raffinate e di vincoli sociali soffocanti. Una madre che si è trovata a lavorare nella Città dei matti, con un dottor Franco che è indubbiamente Basaglia, lo psichiatra che ha chiuso i manicomi con la legge del 1978, e che Manzon fa sopravvivere magnificamente fino ai nostri anni (anche se non so quanto sarebbe stato felice di vedere come è ridotta la sua riforma).

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Federica Manzon.

Alma è figlia anche di un uomo di cui non si conoscono bene le origini, che porta lei e sua madre a vivere sul Carso in un contesto meno inamidato di quello dei nonni. È un padre e un marito flebile e forte assieme: sparisce continuamente “di là”, ovvero oltre confine, anche se per lui quello è “un di qua”. Ha un odore speciale quel padre, perché è inafferrabile, perché lo si ama nel suo profumo di svagatezza e di desiderio che torni, come tutti gli incostanti. Anche questo tratto erediterà Alma da lui, assieme alla capacità di capire l’Est, dopo aver avuto un incontro personale fortuito e infantile con l’uomo dagli occhi di vipera, Tito, con cui il padre collabora. Lo sloveno, la lingua che le farà imparare il padre, sarà poi una chiave necessaria per il suo lavoro da grande. 

Ma il padre fa di più, porta a casa il germe della divisione, un ragazzino venuto da “di là”, Vili, un serbo, figlio di dissidenti al regime titino, che vivrà con loro. 

Manzon ha l’abilità di far strisciare la storia di una città sulla pelle della protagonista e di unire, in un sagace parallelismo, la nostra contemporaneità, quella della guerra in Ucraina, con quella dei Balcani (1992-2002), entrambe nel seno dell’Europa. La scrittrice rielabora il lutto che ha toccato il confine orientale del nostro Paese e l’angoscia di aver vissuto con impotenza il germe della follia di un conflitto a pochi passi da casa. Un paragone calzante perché Manzon sa che i Balcani e l’Ucraina sono il cuore dell’Europa e la loro difesa è difendere i valori della democrazia. 

In questa complicata e ancor vivissima materia, l’autrice sa dare spessore ai personaggi, trattenere la suspense, buttare sul piatto false illazioni e poi sterzare, introducendo un terzo tema: la verità nella civiltà delle immagini. 

Alma è un libro sull’amore e la libertà, anche sessuale, sulle radici, sulla sacralità e il pudore dei sentimenti in cui si conservano i segreti, anche i più bui. È un libro orgoglioso e geloso del sentire più profondo, un libro che sorprende. Anche perché è difficile mescolare le prospettive a Trieste. Ognuno ha la sua, quella di tradizione italiana (Svevo) e poi quella di matrice slovena (Pahor). Ma ci sono tanti figli di entrambe le culture, per fortuna. Manzon le incarna tutte e due con la terzietà di un occhio che le sa guardare unite in complessità, bellezza ed essenzialità, anche di linguaggio, che rispecchia quella ragazza, scapole magre, gambe di cicogna. Alma, o forse Trieste…

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