Speciale

Tavoli | Giovanni Anceschi

9 Dicembre 2013

L'occhio aereo di Giovanna Silva, per sua natura, non può glissare su nulla, e anche gli oggetti più desueti – dalla mezzaluna asciugacarte, orfana di stilografica, alla pallina rossa da tormentare per sgranchirsi le dita – sono costretti a impressionare l'obiettivo e a chiamare l'attenzione quando forse scomparirebbero per primi (specie con le strettoie di un pur generoso conteggio-parole da blog) nella selezione che è connaturata a qualsiasi descrizione.

 

Tuttavia, sempre per sua natura, allo stesso occhio non è concesso di attraversare la superficie del tavolino bianco che Giovanni Anceschi ha disegnato per sé alla leggendaria scuola di Ulm e che i colleghi di una classe della Metallwerkstatt hanno realizzato per lui, né può interrogarlo sui viaggi che, nel corso di quasi mezzo secolo, lo hanno portato come un rigido tappeto volante estetico-funzionale dal continente alla penisola fino in Algeria e di lì ancora a Roma e a Milano. Se potesse, vedrebbe – oltre a una collezione di chincaglierie emerse come conchiglie da una lunga risacca novecentesca e stipate di anno in anno in scatole e cassettini – il porte-bouteilles di Duchamp che se ne sta nascosto sotto al piano da lavoro, venendo a sapere anche che non si tratta dell'originale andato perduto prima della Guerra (né, che so, di una replica rubata al Centre Pompidou) ma di un identico scolabottiglie in ferro trovato per caso nel bailamme di un mercatino a El Biar.

 

A chiedergli perché si trovi là per terra, Anceschi si stringe nelle spalle. «È finito lì» dice, manifestando in estrema sintesi l'aggiornata indéfference visuelle che lo apparenta con il mitico Marcel. «Il est là, simplement» diceva del suo ready-made datato 1914 il maestro francese nel corso della famosa intervista con Philippe Collin e aggiungeva ciò che vale anche per l'hyper-ready-made invisibile nello studiolo milanese fotografato dall'alto sulla soglia del 2014: «Il ne doit pas être regardé, au fond». Un hyper-ready-made, lo si sarà capito, corrisponde all'elevazione a potenza (o, forse meglio, al cambio di segno) di un 'tradizionale' tout-fait: prevede l'inconsapevole marketisation di oggetti inventati da un artista o che, per mano di un artista, erano stati sottratti alla realtà e al mercato. Un secondo artista, imbattendosi in tali oggetti, può salvarli dalla digestione postmoderna e reindirizzarli, estraendoli di nuovo da un destino di opaca industrialità. È un esercizio a metà tra la filologia e la caccia al tesoro e Anceschi lo conduce con metodo da quando, a casa di Maurizio Osti, ha trovato per caso il primo oggettino d'arredamento identico a una delle sue futuribili Tavole di possibilità liquide del '59, e l'ha firmato.

 

Non a caso sul tavolo, nei pressi di una raffinata riedizione Alessi del suo mirioramico Abstract-video, se ne sta appeso un imballaggio di polipropilene che, se non fosse stato elevato da un'etichetta 'hrm' a inconsapevole quanto fedele riproduzione in scala del Grande oggetto pneumatico simbolo del Gruppo T, sarebbe spazzatura. Il fatto che cineserie da due soldi e involucri di scarto di oggi si trovino ad essere ingenue ri-realizzazioni di prototipi immaginati dall'arte cinetica e moltiplicata, in fondo ci rassicura sull'opportunità di usare il termine 'avanguardia' per certe esperienze del recente passato.

 

Opportunità peraltro confermata, in modo diverso e forse più entusiasmante, dai segni bianchi che si indovinano su uno dei due schermi di Anceschi e che vedremmo stampati in grafica analogica se potessimo aprire l'Almanacco Bompiani del '62 che si scorge sul suo tavolo: sono i moduli di un'opera d'arte che è stata programmata con carta e matita quando i computer erano ancora stanze piuttosto ottuse e che ha aspettato che la tecnologia raggiungesse la sua intelligenza per lasciarsi tenere in mano nelle argute scatoline Apple da neanche quattro pollici. Si chiama InNoveTempi e la si scarica (gratis) sull'iPhone dall'App Store.

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