Speciale

Tavoli | Uliano Lucas

31 Marzo 2014

Il tavolo di Uliano Lucas non si trova nello spazio chiuso di uno studio. Non vi sono oggetti familiari a cui aggrapparsi: libri, fogli, matite. Non c’è nemmeno una macchina fotografica. Si vedono solo un ripiano bianco e una sedia, in attesa di qualcuno che potrebbe arrivare da un momento all’altro.
Eppure, nella sua estrema semplicità il suo tavolo è come un magnete che attira lo sguardo, uno spirito incastrato in una forma che non riesce a contenerlo, direbbe Charles Bukowski. Si nota immediatamente l’elemento essenziale per un fotografo: la luce, che duplica il tavolo sulla parete lignea. Una luce così intensa da confondersi con la materia della superficie marmorea. Poiché è questo il luogo in cui Lucas nasce, dove il fotografo viene alla luce: un tavolino del leggendario bar Jamaica a Milano.

 

Negli anni Cinquanta e Sessanta da qui sono passati artisti, fotografi, scrittori, giornalisti. Al bancone del Jamaica si potevano incontrare Piero Manzoni, Ugo Mulas, Mario Dondero e il clima era quello del fermento di idee, delle infinite possibilità, del futuro che si poteva toccare con una mano, tanto che lo stesso fotografo racconta che il Jamaica è stato la sua casa, il suo liceo, la sua università.

 

Per questo il tavolo di Uliano Lucas è diverso da tutti gli altri. La sua essenzialità sprigiona qualcosa di sacro e ineluttabile: le origini si sono trasformate in un destino. Dal tavolino del Jamaica con piglio libero e indipendente Lucas ha fotografato il mondo intero: le contestazioni studentesche a Milano, l’immigrazione, il lavoro, la fabbrica, gli ospedali psichiatrici, le città. E poi l’Est europeo, la quotidianità a Sarajevo sotto le bombe, i reportage realizzati in Guinea Bissau, Angola, Mozambico, Eritrea e alla fine degli anni Novanta la nuova Cina. In una parola: la vita, anche e soprattutto, afferma Lucas, “quando ne denunciavo l’assenza, il tradimento, la negazione”.

 

Così dalla piccola superficie marmorea affiorano una dopo l’altra le fotografie che ripercorrono mezzo secolo di storia: volti, corpi, sorrisi che chiedono di essere sfiorati, immagini che mostrano slanci, utopie, speranze e sanno raccontare la complessità degli eventi, come tanti inviti a varcare la soglia della storia, a capirla, a essere presenti nel mondo.

 

Alla fine viene voglia di sedersi a quel tavolo del Jamaica, con la testa rivolta all’indietro e la mano appoggiata alla base del collo, come la giovane donna ritratta da Lucas al tavolo di un altro bar, “Il posto delle fragole” nell’ex ospedale psichiatrico di Trieste. La sua allegria è sincera e contagiosa. Poiché, come si legge su un muro immortalato dal fotografo: “la verità è dolce”.

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