Per un teatro vivente

31 Dicembre 2015

Due piccoli ma intensi libri di riflessione sul teatro sono usciti di recente. Sono Farsi luogo. Varco al teatro in 101 movimenti (Cue Press 2015) di Marco Martinelli, regista, scrittore, fondatore del Teatro delle Albe, e La fortezza vuota. Discorso sulla perdita di senso del teatro, scritto dal regista Massimiliano Civica, vincitore quest’anno del premio Ubu per la migliore regia con Alcesti, uno spettacolo dal tocco intimo e personalissimo, e Attilio Scarpellini, critico teatrale, fondatore, tra le altre sue attività, di quella bella rivista che è stata, per troppo poco tempo, “Quaderni del Teatro di Roma”. Sono stati pubblicati da due case editrici piccole, piccolissime, molto agguerrite. La riflessione teorica di Martinelli (ma intinta massimamente nella pratica, prodotto di un’esperienza più che trentennale) ha visto la luce grazie a Cue Press, una giovane impresa specializzatasi in e-book (ma anche in libri a stampa), che accanto a testi nuovi e guide sulle scene di alcune città vuole meritoriamente recuperare saggi teatrali classici ormai introvabili. Il pamphlet di Civica e Scarpellini sui mali dell’attuale sistema teatrale, presentato in prima lettura al festival Contemporanea di Prato in ottobre, è ora in libreria grazie dalle Edizioni dell’Asino, nate a fianco della rivista di interventi pedagogici “Gli asini”, in collegamento con le edizioni di un’altra rivista, “Lo straniero”.

 

In entrambi i casi siamo di fronte a due riflessioni che sembrerebbero settoriali e che invece toccano nodi nevralgici della nostra cultura e della nostra società. I due volumetti, con grazia, si trasformano in manuali di resilienza, di etica, addirittura di teologia, positiva quella di Martinelli, che delinea i confini di un’ispirata utopia realizzabile, negativa quella di Civica-Scarpellini, che dopo aver demolito il sistema scaturito  dall’ultima “riforma” ministeriale, invoca come salvezza per le diversità culturali la via dell’indipendenza, del minoritarismo orgoglioso, dello scisma da un sistema soffocante e inadeguato.

 

 

Farsi luogo

 

Procede per tesi, Marco Martinelli, intrecciando una spirale di 101 argomenti rivolti come riflessioni al lettore con un piglio fortemente discorsivo, quasi dialogico. D’altra parte l’idea di teatro (e di società) che traspare da questo scritto è proprio quella di una relazione costante, che abbandoni ogni narcisismo, ogni esibizionismo cui spinge la società dello spettacolo, e vada a esplorare la relazione elementare, essenziale, vivente tra un io e un tu. Per Martinelli non è importante la messa in scena, quanto la messa in vita: il teatro ha senso solo quando è “vivo, vivente, che il cuore gli batte”, come luogo “dell’Invisibile, della Rivelazione, dell’Accadimento”, luogo, ancora, “del Visibile, del Tangibile, del Corpo, che sente, sensuale. Luogo “dove la gioia balbetta sopra le macerie, dove gli assetati trovano da bere, gli affamati pane per i loro denti, dove i miracoli sono ancora possibili”. Luogo di desiderio, di comunione, di rivelazione, di scambio, di affratellamento. Modello di resistenza (o resilienza) per una società sempre più individualistica. Piccola area liberata, zona della “buona notizia”, pratica evangelica sia per chi creda nel divino sia per chi confidi solo nell’umano, luogo francescano o di quelle comunità anarchiche che non mettono le bombe, che hanno terrore del terrore. Gli argomenti iniziano tutti con la lettera minuscola, a segnare un flusso discorsivo in continuo sviluppo, in eruzione: “il teatro come luogo del Necessario e dell’Utile. Come un ago per cucire”(tesi 9) e “il teatro come luogo dell’Inutile, del Gratuito. Gratis et amore dei. Come una preghiera” (tesi 10). Il teatro come luogo dove deve germogliare vita nuova, attraverso l’incontro, attraverso l’invenzione di una comunità sulle macerie devastanti dell’individualismo, del cinismo, dell’isolamento contemporaneo. Il teatro come luogo di ricerca della verità attraverso l’esplorazione degli opposti, per quell’opus alchemicum che è più dell’opera, è un processo per salti, per invenzioni, per folgorazioni e cortocircuiti, capace di svelare nuova vita e nuova bellezza dai rottami dei materiali più vili.

 

 

A Martinelli interessa la polis, un teatro della polis, da inventare. Un teatro che sia coro, materia sacra, viva, nell’epoca dell’assenza, della mancanza, della distanza mediatica, della disgregazione di ogni idea stessa di comunità. Il teatro si fa luogo attraverso l’incontro, in scena, fuori della scena, tra artisti e spettatori (senza trascurare gli altri mestieri del teatro), contrapponendosi ai non luoghi della nostra società. È incontro, scavo, invenzione. È luogo di grazia, dove trovare una grazia, non per meriti acquisiti e neppure per testarda applicazione ma per improvvisa conquista (il mistero dell’arte!). E qui rifulge un altro lato teologico, rigorista nella sua gioiosità, di una teologia che si allontana dalla semplice giustificazione attraverso le opere. Scrive Martinelli: «Parlo del teatro come luogo del lampo non trasmissibile. Bastasse faticare! E invece no: tutto il tuo faticare non sarà mai sufficiente a raggiungere la grazia”. Qui grazia è giocato, credo, in modo apertamente ambiguo, tra levità e bellezza della forma artistica e illuminazione derivante del favore divino, come coscienza - in una personalità che ha fatto della pedagogia uno dei suoi principali strumenti di innovazione - del mistero del caso, dell’illuminazione, della creazione (e della vita). D’altra parte Martinelli intesse questa sua riflessione teatrale continuamente di spunti che si misurano con una dimensione apertamente, largamente, religiosa della vita: dall’idea di legame a quella di spirale, a quella professione del coraggio di sostenere la bontà, senza paura di essere accusati di buonismo.

 

Marco Martinelli, ph. Giampiero Corelli

 

L’idea della spirale è fondante, perché sostanzia le riflessioni della carne dell’esperienza. Si parte dall’io, non isolato, che diventa due e poi molti, allargandosi in cerchi sempre più ampi. In questa figurazione parla la storia stessa, concreta, delle Albe: iniziata quando ancora il gruppo non aveva questo nome dalla fuga d’amore e matrimonio dei ventenni Marco Martinelli e  Ermanna Montanari; nutrita dal fuoco del fare teatro, senza scuole, eleggendosi i propri maestri in un cammino di  pratiche personali. I due diventano Albe nel 1983 con Luigi Dadina e Marcella Nonni, per allargarsi poi a altri compagni di arte, i senegalesi della Romagna Africana e altri meticciati, gli adolescenti della non-scuola, una pedagogia intinta di vita contro ogni pedanteria.  Alcuni di quegli adolescenti poi vengono inseriti in compagnia, e la non-scuola germina volute sempre più larghe con l’invenzione corale con giovani e giovanissimi in molti luoghi di Italia e del mondo, a Scampia come a Chicago, in Senegal come a Milano, fino a Eresia della felicità, cori di centinaia di ragazzi alle prese con i versi dell’utopia rivoluzionaria di Majakovskij da Santarcangelo 2011 a Milano 2015.

 

Questo è il teatro per Martinelli: messa in vita, che si sostanzia di pratiche attraversate in un errare teatrale continuo (nei due sensi di viaggiare e sbagliare e riassestare il campo), con riferimenti a maestri di utopia come il teatro greco, quello comunitario medievale, quello della rivoluzione russa, quello dei tanti, diversi maestri (Grotowslki, Barba, Carmelo Bene, Arianne Mnouchkine, Leo de Berardinis,...). Teatro come spirali di vita. Come domande alla società, perché se essa ritiene il teatro un intrattenimento in via di estinzione è solo perché il teatro stesso non sa dire nessuna parola capace di parlare alla nostra società, non ha (generalmente) più un linguaggio, un interlocutore, una capacità di scavare e rovesciare il reale.

 

Il punto di partenza però è inscritto dentro di noi, in un vibrare che nasce dal corpo, un qualcosa che chiede di germogliare, di farsi luogo. E questo libretto è anche la storia di un artista che con i suoi compagni ha lavorato per inventare il proprio teatro, basandosi sempre sulla curiosità per il mondo e sulla ricerca dell’altro, alimentando la concorrenza, ossia dando spazio a altri teatranti, anche con visioni molto diverse. Quando il comune di Ravenna agli inizi degli anni 90 chiamò le Albe a gestire i teatri della città sotto la sigla Ravenna Teatro, loro trasformarono la programmazione in un’azione duratura di coltura teatrale, con la consapevolezza che vita e arte non si possono scindere. E che bisogna lottare, contro narcisismo e corruzione, in una visione che non guarda al successo ma alla capacità di creare legami, di trasmettere e di lasciarsi sorprendere dalle nuove energie prorompenti. E così il libello teatrale diventa una lettura per tutti quelli che chiedono ai nostri tempi il rigore sfavillante di una utopia imbevuta di concretezza, di una ricerca profonda di sé che diventa apertura, avventura sociale, invenzione comunitaria.

 

Marco Montanelli e Ermanna Montanari, ph. Cesare Fabbri

 

 

La fortezza vuota

 

Di fronte a un tale teatro luogo di sé e degli altri, pieno di pratiche e desideri (de-sidera, suggerisce Martinelli, è puntare alle stelle, è diventare, da povera creatura di carne esposta a ogni ingiuria, imperatore e pontefice di se stessi, pronti a fissare gli occhi sul Mistero), di fronte sta la Fortezza vuota del nuovo sistema teatrale. Civica e Scarpellini partono anche loro da quella sensazione di minorità che attaglia molti teatranti: “In segreto, molti di noi non sono più certi che il teatro abbia una funzione e il diritto di esistere nel mondo d’oggi”. Perché il teatro si dibatte tra narcisismo, autoreferenzialità, necessità di tirare a campare in un sistema che sembra voler smantellare ogni principio, che chiede produttività, omologazione verso il basso, silenzio del senso critico. “Per lo Stato il teatro non ha già più una funzione pubblica, e molti di noi, anche per la cattiva coscienza del lavoro svolto, non contraddicono o non vogliono prendere nota di questa affermazione. Si va avanti come niente fosse, intenti a cucinare la cena mentre la casa brucia”.  Il teatro, da sempre minoritario, oggi soffre di un senso di colpa, insegue i grandi numeri senza successo e si snatura, perde quella sua caratteristica di sonda di piccoli gruppi capaci di determinare un diverso senso delle cose. Saranno ricordati, nella discussione, momenti in cui intere società distrutte, come quella polacca dopo la seconda guerra mondiale, siano risorte partendo dal teatro, investendo in cultura quando ancora le case erano macerie, perché da lì rinasce una coscienza collettiva.

 

Ma la Fortezza vuota, con la sensazione di un assedio perenne, è ancora di più tale dopo la recente riforma ministeriale che gli autori dichiarano abbia prodotto, con i suoi Teatri nazionali e Teatri di rilevante interesse culturale (Tric), un “teatro pubblico commerciale”, un ossimoro, una contraddizione in termini. Il teatro d’arte non può non vivere di finanziamenti pubblici: essi sono determinati per l’alto valore formativo, educativo, esperienziale di certe manifestazioni artistiche, perché attraverso di esse si faccia comunità. E invece il teatro pubblico, con le nuove norme che impongono una stabilità posticcia, estranea al costume scenico italiano, e vincoli quantitativi onerosi, trascurando i risultati qualitativi o assegnando loro un ruolo infimo per ottenere i contributi, è stato riorganizzato non su reali esigenze ma su criteri politici (moltiplicazione dei Teatri nazionali e dei Tric sulla base di pressioni di forze politiche locali). Ed è stato portato, così, a una specie di paradosso. Deve produrre spettacoli che attraggano pubblico, quindi basati più su nomi o temi o testi di richiamo che su esigenze artistiche e di approfondimento; ma deve rimanere in deficit per ottenere i finanziamenti, perché solo il deficit è supplito dallo stato.

 

Eresia della felicità, ph. Claire Pasquier

 

Non è follia, questa, però, suggeriscono i due autori: è un metodo che impone parole magiche come “razionalizzazione”, “meritocrazia”, “sano spirito di competizione”, “management” nel mondo del teatro, e piuttosto porta  a minori investimenti, a maggiori lacci, a un sistema dei sussidi che impedisce alle istituzioni di esplorare continenti nuovi e sostiene solo chi riporta il teatro negli alvei rassicuranti della prosa più omologata, appena riverniciata di una “contemporaneità” di facciata. Non si possono produrre o coprodurre piccole compagnie, neppure se geniali. Si possono solo scritturare registi, autori, attori, smembrando gli ensemble che accettino il gioco, distruggendo l’indipendenza creativa che ha mantenuto vivo, finora, con tante difficoltà il nostro sistema teatrale. Bisogna produrre in legame con il “territorio”, idolo elettorale di un andazzo che sempre di più sforna prodotti simili dappertutto, spesso guidati solo da criteri estetici “televisivi”, in ossequio ai canoni dominanti nell’Italia berlusconiana, salviniana, renziana.

 

Come nota a margine possiamo osservare che i Teatri nazionali e i Tric (salvo eccezioni, notano anche gli autori) investano la maggior parte dei loro fondi sulle grandi produzioni, riservando le briciole a residenze, nuove proposte, eccetera, contando sulla connivenza della povertà degli artisti. Scrivono Civica e Scarpellini: “facciamo finta di credere che il Ministero sosterrà economicamente per sempre l’ossimoro di un ‘teatro pubblico con finalità commerciali’, senza capire che è una fase di passaggio ‘morbida’ verso lo smantellamento del teatro pubblico tout court”. La ricerca preventiva del consenso necessario per avere i numeri sposta i rapporti produttivi nel teatro: a favore della macchina organizzativa, rendendo gli artisti parte sempre meno determinante dei processi. D’altra parte i bilanci dei grandi teatri e festival testimoniano un 70 per cento di investimenti nella struttura contro un 30 per cento di bilancio artistico. Lo spettacolo deve essere un successo sulla carta, nei progetti presentati per ottenere i finanziamenti. Non importano poi le sale mezze vuote. Il protagonista non è più il grande attore o l’autore o il regista, ma il direttore del teatro, con la critica ridotta a un ruolo di consenso, magari solo nella speranza di non intralciare un processo che potrà portare frutti un domani. Alla critica si chiede di approvare, di rinunciare al ruolo di testimonianza acuta e scomoda, di avallare preventivamente più che di incontrare gli spettatori per approfondire le ragioni delle opere e dei processi.

 

Eresia della felicità, ph. Claire Pasquier

 

La conclusione di questa lunga parte analitica è una riflessione su come si possa riprendere il discorso, rinascere tra le rovine, come si fece a Varsavia dopo la guerra, o in Russia dopo la Rivoluzione. Per uscire dalla Fortezza vuota, scrivono i due, “il teatro deve diventare quello che finora non è stato se non in potenza: un soggetto”. Non un soggetto politico, dove si serva una o l’altra causa, dove ci sia sempre un qualcosa da scambiare, ma “un soggetto poetico che nell’autonomia del suo fare ritrova il senso e le ragioni del suo essere – e del suo irriducibile essere sociale”.

 

Per uscire dalla Fortezza vuota bisogna pensare, immaginare, realizzare un teatro capace di “farsi luogo”, direi con Martinelli per chiudere il cerchio. Un teatro rigoroso (e rigorista) che abbandoni (come? con quali mezzi?) il sistema con uno scisma, suggeriscono Civica e Scarpellini, creando una nuova alleanza tra artisti, spettatori e critici, trasformando “la povertà in nuova virtù produttiva e in una potenza di creazione che non possiamo definire nuova poiché essa ha caratterizzato le grandi riprese storiche del teatro d’arte”. San Francesco, ancora, e Jacques Copeau (citato a chiusura dello scritto, con “una ‘grazia’ che sembra non esercitare alcun peso sul presente”). Strane intersezioni tra i due testi, che testimoniano, a mio parere, due cose: come il teatro viva una crisi profonda e nutra però consapevolezze, pratiche, utopie capaci di aprire nuovi orizzonti; come il pensiero teatrale, coltivato in piccoli gruppi di resistenti, di catecumeni di una nuova religione dell’arte e della vita, possa insegnare qualcosa al pensiero su una società che riproduce in grande i meccanismi criticati in questi due libri.

 

Chiudono Civica e Scarpellini evocando qualcosa di simile al “mettere in vita”, al “germogliare” richiesto da Martinelli: “Ma non appena si sarà placato il ‘mormorio delle voci scoraggianti’, non sarà difficile riconoscere in essa [in quella ‘grazia’ di cui si parlava ] quella gioia chimerica che ciascuno di noi ha provato la prima volta che su un palcoscenico ha sentito o visto le vita, finalmente, cambiare”. Con coda Copeau: “E da chi altri si può attendere un simile sforzo se non da coloro che vi mettono in gioco la vita?”, cioè artisti, spettatori, intellettuali? Il piccolo cerchio che deve diventare spirale.

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