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Carlo Sini: la filosofia non esiste

24 Giugno 2025

«La filosofia, …, non esiste. Esistono al più degli esseri umani che la praticano e ne fanno esercizio». Queste le parole di Carlo Sini nel suo ultimo libro Filosofia e memoria. La vita come scrittura, edito da “il Saggiatore”. Ma costui – mormorerà tra sé il lettore malizioso – non è lo stesso che negli ultimi sessant’anni ha scritto oltre quaranta volumi dedicati, grosso modo, a temi filosofici? E questa sarebbe la sua conclusione? Dopo tutta ’sta fatica, si scopre che la filosofia non esiste? Sì, è così … ma non è affatto una conclusione. Forse si potrebbe dire che è un piccolo inizio.

Nessuno si faccia illusioni: certo, la filosofia non esiste, anzi è letteralmente esplosa … ma non è che invece le altre discipline se la passino bene, tutte belle arroccate nei loro statuti, nel castello dei loro protocolli. Su questo punto, cogliamo l’occasione per offrire uno spaccato del volume, in cui s’alternano riflessioni e aneddoti, dando vita a un gioco di teorie colme di ricordi, di pensieri misti a racconti autobiografici. L’autore ha inteso intrecciarli tra loro in modo inestricabile, già nel titolo. Ha in mente qualcosa: seguiamolo.

I. Per varie ragioni, trattando di memoria, si comincia a parlare di alcune divinità greche: Temi, le Parche, le Ore. Rammentando i Prolegomeni di Kerényi, siamo costretti a constatare come oggigiorno l’accesso al mondo spirituale della mitologia ci sia precluso: l’abbiamo perduto proprio a causa del nostro spirito scientifico – questo scriveva il grande storico delle religioni ungherese. Adesso la scienza ci aiuterà a dissodare nuovamente il terreno, per farci scoprire come funzionava la mentalità arcaica. Qui interviene Sini, con la sua domanda che ormai non esitiamo a definire “classica”, perché condensa il suo stile, direi quasi il ritmo del suo pensiero mentre procede lungo il cammino. Dunque, Sini chiede: “Ma scienza in che senso?”.

Spieghiamoci meglio. Incontriamo uno studioso di miti. Con fare bonario, ci prende da parte e ci ricorda l’aspetto immaginifico e musicale di queste narrazioni: per fortuna oggi possiamo contare su studi filologico-letterari e raffinatissime analisi sotto il profilo mitologico. Siamo in grado di indagare le “proiezioni simboliche” prodottesi in quegli “stati di trance” da cui poi sarebbero scaturite leggende e saghe. E di nuovo prende parola Sini: proiezione simbolica? Stati di trance? Ma davvero? Viene il sospetto che tale terminologia, così complessa, fosse del tutto sconosciuta alle Baccanti, mentre erano preda di Dioniso. I riferimenti “scientifici” citati dianzi sono utilissimi, ci fanno capire molto, ma forse «dicono qualcosa di noi, non di loro».

Insomma, siamo abituati a parlare di questi fenomeni tramite una gran finzione: l’esperto ce li sta illustrando scientificamente come se fosse stato lì presente all’epoca mentre si consumavano. Immaginatevi per un istante la scena: può essere un bell’esercizio. Le Menadi imperversano sul Citerone ma, se è per questo, potremmo rammentare Edipo che scopre di essere parricida, o – perché no – un rapsodo che canta le gesta di Odisseo. Bene, accanto alle Menadi, a Edipo e al rapsodo noi pensiamo di trovare – come testimoni della scena – Kerényi, Otto, e mettiamoci anche Creuzer. Sono lì, tutti in fila: non assistono alla scena, non vogliono soltanto prendere appunti e note preziose per comporre i propri volumi. Stanno proprio vivendo la cosa in prima persona. Ma non è andata così: nessuno di loro è mai stato una Baccante, né Edipo e nemmeno un rapsodo che canta le imprese di Odisseo. Non hanno visto quelle cose, non erano presenti. Ed ecco la domanda, nella sua cadenza costante, come un ritornello: «scusate – chiede Sini – ma quali cose? Quale presente?».

In ogni vita si manifesta un intero mondo, fatto di opinioni, di usi, di abitudini – insomma in ciascuno di noi risuona un intero orizzonte di pratiche nate e sviluppatesi in tempi assai remoti. Non sappiamo da quali e quante strade vengano i nostri antenati o le pratiche che abbiamo letteralmente incorporato: non ne abbiamo memoria, anche se in qualche modo essi vivono silenziosamente, ma attivamente in noi. Torniamo alle Baccanti: anche in loro affioravano credenze, tradizioni e modi di vivere a noi certamente ignoti. Quando proviamo a dire che forse già Ovidio e Orazio non credevano più all’esistenza degli dèi come invece ancora accadeva nelle Baccanti, persino qui Sini torna a metterci in guardia. Torna quel ritmo di pensiero: eccolo di nuovo. Già quando diciamo “credere” siamo assai imprecisi, poiché il termine è oramai carico della tradizione biblica, ed evangelica in particolare. Chi può sapere effettivamente quale rapporto intrattenessero i poeti latini con le divinità? Di nuovo, siamo noi che proiettiamo su di loro qualcosa di interamente nostro.

Quando vogliamo indagare qualche oggetto, ogni volta adoperiamo il linguaggio per cercare di catturare tramite una parola un’azione singolarissima: un evento peculiare, irripetibile, irriproducibile. Le parole impiegate sollevano il particolare al livello del concetto, dell’universale: cercano di iscrivere un preciso accadimento entro la verità della dimensione scientifica. Pronti? Eccolo di nuovo, quel ritmo: «ma chi ha detto, dove è stabilito, come è stabilito che questo si debba intendere per verità?». Perché l’universalità dovrebbe coincidere con la verità? Questo è soltanto un punto di vista: utilissimo, nobilissimo, carico di storia, almeno da Galilei in poi, ma – appunto – soltanto un punto di vista.

II. Ci sentiamo coinvolti, assieme all’autore, in un’operazione di scavo: mitologia, testimoni, credenze, scienza … tutta “roba nostra”, una terminologia tutta nostra. Detto in breve, il linguaggio stesso che adoperiamo per imbastire l’intera trama della nostra civiltà, anzi delle varie civiltà, non è neutro: è una pratica, che opera, agisce e trasforma la realtà in cui viviamo – innanzitutto, giusto per fare un esempio, il linguaggio denomina quel “tutto che ci circonda”, stipandolo a forza entro lo spazio angusto di sei lettere “r-e-a-l-t-à”. Ed eccola qui, la cosiddetta realtà: l’abbiamo chiamata così.

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Carlo Sini.

Per di più ci siamo illusi che, esistendo la parola, esistesse anche la cosa corrispondente. Ma non c’è una “cosa” che corrisponda alla parola “realtà”: ci sono una serie innumerevole e incalcolabile di processi, entro i quali sorge persino il linguaggio; quel linguaggio che è capace di spezzettare e frammentare questo flusso unico in varie parti, assegnando a ciascuna un nome. Tra queste svariate “cose” troviamo anche la realtà – la cosiddetta realtà, che è tale solo perché “così-detta”.

Qui sembrerebbe proprio di toccare il fondo: scopriamo che non esistono “cose in sé”, ma soltanto cose “nominate”, secondo questi o quei termini, all’interno di questa o quella tradizione linguistica. “Ma insomma – esclamerà qualcuno – diteci una buona volta come stanno davvero le cose”. E ancora, noi qui sentiamo affiorare un ritmo, una voce che replica: dire le cose come stanno? Ma davvero? «Dando quindi per scontato che le cose stiano “di là”, così come stanno e come sono, e il dire stia “di qua”, dirimpetto alle cose».

In realtà, ancora una volta, non ci sono gli oggetti da un lato e il linguaggio dall’altro: questa sarebbe una triviale semplificazione – benché sollecitata dal funzionamento del linguaggio stesso. Al contrario, c’è un processo, un transitare dall’uno agli altri, una relazione reciproca, concreta, in cui entrambi i fronti – linguaggio e cose – crescono assieme. Magari toccassimo il fondo … piuttosto pare davvero mancarci il terreno sotto i piedi: come ci muoviamo adesso?

III. Altro che filosofia! Qui a esplodere è la scienza e l’intera cultura alfabetica. Abbiamo scovato una distanza abissale tra la vita e il sapere: altro è l’accadere, altro la conoscenza dell’accadere. L’autore ci narra vari episodi della propria vita, vari aneddoti, senza fare nulla per celare la parzialità prospettica tramite cui li riporta. Così pure le Baccanti danzanti tramontano e a noi resta il racconto, e poi lo studio del racconto, e l’analisi filologica del racconto – avendo perso oramai il loro vissuto.

Sini rileva come attorno a questa soglia scienza e filosofia si separino. La filosofia s’accorge che c’è uno stacco tra la teoria e la vita. Non c’è “qualcosa da fare” in proposito: cominciamo ad accorgerci del problema, lasciando che in qualche modo lavori in noi, per quanto ancora non si veda all’orizzonte una soluzione. Cerchiamo di ricavarne l’esito in forma radicale: la differenza stessa tra natura e cultura appare tutta interna alla cultura. Di fronte a questa soglia esistenziale, che coincide con il nostro modo di essere, scopriamo che la Terra è da sempre “antropizzata” e non c’è modo di “tornare indietro”. Indietro dove? Non vedere che il “prima” è pur sempre una costruzione linguistica?

A furia di scavare, abbiamo inteso che l’umano si manifesta come eccedenza. Viene in mente l’antico racconto della cacciata dal paradiso terrestre o il mito greco dell’età dell’oro. Qui le parole di Sini prendono un sapore platonico, inconfondibile: «che altro potrei fare in proposito, se non raccontare una favola?». Il mito ci dà accesso a una prospettiva sul “vero” che non coincide con quella della scienza. Cerchiamo d’intenderci: è chiaro ormai che il “vero”, a sua volta, non è concepibile come fosse una cosa: anch’esso è un processo, che si sviluppa nel gioco dei vari punti di vista. Religione cristiana o materialismo scientifico: chi ha ragione? Proprio questo è il tema: non c’è un terzo che, da fuori, possa stabilire chi abbia ragione. Ogni prospettiva conta, perché in essa si riflette e si esprime un intero mondo.

IV. Leggendo queste pagine – non dimentichiamolo: è anche un’autobiografia – ci si imbatte in quel che Sini definisce «il compito della mia vita», vale a dire il senso di tutti i suoi interventi pubblici, dei suoi lavori seminariali a Mechrí. «Che cosa credevate? Questa è la “rivoluzione culturale” che un vecchio professore di filosofia, con la sua storia e il suo abito mentale, non può fare a meno di auspicare». Una rivoluzione! Dove i veri rivoluzionari saranno gli scienziati, ingegneri, filosofi, intellettuali. Scienziati di tutto il mondo, unitevi! Un’avanguardia rivoluzionaria di nuovi monaci, che vanno tra i lupi a mani nude. Sono quei personaggi che in ogni società e in ogni tempo innovano.

Un’altra stazione di posta, dove le domande, anziché diminuire, si moltiplicano. L’autobiografia tiene in serbo altri aneddoti, altre storie, altri ricordi: grandi questioni e dettagli di vita convivono. Alla luce di questa operazione genealogica, come e perché studiare il passato? Non è forse già svanito, riformulato dalle nostre parole? E dove sono finiti quei giorni, quelle ore, quei pomeriggi, quegli amici mai più visti? Piccola curiosità, come si colloca Sini politicamente: a destra, o a sinistra? Ma, soprattutto, come intendere la nozione stessa di verità? Dobbiamo forse abbandonare l’idea della verità come oggettività e incamminarci lungo il sentiero del vero inteso come “potenza di diffusione”?

Tutte domande a cui il lettore troverà e non troverà risposta nel libro. Troverà qualcosa, ma è l’autore stesso, sin dalle prime pagine, a dichiararsi insoddisfatto del risultato – sicuro che ritornerà su questo o quel tema … «sino a che verrà qualcun altro, a cercarlo ancora per me». Qualcuno leggerà il libro e, insoddisfatto, tornerà a interrogarsi, aprendo strade nuove. Forse sentirà sussurrare tra sé e sé quel messaggio che un tempo veniva trasmesso sottovoce alle orecchie dei giovani.

«Sì, misera pulce, non sai e non capisci proprio niente: prima te ne rendi conto meglio è. La cosa cui aspiri è invece grande, tanto grande, tanto più grande di te e di me. Ma vedi un po’, sembrerà incredibile, ma magari puoi farcela. Prova ragazzo, prova ragazza, prova: non si sa mai».

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