5 per mille

Il Maestro e Margherita da Bulgakov al grande schermo

26 Giugno 2025

A Mosca, su una panchina presso gli Stagni del Patriarca, in un tempo così definito da diventare infinito, è stato affermato l’impossibile. Tre uomini, tutti e tre notevoli rappresentanti di un impegno, di un pensiero, di un modo d’essere, affermano il Caos. Soltanto uno di loro, però, è in grado di volerlo davvero. È questo l’incipit del capolavoro postumo di Michail Bulgakov, Il Maestro Margherita; ma bisogna attendere una quarantina di minuti per vederlo sul grande schermo nell’omonima versione cinematografica firmata da Michail Lokšin.

L’intreccio è risaputo: nella Mosca del 1929, uno strano figuro che si fa chiamare Woland (un calibratissimo August Diehl), spacciandosi per esperto di occulto e magia nera, si insinua nelle vite di alcuni personaggi di spicco della città, dimostrandosi ghiotto di teatro e letteratura. Con lui un pugno di bizzarri manigoldi: l’instancabile Korov’ev (Jurij Kolokol’nikov), per gli amici Fagotto, l’irascibile Azazello (Aleksej Rozic), l’imperscrutabile Hella (Polina Aug) e il gatto Behemoth. A fare da perno è la figura del Maestro (Evgenij C'īgardovič), autore di talento, intento a portare sulle scene la sua nuova opera, Ponzio Pilato; nel mentre, una lunare Margherita (Julija Snigir') lo incrocia casualmente per le strade di una Mosca assediata dai cantieri per non lasciarlo mai più. 

August Diehl nei panni di Woland.

 

Coprodotto dalla statunitense Universal, che per lungo tempo ne ha bloccato la distribuzione mondiale in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, il film di Lokšin arriva ora nelle sale italiane. Questa nuova trasposizione del romanzo di Bulgakov (la numero nove, se abbiamo fatto bene i conti), adopera i simboli per distruggere il Simbolo. Si sa che non esiste Russia senza stendardi rossi, architetture imponenti, statue di idoli (inevitabilmente destinate a crollare); tutto questo, nel Maestro e Margherita di Lokšin appare come puro sfondo, cartapesta digitale. La Mosca raffigurata nel film, è, più ancora di quella del libro, uno spazio irreale, fatto di strade in riparazione, palazzi in via di costruzione, assi di legno che servono ai due protagonisti per camminare sui viali infangati nelle loro lunghe passeggiate. Più che una metropoli è un progetto: ma un progetto a cui più nessuno crede. E forse è proprio per questo che buona parte della critica russa non ha apprezzato granché la portata satirica di un film che, almeno da questo punto di vista, non fa che riprendere in chiave contemporanea l’intento perseguito da Bulgakov nella prima parte del suo romanzo.

Certo, in un piatto così ricco – saturo, appunto, come vorrebbe l’etimologia – balzano all’occhio le eventuali mancanze. Il samovar, per esempio, che insieme alla dacia è uno dei topoi del romanzo bulgakoviano. E non è soltanto una questione di “colore” russo: a farne le spese è una delle figure-chiave della vicenda, quasi un deus (pardon, diabolus) ex machina, ovvero il grande gatto nero Behemoth, che del samovar è un vero proprio custode. Per quanto ben congegnata e benedetta dalla grafica in CGI, la sua presenza perde un po’ della sua carica rocambolesca e combinaguai, pur mantenendo quella “risolutiva” (soprattutto nelle scene più gore). 

Analoghe ragioni di spazio e di coerenza devono aver spinto Lokšin a ridimensionare il dramma di Ponzio Pilato (Claes Bang), “il crudele quinto procuratore della Giudea” alle prese con il giudizio e la condanna a morte di Cristo, oggetto nel romanzo dello pseudo-biblion del Maestro e qui ripreso sotto forma di dramma teatrale (un richiamo alla grande passione di Bulgakov per il palcoscenico?), con tanto di battute in latino e aramaico antico. Laddove la vicenda “evangelica” (ma di una religiosità, come ha scritto Giovanni Buttafava, “culturale, più che effettivamente trascendente, più umana che metafisica”) è uno dei capisaldi del romanzo, che si intreccia con le vicende moscovite dal principio alla conclusione, nel film è soprattutto uno dei tanti effetti metanarrativi di una struttura che, nel suo continuo gioco a scatole cinesi, riesce a riprodurre con una certa efficacia l’orchestrazione polifonica della narrazione bulgakoviana. 

A dominare, nell’adattamento di Lokšin, è invece la storia d’amore e morte fra il Maestro, modellato anche fisicamente sulla figura di Bulgakov, e Margherita, comprese le vicissitudini magico-oniriche cui va incontro quest’ultima. Con una buona intuizione, il film si apre infatti in medias res con il volo di Margherita sopra la città di Mosca grazie all’invisibilità fornita dalla crema donatale da Azazello. L’incipit del film coincide quindi con l’acme del personaggio di Margherita, finalmente capace di elevarsi rispetto a una città/ventre che, tra sfilate a passo di marcia, bagni di folla e manifesti propagandistici, sembra inghiottire ciascun individuo in un grigio anonimato. “Non chieda mai nulla a nessuno! Mai nulla a nessuno e tanto meno a quelli che sono più forti di lei. Ci penseranno loro a offrire e daranno tutto”: questa massima, una delle più celebri del romanzo, è il consiglio che il temibile Woland porge alla coscienza di una Margherita ormai perduta e ritrovata nel suo nuovo ruolo di regina del Gran ballo del Plenilunio.

Una massima che apre alla dimensione più apertamente politica del film, incentrata appunto sulla forza simbolica del potere. Forse per prossimità culturale, viene in mente la “Trilogia” di Aleksandr Sokurov, composta dai lungometraggi Moloch (1999) Taurus (2001) e Il Sole (2005), rispettivamente dedicati alle figure di storiche di Hitler, Lenin e Hiroito, che guarda caso si chiudeva con un epilogo (2011), ispirato al Faust di Goethe, principale fonte d’ispirazione di Blugakov per il suo capolavoro. Ciascun tiranno viene destabilizzato, insieme alla propria tirannide, dalle sue stesse forme di espressione megalitica (il Simbolo, per l’appunto) e proprio in virtù della loro Forza, che fino a quel momento aveva garantito loro il Potere necessario per sopravvivere alla Storia. Ma la Storia è caso e caos: è la pozza d’olio di girasole su cui scivola il critico-apparatčik Berlioz (Evgeny Knyazev) per poi ritrovarsi con la testa mozzata di netto da un tram di passaggio; è lo spettacolo di magia nera che fa provare alla neoborghesia sovietica il brivido del deprecato lusso “occidentale”; è la pazzia in cui piomba il Maestro a forza di elettroshock; è il disfarsi conclusivo della città di Mosca tra le fiamme, scatenate da “una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene”. 

La grandezza de Il Maestro e Margherita, sia nella forma-romanzo sia nella forma-film, è la sua capacità di non giustificare il Male, sia esso prodotto dall’uomo come dalle sue manifestazioni soprannaturali e di volerne, al contrario, sentire il respiro, abbracciarne la ragion d’essere. E per far questo gioca con i le tradizioni letterarie più antiche, dalla favolistica di Esopo – animali parlanti (o non parlanti ma assai risolutivi, come il fedele cane di Ponzio Pilato) e ricerca di una morale (del tutto inattingibile, in questo caso) – al versante gotico e viscerale delle opere dei fratelli Grimm, alle maschere dalla satira latina prese in prestito da Petronio. E lo spettatore, davanti alla visione drammaticamente fiabesca di Mosca in fiamme, non può far altro che sospettare che quella città alle prese con il fuoco non sia stata nient’altro che un rudere già dalla nascita, in attesa che le forze imperanti del Male, alle quali nessuno è in grado di sottrarsi, vengano ad offrirgli la caducità dei suoi simboli su una qualsiasi panchina, in un giorno qualsiasi, presso gli Stagni del Patriarca.

 

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