Salvare la pelle
Alessandria d’Egitto, I secolo d.C. In quello che oggi non esiteremmo a definire il centro di un meticciato tra pensiero greco, ingegneria romana e tradizioni orientali ed egizie visse Erone. Matematico, inventore, mago della meccanica, Erone costruiva macchine meravigliose. Porte di templi che si aprivano da sole al calore del fuoco sacro, teatrini che si muovevano da sé, fontane che sembravano vive. Con leve, corde, aria compressa e vapore, inventò l’illusione automatica. Progettò un vero e proprio automa: una piccola scena mobile su ruote, animata da un sistema di corde avvolte attorno a un tamburo rotante, alimentato dalla caduta di un contrappeso. All’apertura del sipario, le figure si muovevano in sequenze programmate: una nave che avanzava, marinai che alzavano le braccia, fiamme finte che si accendevano. Era un robot ante litteram che anticipava l’idea di macchina scenica automatica e narrazione codificata.
Intelligenza artificiale? Perché no. Pensiero? Forse. Vita e volontà? No. Umanità? Per niente. Cosa mancava loro per esserlo? Dalla Stele di Rosetta, concepita come protesi della memoria e poi diventata artefatto di scrittura e apparato meccanico di registrazione, agli automi di Erone e a Chat Gpt, passando per la Macchina di Turing, cosa manca oggi alle macchine per essere umane? Proviamo a rispondere a partire da una domanda: cosa abbiamo noi di così umano da distinguerci dalle macchine? Argomentiamo così: come possiamo partire dal meccanismo, dalla tecnica in atto per fare emergere, retroattivamente, il legame tra questa e l’organismo vivente e volente che l’ha prodotta? Tanto più se l’apparato artificiale ha potenziato l’umano, permettendogli di orientarsi nel mondo, sopravvivervi, produrre e registrare conoscenza per poi restituirne i dati sotto forma di capitale? Detto in altri termini: se sottraiamo questa presenza di informazioni e dati, tanto pervasiva da essere scambiata per una galassia in continua espansione che si presume in grado di coprire tutto il territorio del pensiero, che cosa apparirà? L’umano. Sotto quale forma? Quella del confine del corpo sensibile, orientato all’interno verso l’organismo naturale e rivolto all’esterno, sul mondo, grazie a protesi tecnologiche. E qual è il sostrato di questa terra di mezzo che ci caratterizza come umani? La pelle. Facile a dirsi, meno semplice è argomentarne la risposta. Se ne è incaricato da par suo Maurizio Ferraris nel suo ultimo libro, uscito per i tipi del Mulino: La pelle.
Ferraris smonta l’illusione che l’anima pensante sia la parte sostanziale del discorso sull’AI, che intelligenza sia coestensiva a calcolo, elaborazione di dati, produzione di risposte ordinate. L’intelligenza umana è certamente capacità di calcolo e raziocinio ma anche altro. Come insegna la tradizione filosofica delle facoltà dell’anima, essa è senso, memoria, così come emozione, credenza. È azione incarnata nel mondo. Ma soprattutto, è volontà. Ridurre tutto questo a una somma di operazioni fattoriali equivale a scambiare una parte per il tutto, e poi trattare quella parte – la computazione – come se fosse l’intero spirito, cioè l’anima unita all’aumento dato dalla tecnologia. L’automa illumina per contrasto l’anima ma non può sostituirsi a essa. Invece, secondo un sentir comune tanto diffuso quanto pericoloso si assume che, poiché l’emulazione da parte di una macchina produce risposte convincenti, essa generi pensiero. Ma emulare non è pensare. La macchina aumenta una funzione umana – per esempio la capacità di organizzare informazioni – e da questa riproduzione parziale si inferisce che l’intero pensiero umano sia replicabile in modo automatico. Necessariamente la macchina compie alcune operazioni di calcolo in modo più veloce, più preciso, puntuale e necessario. Il calcolo è identico al pensiero. E dunque, si conclude per trasferimento della necessità, l’artificiale deve pensare meglio dell’umano. Corollario di questa fallacia: prima o poi ci sostituirà. Ma quella galassia di dati e informazioni computate, che squadra il pensiero da ogni parte come cantava il poeta, ci dice quel che non sappiamo ma non è quello che siamo, né saremo mai. Il salto evolutivo uomo-anima-macchina pensante è ideologico. È il prodotto di un trasferimento arbitrario: da una protesi all’intera anima pensante, dalla performance alla coscienza, dalla lista alla volontà di istituirla. Alla base c’è anche un equivoco linguistico: la convinzione che i nostri enunciati verbali siano resoconti fedeli e univoci dei nostri stati mentali. Dunque, se una macchina può generarli, allora ha anche quegli stati. Ma una lista di enunciati assemblati per approssimazione, per quanto di milioni di parametri, non è un atto volontario. Non solo la pelle fa sì che ci troviamo in un mondo sensibile ma ci pone, vedendolo a ritroso, davanti all’evidenza che siamo umani perché abbiamo la volontà e la capacità, grazie alla tecnologia, di raddoppiare il sensibile nell’intelligibile. Cioè di avere accesso alla dimensione di quello che Ferraris chiama lo spirito. La macchina non vuole, non spera, non desidera. Compone elenchi. Lo fa meglio dell’umano, certo, ed è puerile contrastarla sostenendo il primato di liste autenticamente umane. Ma per parlare di umano bisogna cambiare prospettiva.
Questa visione è frutto di un’ideologia digitale: si assolutizza la dimensione computabile della mente, escludendo ciò che non rientra nei parametri, negli algoritmi, nelle strutture replicabili, unitarie o aggregate che siano. La macchina viene presentata come superiore, non perché lo sia, ma perché ne sono esclusi i limiti propri dell’umano. È una prospettiva rassicurante per chi vede nella tecnica un’estensione perfetta dell’intelletto, ma è anche una forma di cecità culturale: si rinuncia a comprendere la complessità del pensiero, pur di celebrarne l’efficienza ridotta. Ma non si tratta di far diventare informatico e digitale l’umano, quanto di fare emergere i limiti di questa ideologia per ridisegnare la volontà, i modi di formare, i modelli di pensiero orientati a fini.
La domanda allora è: “che cosa distingue la macchina dall’umano?” La risposta, per Ferraris, è chiara e sorprendente nella sua semplicità: il corpo. O, più precisamente, la pelle. Come la lettera rubata di Poe la pelle da sempre è in bella vista. È confine e soglia, luogo in cui il mondo tocca l’organismo, dove si rivela la coscienza. La pelle è interfaccia tra interno ed esterno, sede del sentire, indizio della volontà e inizio della volizione. La macchina non ha pelle. Può essere rivestita, ma non sente. Anche se si progettasse una pelle artificiale, mancherebbe comunque il bisogno che spinge l’organismo a sopravvivere, a scegliere, a desiderare. Ed è da questo impulso primario che nasce l’anima: non come contenitore vuoto, ma come luogo pieno di immagini, nomi, ricordi, sogni. L’anima, dunque, non è una funzione: è un nodo dinamico in cui volontà, corpo e mondo si intrecciano. È un mondo sociale, storico e culturale, un habitus sedimentato grazie alla tecnica nella memoria collettiva.

Il meccanismo primario che permette di registrare questa esperienza è la scrittura. Per Ferraris essa è strumento, ma anche condizione del meccanismo. La scrittura, evoluta dalla necessità di memoria, è stata esaptata – come direbbe la biologia evolutiva – per diventare struttura della conoscenza. A questa, si aggiungono poi questioni di stile. L’uso di allusioni, evocazioni e il creativo ricorso nel testo a etimologie/archeologie del senso comune, consolida l’idea che la via da battere per discriminare la presenza dell’umano sia proprio quella del rimando intertestuale: il sottointeso che rivela il sottotesto, freudianamente ma non troppo, obliato dal presente digitale che lo simula per approssimazione ma non lo rende come effetto di senso. L’intertestualità, cioè la rete di relazioni che il testo intrattiene con altri testi dello stesso Ferraris o con modelli letterari, a partire dall’amato Proust, non è solo limitata alla scrittura letteraria ma si estende alla letteratura scientifica.
Usando Freud come fonte di confine, come pelle letteraria verrebbe da dire, tra scrittura scientifica e finzionale, Ferraris introduce il concetto di ‘esaptazione’. Ferraris lo importa, non senza criticare gli eccessi evoluzionisti, dal modo in cui Stephen Jay Gould ed Elisabeth Vrba descrivono il bricolage dell’evoluzione. L’esaptazione è il riuso di un tratto per una funzione diversa da quella per cui è nato. Le piume per il calore, poi per il volo. È un modo per capire l’evoluzione culturale non come semplice adattamento, ma come riconfigurazione delle risorse. Ma perché questo processo funzioni, serve un agente. Una macchina può proseguire il tracciato, ma non avviarlo. Può estendere, ma non iniziare. Solo l’umano possiede la volontà che muove il pensiero verso fini.
Si delinea così una teoria del raddoppiamento: il corpo, naturale, si sdoppia nello spirito, forma storica e cosciente dell’organico, grazie e per mezzo del legame con la tecnica. Il pensiero nasce perché il corpo vuole; si sviluppa perché scrive; diventa mondo perché registra; crede alla verità degli enunciati su di esso; e infine vi legge un senso, individuale, ma soprattutto etico politico. La macchina parte da ciò che è già registrato. L’umano crea le condizioni ontologiche del senso. Per Ferraris è la scrittura, in quanto tecnica di registrazione, a permettere questo passaggio. Ma solo se c’è una volontà che la muove. Ferraris percorre questa prospettiva ibridando fonti filosofiche, letterarie, psicologiche e biologico evolutive in un numero così esteso che una delle chiavi del libro può anche essere leggerlo a partire dalle note. Tutto confluisce nel sostenere una tesi centrale: la differenza tra umano e macchina non è solo tecnica, è ontologica. La macchina non ha un mondo su cui si possano esprimere enunciati veri o falsi (epistemologia) perché non ha un corpo. Non può istituire senso (teleologia) perché non ha una volontà.
L’ambiente immersivo in cui ci muoviamo oggi – tra AI, realtà aumentata, sensori, robot – non è orientato a costruire mondi dietro al mondo, così da indebolire la realtà, ma rende ancor più evidente questa tensione. La tecnica cresce, si potenzia, si fa quasi invisibile. Ma proprio perché invade ogni aspetto della vita, rivela retroattivamente ciò che non può fare: essere vita, abitarvi la soglia con il mondo grazie alla pelle. Quest’ultima, allora, non è solo una metafora, ma una figura precisa della relazione tra organismo naturale e apparato meccanico. È lì che la mente incontra il mondo e lo trasforma, lo scrive, lo registra e lo restituisce sotto forma, tangibile o intangibile, di spirito. Ed è lì, che il corpo animato muore, spegnendosi per sempre. La macchina può essere sofisticata, ma resta incapace di produrre questa interazione primaria: se opportunamente programmata, prima o poi riaccenderà.
Il primato dell’umano non sta nella superiorità né nell’espansione dei parametri e nel loro calcolo, ma nella specificità: nel fatto che, tra tutte le specie e tra tutti gli oggetti, solo l’uomo ha bisogno della tecnica per sopravvivere e, insieme, della volontà per darle forma. Questo bisogno genera strumenti, sistemi, linguaggi, ma anche estetica, etica, vita sociale, memoria. È la volontà che apre il mondo. Ed è solo in questa apertura specificamente umana che si dà la possibilità dello spirito e dell’umano. Una filosofia dell’AI, allora, non può limitarsi a descrivere le potenze dell’automa, ma deve interrogarsi sulla finitezza dell’uomo. E sul valore che questa finitezza custodisce – nel suo limite e nella sua apertura.
Pensare, per Ferraris, significa innanzitutto riconoscere in modo retroattivo il confine, la specificità e il limite della protesi tecnologica per lasciare emergere le facoltà dell’anima che costituiscono la differenza della seconda rispetto alla prima. Non un’anima religiosa o ineffabile, ma fatta di pelle, carne, tracce, cicatrici, desideri. Non ha senso temere che la macchina diventi umana; ha senso temere che l’uomo dimentichi di esserlo. E se l’AI, proprio potenziando la parte computazionale del pensiero, ci aiuta a vedere meglio cosa manca a quel pensiero – pelle, volontà, storia, fallibilità – allora ben venga. Ma l’interfaccia fondamentale tra tecnica e vita resta la pelle, raddoppiata per Ferraris in quella sorta di pelle tecnologica e trascendentale che è la scrittura. Perché, a patto che i confini siano letti come filtri e interpretazioni che, a ritroso, rivelano come le cose non hanno la tendenza ad andare, è da essi che passa la linea sottile ma intransitabile tra l’anima e l’automa.
Ps. Pare che Erone non mise mai all’opera le sue macchine: le porte dei templi le aprivano gli schiavi. Ma questa è un’altra storia, di webfare, che Ferraris ci ha raccontato in Documanità (2021).
