Tradurre redimere riparare
L’alto compito del traduttore viene oggi svilito, compromesso e minacciato, come forse non era mai avvenuto prima dalla sfida dell’Intelligenza Artificiale il cui primo effetto è la traduzione automatica, intesa non solo come esito, ma come attitudine e disposizione verso ciò che deve essere tradotto. Occorre infatti precisare che tale sfida va vista nel contesto più ampio di una tecnicizzazione del linguaggio che negli ultimi anni si è andata affermando con sempre maggiore rapidità. Solo se si considera questo fenomeno nella sua complessità è possibile tentare di definire il compito del traduttore nello scenario attuale.
Scelgo intenzionalmente il termine “compito” – e non mestiere, né lavoro o professione – non solo per il rinvio implicito al grande testo di Walter Benjamin, ma perché sono convinta della messianicità del traduttore. Il che dovrebbe essere sottolineato proprio mentre si va imponendo un concetto pragmatico-normativo della traduzione. Come se si trattasse di risolvere un problema, di superare l’ostacolo rappresentato da un’altra lingua, e dal testo non immediatamente comprensibile, di eliminare la difficoltà nel più breve tempo possibile. Il soluzionismo, uno dei mali di quest’epoca, è il portato della tecnicizzazione. Sarebbe un errore ridurlo alla scelta precipitosa e superficiale del singolo.
2. Non si sottolineerà mai abbastanza che la tecnica è una chance e una minaccia insieme. Nulla è più sbagliato della demonizzazione. Tanto più che la tecnica – come ci insegna la filosofia – non è un mero e neutro strumento di cui si possa fare un buono o un cattivo uso. Piuttosto, e ben di più, la tecnica è un dispositivo, un ingranaggio, all’interno del quale chi impiega viene sempre anche impiegato. Proprio questo lato passivo resta spesso nell’oscurità.
Che cosa vuol dire tecnica in relazione al linguaggio? Gli effetti deleteri sono almeno due. La tecnica potenzia i mezzi rendendo superflua la scelta dei fini. Il rapporto ne viene stravolto. I fini diventano spesso mezzi, ma soprattutto i mezzi diventano fini. Lo stravolgimento investe tutte le forme della nostra vita dove godiamo di straordinari poteri, ma ciò lascia in ombra quello che non possiamo più fare, e forse neppure volevamo fare. Il linguaggio tecnico è certo legittimo. Ma l’obiettivo di eliminare imprecisioni e ambiguità che minano e lingue storiche, rendendo più rapide le procedure, ha un costo elevato. Il mezzo diventa fine perché garantisce di pensare solo ciò è programmato e programmabile. Lungi dall’essere controllato, il linguaggio esercita un controllo su di noi e soprattutto sul pensiero e le modalità di pensare.
Il secondo effetto, su cui molto si è insistito in passato, è lo svuotamento del linguaggio, l’erosione dei contenuti. Il linguaggio diviene allora un insieme di etichette e appare quasi come uno strumento che usiamo per designare le cose e comunicare. Uno strumento che si prende quando serve e poi si ripone.
3. Questi effetti, che emergono ovunque vi sia una tecnicizzazione del linguaggio, sono eclatanti lì dove viene applicata l’Intelligenza Artificiale. E diventano drammatici nella traduzione.
Occorre ovviamente distinguere casi diversi. Il ricorso alla traduzione automatica – attraverso programmi appositi, app su dispositivi mobili, ecc. – è del tutto lecito. Talvolta è perfino decisivo e vitale: una squadra di soccorso che non parla la lingua di un posto sperduto, una ditta che per chiudere un affare ha bisogno di tradurre una lettera ad esempio dal tedesco all’italiano. La lettera d’affari sarà italiana quanto basta e pronta all’uso così come la consegna la traduzione automatica. Ma già la lettera di un amico tedesco reclamerebbe di più. Perché la sua voce, e il timbro personale delle parole, sarebbero sopraffatti.
I rischi della traduzione automatica sono molti e diversi. Anzitutto la standardizzazione del linguaggio che viene svuotato e normalizzato. Il che è dovuto anche all’impostazione della macchina che impone la procedura a cui è stata adibita. Il testo viene considerato solo un problema da risolvere nel più breve tempo possibile. E questo muta anche il nostro rapporto con la parola, che siamo spinti ad attraversare velocemente e a disambiguare secondo criteri prestabiliti.
La standardizzazione avviene inoltre nel segno del globanglese, cioè della lingua più diffusa che dispone anche di maggiori risorse digitali. Com’è noto il globanglese è supportato dagli strumenti di traduzione automatica e di Intelligenza Artificiale generativa. Perfino il passaggio da una lingua all’altra, soprattutto se si tratta di lingue poco diffuse, avviene attraverso il globanglese che inevitabilmente fa valere la propria sintassi, introduce i propri elementi lessicali. Ciò implicherebbe una progressiva emarginazione delle lingue meno potenti, meno visibili, meno tradotte – e meno traducibili. Mentre muta così il nostro rapporto con la parola, cambia anche quello con la diversità delle lingue.

4. La parola viene degradata, ridotta nel suo spessore semantico, abbassata a semplice mezzo di scambio. Lo si può constatare nell’aggressivo insinuarsi dell’uso segnico in tutti gli ambiti della vita. Quel che salta agli occhi, e non può non allarmare, è il profluvio di termini tecnici che, quasi come scorie abbandonate, contaminano le lingue storiche. Che si tratti spesso di termini anglo-americani non deve fuorviare. Il fenomeno riguarda infatti anche l’inglese – sia british sia american – dove i termini del newspeak tecnico invadono il parlare quotidiano. Il pericolo non sta nei prestiti, come in genere superficialmente si crede. la vera minaccia non è l’influsso esercitato dall’inglese, ma la riduzione della profondità della lingua.
Ecco perché parlo di globanglese intendendo quel newspeak la cui marcia inarrestabile nel segno di una uniformazione standardizzata pretende di eliminare ogni traccia di indeterminatezza, incomprensibilità e alla fin fine di alterità. L’imperialismo di questa monolingua – più efficace di molte imprese imperialistiche – rischia contemporaneamente di influire sul degrado della parola e contribuire all’estinzione delle lingue.
5. A proposito delle lingue e della loro diversità mi piace sempre ricordare una splendida immagine di Wilhelm von Humboldt che dice: «[le lingue] rassomigliano nel loro insieme a un prisma di cui ogni faccia mostra l’universo sotto un colore diversamente sfumato». La conoscenza del mondo risulta dal complesso delle prospettive – pur non esaurendosi in queste – sicché ogni nuova prospettiva che si dischiude arricchisce questa totalità. Ogni lingua articola il mondo, lo ritaglia e lo organizza diversamente. Ogni lingua dischiude dunque una diversa prospettiva, riflette il mondo, mentre lo viene formando. E la metafora del prisma indica che la diversità è sempre diversità all’interno dell’unità.
Di qui la pari dignità delle lingue. Il guaranì non è meno prezioso del tedesco. E quando si estingue una lingua viene meno una parte importante del patrimonio dell’umanità. Certo, possono esserci gradi diversi nell’evoluzione culturale di una lingua. Ma nella potenzialità tutte le lingue hanno pari dignità.
Dire che la diversità non si arresta ai suoni ma si rivela invece una diversità di visioni del mondo significa riconoscere la profondità delle lingue, ma anche il dramma abissale che ciò porta con sé, quello dell’incomprensione. Decisivo diventa il tradurre.
Ma la riflessione sul tradurre è indissolubilmente legata alla riflessione sulla diversità delle lingue e ne condivide le sorti. Se si pensa al linguaggio come un semplice strumento che serve a designare le cose, allora la diversità viene vista nella sua esteriorità di superficie, come una diversità di segni, di etichette foniche o grafiche. In tal caso la traduzione si riduce a una sostituzione – un compito quasi meccanico.
Il tradurre muta quando si getta uno sguardo nel profondo della diversità delle lingue che non è una diversità di suoni e segni, bensì una diversità di articolazioni del mondo. Oltre ad essere la prassi attraverso cui si cerca di gettare un ponte sull’abisso dell’incomprensione rappresenta di fatto il riconoscimento della lingua altrui.
6. Nella diaspora delle lingue dopo Babele la traduzione è il filo che lega parlanti vicini e lontani di idiomi diversi. Sappiamo che nella secolare riflessione filosofica e linguistica, culminata alla fine del Novecento nel cosiddetto “tournant philosophique”, molti sono stati i modi di intende il “tra” del tradurre.
Le diverse fasi sono scandite dal rapporto fra il proprio e l’estraneo. Le ho ricostruite altrove. A lungo l’estraneo viene proscritto, tenuto a distanza, per preservare la lingua propria. Ma invano, perché l’incontro è inevitabile. E ciò porta con sé un primo salvifico effetto della traduzione: ogni lingua appare una tra le altre, non il mondo, bensì una visione del mondo. Presto subentra allora una nuova strategia: l’appropriazione dell’estraneo. Si cerca di incorporare la lingua altra nella propria, di cancellarne la traccia.
Quando aumenta la sensibilità per la traduzione – e per la diversità delle lingue – allora la strategia diventa l’estraneazione del proprio. Basti pensare al grande programma di sprovincializzare il tedesco, elevarne il genio, attraverso una molteplicità di opere tradotte, concepito nel cuore dell’Europa dai romanici tedeschi.
Questa strategia vuol dire preferire la brutta infedele. Nel secolare dibattito fra bellezza e fedeltà si finisce per propendere per quest’ultima. Il che ha risvolti non tanto pratici, quanto teorici. La filosofia della traduzione, ma anche la teologia della traduzione (pensiamo solo a un nome come quello di Franz Rosenzweig), denunciano quel rifacimento che all’insegna della bellezza finisce per volgersi in una sopraffazione. Alla bella fedele che cambia frivolamente veste si preferisce la traduzione fedele, anzi fedelissima, che non esita a partorire figli bastardi per amore di quell’estraneo che è l’autore del testo nell’altra lingua. In questo suo amore senza pretese, in questo gesto di accoglienza, è capace di mettere a repentaglio la madre-lingua nonché la purezza della progenie. Alla faccia di ogni sovranismo linguistico.
Né meccanica sostituzione, ma neppure libero rifacimento, la traduzione deve farsi portavoce della voce straniera, addirittura risvegliare la nostalgia per la sua irriducibile inappropriabilità. Ma in che consiste il colorito di estraneità? E soprattutto come si fa valere l’esigenza di fedeltà?
7. Fedeltà si dice in molti modi e la questione è molto complessa. Sotto un profilo pratico ciascuna traduttrice e ciascun traduttore cerca di volta in volta una via. Ma indubbiamente fedeltà non significa esattezza, equivalenza, conformità. Piuttosto va intesa anzitutto come dedizione e rispetto per l’altrui testo scritto. Talvolta anche fino alla lettera. Ma non si deve confondere la letteralità con il letteralismo scolastico.
Fedeli non alle parole isolate, ma alla loro connessione, al fluire ondoso nella frase, ai contorni che assumono, dunque, nelle costruzioni sintattiche e grammaticali – fino all’etimologia. Letteralità può voler dire anche spingersi fino alla etimologia in uno scavo.

8. Si deve allora riconoscere che la traduzione non ha solo una dimensione orizzontale, quella del passaggio da una lingua all’altra, dell’incontro fra il proprio e l’estraneo, ma ha anche, sebbene più nascosta, una dimensione verticale, cioè storica, e storico-semantica. In tal senso la traduzione, come esperienza della profondità del linguaggio, della sua dignità, sarebbe il movimento opposto alla caduta, al degrado, allo svuotamento. Il dialogo tra le lingue può contrastare il potere esercitato dalla tecnicizzazione.
La verticalità sta anzitutto nella sopravvivenza offerta al testo, che non è solo vivere oltre, ma risvegliarsi a una maturazione postuma, ovvero a una modificazione e sviluppo. La traduzione spinge il testo a dire quel che non aveva detto. Se il testo sopravvive trasformandosi è perché come il passato della storia, così anche il passato della lingua non è mai fisso. Questo vale con i dovuti limiti anche appunto per un testo, perfino un testo dimenticato di una lingua morta che può rinascere a nuova vita.
Non si esagera sostenendo che la traduzione è come un’opera di scavo che recupera fino al fondo etimologico i tesori nascosti, li porta alla luce, li disseppellisce, li libera. Proprio questa verticalità influisce sull’incontro fra due lingue, sul loro dialogo. Ogni traduzione dovrebbe risvegliare in ciascuna lingua le tonalità sopite che altrimenti restano sopite nel fondo. Dovrebbe essere perciò una elevazione, attualizzando quelle potenzialità semantiche e sintattiche non ancora operanti. In tal senso entrambe le lingue ne risultano trasformate: la lingua straniera si rinnova con un dispiegamento ulteriore, mentre la lingua materna viene scossa dall’estraneo che ne infrange i limiti portando alla luce le sue potenzialità ancora inoperanti. La trasformazione si dà perché ciascuna lingua contiene le possibilità dell’altra – solo non ancora realizzate.
9. In una splendida immagine, contenuta nel saggio “Il compito del traduttore”, Benjamin paragona le lingue ai frammenti di un vaso riprendendo la mistica ebraica della Kabbalah. Parla di una ricomposizione di questi frammenti che intanto è possibile in quanto i frammenti vengono riconosciuti come “frammenti di una lingua più grande”. L’idea kabbalistica è quella del tikkun, la riparazione di ciò che è rotto e disperso. Proprio come si riparano, ricomponendoli e riunificandoli, i frammenti di un vaso. Riparare è allora un sinonimo di riunificare e di redimere.
Ogni atto di riparazione, per quanto umile sia, è un atto messianico. Ci sono tanti mestieri, tanti lavori, tanti compiti che hanno, forse nascostamente, un valore messianico. Ma il compito del traduttore è il compito messianico per eccellenza. Perché la dispersione dell’umanità è avvenuta attraverso la frantumazione delle lingue e del parlare dopo Babele.
Solo il traduttore può far dialogare le lingue. E nel dialogo far emergere come l’una dice all’altra quello che l’altra non ha ancora detto, voleva dire, sta per dire. Come si intuisce qui la verticalità si proietta nel futuro, nella convergenza tra le lingue, nella loro complementarità, nella loro cospirazione. Ma ciò non va a scapito della polifonia delle lingue, della molteplicità di voci che attraversano le lingue, che ne costituiscono la ricchezza semantica e grammaticale.
10. Riparare e redimere ha oggi un significato più urgente che mai. Basti pensare già a quelle scorie abbandonate ovunque dal globanglese nella sua marcia verso la vuota uniformazione. L’effetto è la riduzione dello spazio semantico e dialogico che mina dall’interno le lingue.
Ma resistere alla uniformità totalizzante, alla omo-egemonia, come l’ha chiamata Derrida, non vuol dire cedere alla reattività identitaria, all’ideologia sovranista. Significa invece salvaguardare il tradurre, sostenere la traduzione, vera istanza politico-culturale.
Per altro verso la traduzione che renda giustizia alla dignità della parola non può in nessun modo essere una deviazione dello scambio linguistico, una sostituzione meccanica. Gli effetti sarebbero devastanti. Vittime sarebbero certamente anche le grandi lingue della cultura europea, come avvertiva Claude Hagège alla fine degli anni Novanta.
È probabile che si andrà sempre più verso una divaricazione fra la traduzione automatica, diffusa negli ambiti in cui domina la strumentalità, e la traduzione letteraria (nel senso più ampio), in cui si invita a soggiornare nelle parole e nella loro profondità. D’altronde la tra-duzione, già solo per quel suo “tra”, inter, è sempre una interruzione.
Questi artigiani della parola, questi costruttori messianici, saranno coloro che ci indicheranno il cammino alternativo al facile e pericoloso soluzionismo. È la via di chi non delega il proprio pensiero al dispositivo tecnologico e ne attende pazientemente l’articolarsi linguistico. Sostenere chi traduce vuol dire non solo proteggere un mestiere, ma preservare la dignità della parola, l’ammirevole struttura e la diversità delle nostre lingue, la messianicità del linguaggio.
