Ma dov’è finito Pingu?
Rimpiangere l’assenza di una figurina da cartoon, comunque pensata prevalentemente per bambini dai sei ai dodici anni, può sembrare di questi tempi un atteggiamento provocatorio di pseudo-leggerezza postmoderna. A cosa potrebbe servire oggi un piccolo pinguino in plastilina creato ad arte nel secolo scorso mentre la violenza imperversa un po’ ovunque sul nostro pianeta, mentre la politica è sempre più superficiale, isterica e irresponsabile, mentre la ragione stessa svanisce e i valori ritenuti validi dal dopoguerra in poi ora vacillano?

Pensare alle avventure di Pingu come anestetico momentaneo pare quasi una offesa, vista la gravità della situazione. Pensare a Pingu e a ciò che incarna come rimedio per scuotere le coscienze pare poca cosa, una pia illusione. È vero che già i romantici richiamavano (nei decenni di una Europa reazionaria orientata a smontare tutto ciò che la Grande Rivoluzione aveva comunque realizzato) la necessità di una “nuova mitologia”, cioè la possibilità di smuovere gli animi raccontando fiabe, cominciando proprio da ciò che si narra ai piccini. Anche se, e così torniamo a Pingu, le avventure di quest’ultimo, immaginate per la tenera età, ebbero in verità come pubblico fedele pure gli adulti della fine del XX secolo.
La storia di Pingu inizia nell’ormai lontano 1986 con la produzione di un film-pilota di sette minuti realizzato dal mago dell’animazione Ottmar Gutman insieme a collaboratori provenienti dalla televisione svizzera SRG. Il primissimo Pingu, un pinguino-ometto adulto dal becco appuntito e piuttosto aggressivo, appare nel pilota già molto addolcito: gli occhi ovali sono stati tramutati in grandi occhi rotondi, mentre il corpo tutto ha preso una amena morbidezza tipicamente infantile. Questo primo Pingu è il risultato della collaborazione di varie persone: di Gutman, che porta con sé la tradizione dell’utilizzo di figure reali in plastilina filmate con la tecnica della stop-motion, di un giovane collaboratore di Gutman, Harald Mücke, che conferisce all’animale antropomorfizzato le sue simpatiche sembianze, nonché dei collaboratori della rete televisiva che combinano elementi narrativi ancora piuttosto banali. L’effetto finale è comunque già caratterizzato da un sincretismo notevole, poiché l’habitat di Pingu, pur essendo ubicato al polo sud, espone un ambiente contrassegnato da iglù, cioè da forme architettoniche elementari presenti al polo nord. In questa fase appare un altro elemento essenziale: la presenza sonora di un linguaggio – una sorta di “pinguinese”, o idioma gesticolare non verbale, che fosse comprensibile per tutti e ovunque – inventato quasi in presa diretta dal geniale attore italiano Carlo Bonomi.
Come spesso accade, il filmato-pilota anche in questo caso finì in qualche cassetto... La vincita a sorpresa, nel 1987, di un “Piccolo Orso” al festival di Berlino (basata su una versione rielaborata e accorciata del film-pilota iniziale) evidenziava di colpo sia il potenziale del progetto, sia le difficoltà della sua realizzazione. Il problema principale – che in seguito si dimostrerà palese – stava nella difficoltà manageriale e finanziaria di organizzare una produzione di estrema complessità. La tecnica di stop-motion esigeva infatti fino a 15 immagini per secondo di ogni singolo episodio, ciò che per un episodio completo di cinque minuti richiedeva ben 5000 immagini distinte. Per riprendere ognuna di esse con le cineprese Mitchell, gli animatori e il loro team dovevano preparare, seguendo uno story-board preciso, centinaia di figure e ambienti differenziati. Non stupisce quindi che ben quindici persone lavorassero durante un mese per dar vita a un episodio, un fattore che, in un paese come la Svizzera con un costo lavorativo medio molto elevato, comportava uno sforzo ulteriore.


Fu un italo-svizzero, Silvio Mazzola, a trovare la soluzione del problema manageriale e a dare, grazie a un intervento contenutistico fondamentale, una direzione al neonato Pingu. Il rimedio aziendale consisteva nella possibilità di finanziare la produzione dei filmati grazie al merchandising. Dopo un processo di selezione rigoroso, la compagnia che gestiva Pingu (Editoy), permetteva a diversi utenti nel mondo di utilizzare il marchio omonimo e di reinvestire i proventi iniziali quasi integralmente nella produzione ubicata presso gli studi di Russikon, nell’Oberland zurighese. La produzione di una sequenza di episodi (con multipli di 13), la diffusione da parte di emittenti televisive (in oltre 130 paesi nel momento apicale) e la circolazione di prodotti “legati” a Pingu crearono di fatto una dinamica positiva e garantirono nell’arco di pochi anni un successo notevole su scala globale. Mazzola assicurò la scelta dei partner individuali con grande cura (la Editoy agiva come un comitato etico) e impose un principio-chiave in campo narrativo: l’essenziale stava non tanto nella presentazione di avventure divertenti, ma nella possibilità di formulare attraverso le storielle narrate dei valori specifici. La semplice cornice del pinguino antropomorfizzato ubicato nel no man’s land polare, uno scenario apparentemente giocoso fatto solo per i bimbi, permetteva in verità di trasmettere in un filmato di pochi minuti una serie di valori quali responsabilità, curiosità, tolleranza, piacere, rispetto, e così via.
Pingu, che conquistò la simpatia di piccoli e grandi alla fine degli anni ’80, rappresenta nel contempo un fenomeno di estrema semplicità e di notevole complessità. I cinque minuti passati in compagnia dell’allegro animaletto antropomorfo erano il frutto del lavoro ultrasofisticato di uno studio cinematografico, dove specialisti dell’animazione, del design e dello story-telling lavoravano insieme agli addetti del voice over (in primis, Carlo Bonomi), con musiche composte su misura e suoni realistici. Pingu appariva però, da un altro lato, come l’espressione di una spontaneità altrettanto estrema, anzi, di una immediatezza sorprendente. Dovuta al fatto che quanto si vedeva sullo schermo era merito di “figuranti” in plastilina filmati però su un vero set. Il tutto venne concretizzato senza trucchetti digitali, rivendicando una prassi elvetica di artigianato in linea con la tradizione della “buona forma” celebrata da Max Bill. L’impronta realistica si ritrovava anche sul piano semantico-narrativo, visto che l’habitat esemplare inscenato non era né fantastico, né fantascientifico, ma riconoscibile come universo verosimile. L’immediatezza scaturiva dalle qualità estetiche delle figurine, le cui rotondità e qualità anti-geometriche ricordano la celebre “linea della bellezza” di William Hogarth. La colonna sonora infine, esprimendo tutto ciò che era necessario per seguire la trama narrativa senza rinviare a una lingua specifica, facilitava anch’essa l’impatto creativo sull’immaginazione del pubblico più variegato.

La fine degli anni ’80 e l’ultimo decennio del XX secolo furono dunque il teatro del successo globale di Pingu. Premiato nei grandi festival del settore (Annecy, New York, Cairo, ecc.), associato a giganti come la BBC, la Sony, o l’UNICEF, utilizzato addirittura nelle università per spiegare concetti scientifici e presente su tutto il globo grazie a migliaia di prodotti selezionati con cura, Pingu divenne la star-antistar di una notevole success story di matrice internazionale. Attorno agli anni 2000, ormai sempre più popolare, Pingu, avrebbe dovuto occupare addirittura il ruolo di portavoce dell’UNICEF, ma la gestione dell’insieme si fece oltremodo complicata. Basti ricordare che vari processi intentati dalla Editoy affrontavano antagonisti come la Walt Disney (utilizzo controverso del personaggio “Ping” in Mulan) o la Ferrero (che, in seguito a un primo contatto di collaborazione, scelse la strada del conflitto aperto introducendo la figura epigonale di “Pinguí”). Fatto sta che nel momento più bello e di massima visibilità, ovvero alla fine di un ciclo di ben 104 episodi, il marchio PINGU e lo studio furono venduti alla britannica HIT Entertainment, un cambiamento che segnò l’inizio della crisi del progetto. La nuova serie di 52 episodi, creata in digitale e basata su racconti poco pertinenti e privi di spessore pedagogico, non trovò più interesse presso le televisioni e i partner potenziali nel settore del merchandising. L’ulteriore passaggio a un gruppo giapponese e il confluire di ciò che rimaneva di Pingu nella celebre MATTEL non cambiarono lo stato delle cose: Pingu rimase e rimane in un limbo, pur destando tuttora in certi paesi (Giappone, Brasile) l’attenzione di un vasto pubblico, come sempre non soltanto infantile.
La nuova serie “Pingu in the City”, realizzata dalla proprietà giapponese, trasferiva il personaggio principale e il suo mondo specifico nella realtà incompatibile della grande città, evocando in questo modo una situazione ibrida e inverosimile. E anche la presenza di Pingu nello sconfinato catalogo della MATTEL non ha interrotto finora lo stato di dormiveglia (nell’ottobre scorso la MATTEL stessa annunciò un seguito delle avventure di Pingu, senza che al momento ve ne sia traccia).
La nostra piccola saga su Pingu riguarda, si dirà, e ammettiamo pure che si tratti di un fatto notevole, la storia di un cartoon televisivo che ha fatto il suo tempo ed è ora quasi dimenticato. Ricordarlo in questa sede non è un atto nostalgico: la situazione geopolitica odierna, nonché il dominio crescente della tecnologia digitale in tutti gli aspetti della nostra vita, rendono di nuovo di grande attualità i messaggi veicolati da questo piccolo personaggio. Sperare che la figurina di Pingu, che attirò milioni di spettatori, possa “rinascere” e avere attualmente un ruolo positivo non è espressione di uno sguardo passatista e pacifista, ma il risultato di una analisi accurata delle sue potenzialità.
Riprendiamo allora la nostra lettura partendo da tre concetti chiave, che illustrano le caratteristiche di critica costruttiva sedimentate nella storia di un animale capace di rammentare a noi umani chi siamo. Un primo aspetto concerne l’ambiente: Pingu vive in contesti in cui gli oggetti sono ergonomici, a portata di mano. La sfera abitativa, sempre presente anche quando l’orizzonte delle avventure polari si apre verso lo spazio aperto, è semplice, logica, ed è espressione di una razionalità pragmatica. Pingu e i suoi vivono all’interno di ambienti, dove ciò che detta legge è la necessità, non l’accumulo. La vera ricchezza sta, per lui e per i suoi compagni di gioco, nel disporre di tempo libero, di spazio libero, di possibilità spontanea di comunicare con gli altri e di sintonizzarsi con l’ambiente. Per Pingu ciò che conta è l’essere, non l’avere. La natura, anche laddove risulti dura e inospitale, è rispettata senza essere romanticizzata. La natura esperita confronta Pingu e i suoi compagni di gioco con la diversità dei fenomeni accessibili (può essere magica o terrificante), funge però anche da immensa tabula rasa, da luogo di infinite potenziali esperienze. Il fagotto che Pingu porta sulla spalla è il simbolo di questa libertà di movimento e delle innumerevoli strade percorribili. Nell’universo di Pingu la tecnica non è assente: nell’iglù c’è l’elettricità, non manca né la lavatrice, né il frigorifero e neppure il giradischi, mentre fuori si circola su mezzi di trasporto elettrici. La tecnica è però sempre al servizio degli animali umanizzati e non il contrario. Lo stesso vale per il piccolo villaggio, dove il perimetro abitativo appartiene a una sfera più vasta che comprende la scuola, la posta, il negozietto, il tutto all’interno di una natura che abbraccia l’insieme.

Il secondo pilastro concettuale dell’universo di Pingu è rappresentato dall’importanza di un mondo condiviso. La co-presenza del prossimo sottolinea la priorità assoluta di un modello relazionale, in cui anche la figura centrale evolve soltanto nel contatto continuo con gli altri. Pingu è, come ognuno di noi, il centro assoluto del suo mondo, un mondo nel quale lui sta bene anche quando è da solo. Per crescere, per imparare, per godere di ciò che esperisce, ha però bisogno di condividere spazio e tempo con gli amici. Pingu non è un supereroe; è imperfetto e spesso esitante, appare piuttosto come un anti-eroe dalla lenta “maturazione”, fenomeno che include anche le avversità e le sconfitte.
Il fatto che il mestiere del padre di Pingu sia il portalettere della piccola comunità non è casuale: trasportando messaggi e merci, il pinguino-postino collega le persone garantendo la comunicazione necessaria alla buona convivenza. Anche la comunicazione non-verbale dei personaggi punta in questa direzione: il modo pre-verbale di scambiare informazioni con gli altri passa più per il buonsenso che per la razionalità della coscienza intenzionale, esiste quindi un modo istintivo di convivere in armonia.
Nelle storie di Pingu, la famiglia, papà, mamma e la sorellina Pinga ̶ è un elemento fondamentale. Ciononostante questa famiglia nucleare si allarga nel tempo, accogliendo amici, sconosciuti, stranieri, e funziona sempre su una base inclusiva. Al classico modello divisivo, onnipresente nelle fiabe, nei comics, nei fumetti, alla Weltanschauung basata sul divario tra buoni e cattivi, pinguini e non-pinguini (l’universalità del personaggio esclude il nazionalismo, l’identità etnica sovranista), Pingu oppone l’utopia di una società aperta.
Il terzo concetto decisivo della filosofia di Pingu, il modo di affrontare la violenza insita nel quotidiano, ci sembra il più significativo di tutti ed è anche quello che è purtroppo in (triste) voga. Le storie di Pingu non rinunciano alla rappresentazione della violenza, che è spesso il punto di partenza delle liti tra i personaggi per le quali però si cerca e si trova una soluzione. Incarnando la possibilità di imparare a controllare la violenza, attenuandola, Pingu si dà come antitesi esplicita della maniera dominante con cui è trattata di norma nella nostra cultura. Sarebbe necessaria una corposa analisi comparatistica per dimostrare il modo (costruttivo), in cui Pingu in quanto anti-modello si oppone a una tradizione che ha caratterizzato nell’animazione (come pure nei fumetti) una produzione globale impostasi tramite il diktat smisurato della violenza rappresentata. Pensiamo ai comic books e al modo in cui hanno celebrato, generazione dopo generazione, uno stile di avventure che non privilegia mai le soluzioni pacifiche; pensiamo a Tom & Jerry, che esalta durante gli anni ’40 e ’50 (non privi certo di violenza molto reale!) degli slapstick maliziosi, cattivi, cinici, una serie che trae piacere (!) dal fatto che Tom esploda, spari, sia smembrato e così via. Pensiamo a Looney Tunes, e la sua tipica comicità iper-aggressiva, dove i protagonisti non sono soltanto le figure pseudo-umane ma le armi, le bombe, la dinamite, ecc. Pensiamo anche a Steamboat Willie, l’incipit violentissimo di Mickey Mouse, o a Batman, che uccide allegramente. Senza parlare di un episodio di Ren & Stimpy (“Man’s Best Friend”), rifiutato addirittura dalla Nickelodeon per eccesso di violenza. Diversamente da Pingu, dove la violenza non è mai autoreferenziale e auto-generativa, la tradizione materializzata negli esempi citati, spesso assurti allo status di prodotti cult, espone e amplifica la violenza, come se proprio questo fenomeno su tutti caratterizzasse l’essere umano in quanto tale. Per tenere presenti i danni psicologici della detta tradizione basterebbe ricordare il giudizio severo di Platone su ciò che riguarda l’utilizzo della finzione e, diremmo, a fortiori di quella violenta, che non può che generare a sua volta violenza. Oppure le parole di René Girard, il quale analizzava (in La violenza e il sacro) il terribile potenziale mimetico del fenomeno, cioè la sua propagazione inarrestabile in un contesto culturale incapace di controllarlo.
Umberto Eco ha sottolineato (in Apocalittici e integrati) che la maggior parte dei fumetti risultava da una posizione autoriale debole (chi elaborava le opere era scarsamente cosciente di quanto andava realizzando) e che anche gli utenti, in generale, non operavano una ricezione abbastanza critica lasciandosi incantare da altri fattori. Il caso Pingu è anche in questo contesto esemplare: gli autori e i collaboratori svilupparono ogni singolo episodio ponderando sia il versante narrativo sia l’estetica del prodotto finale; piccoli e grandi scoprendo man mano le sue avventure imparavano come muoversi in un mondo sempre più complicato e si divertivano insieme!
