Una carezza alla nuca di Kafka 

21 Dicembre 2022

Nel 1938, in piena età oscura, nel tempo del terrore nazista, un filosofo e scrittore ceco di lingua tedesca, Felix Weltsch, prende a sfogliare i diari, lo spirito quindi, del suo grande amico, Franz Kafka. Questo sembra fare, ma forse non in perfetta solitudine: difatti lo muove una presenza altra, che viene dal nostro tempo e che legge essa stessa i diari, in un giorno di febbraio del 2022. Nella notte stessa fa un sogno: il suo corpo sembra prendere le fattezze proprio di Weltsch e anche gli occhi, che scorrono le pagine autografe dattiloscritte da Kafka, tra il 1910 e il 1923. Così Marco Ercolani acuto scrittore e psichiatra, in modo del tutto originale prende l’abbrivio per scrivere L’età della ferita (medusa, 2022); libro sorprendente, poiché suggerisce nuove vie di lettura dei diari, proprio perché arricchite dal tempo sempre prezioso dell’inconscio.

Lo stesso autore in premessa difatti afferma: “Non appena sveglio, fu naturale tradurre quel sogno in un piccolo libro, in questo libro”. E non sapremo mai chi prevalga davvero tra Weltsch e Ercolani, nei testi che in ogni pagina accompagnano e talvolta ampliano verso direzioni inaspettate i frammenti. Perché davvero il sogno, di cui l’autore è stato protagonista, sempre è profonda regressione del sé, tanto che in esso non si è più uno ma pezzettini di identità altre, che entrano nella psiche del sognante, medium inconsapevole di verità quasi a lui stesso inconoscibili.

Ecco perché le riflessioni che seguono i diari in ogni pagina non hanno mai la posa di commenti didascalici, glosse ma davvero paiono visioni che ampliano quelle dello stesso Kafka. Certo è chiara, nelle pagine, l’intimità che il genio boemo ha col sogno, quelle apparizioni così spoglie che svolazzano in esso, quel loro vagare senza appiglio nella casualità del vivere e morire. Nessun dio, ci fa intendere Ercolani, carezza la nuca di Kafka, consola le sue depressioni, la sua tristizia, intesa come soglia ultima che va oltre ogni noia. E certe sue affermazioni apodittiche e sibilline, eccole divenire stigma valevole per quel momento ma anche per gli altri che verranno.

Difatti la guerra della Germania ai russi di cui fa cenno lo scrittore in un frammento datato 1914, non ha forse la stessa carica di quella scatenata nel 1938 dai nazisti alla Cecoslovacchia e vissuta dallo stesso Weltsch, che se ne andrà un anno dopo da Praga con l’amico di entrambi, Max Brod. E le righe di Kafka a sua volta riprese poi da Weltsch, non allungano forse una cupa ombra sui nostri giorni?: “…Kafka era inorridito dalla massa urlante di persone che si sparpagliava nelle strade, con quella dannata gendarmeria a cavallo che le attaccava a baionette basse, per ferire e mutilare. «L’eroismo è, comunque, restare.» Bisbigliava ma scuoteva la testa. «Io resto ma non sono un eroe.

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Non posso fare altro che restare! Non posso fare altro. Ma posso fumare… Dicono che Adolf Hitler lo detesti. Un motivo in più per fumare ora non trovi?»”. L’età della ferita è quindi un libro di propagazione di pensieri, che partono da Kafka e vagando poi in identità altre, non diluiscono il proprio senso, anzi lo rafforzano, assumendo una evidenza abissale. Ercolani riprende i tanti tempi dello spirito, condensati nello scrittore boemo che naturalmente, come in ogni grande genio, non sono mai a compartimento stagno; tutto in lui difatti gioca con tutto e si fa paradosso.

Gli abissi indicibili della sua interiorità si mischiano a quel suo riso talvolta senza senso, che l’autore fa affiorare più volte nel corso del libro, definendolo “sgangherato” e che, come una lama, squarcia il tempo del silenzio tanto caro allo scrittore, come spazio della costruzione linguistica ma anche della sua continua dissoluzione. Difatti egli, ci fa intendere Ercolani nei suoi tanti abbrivi a questi diari, è al tempo abissale ed enigmatico: nessuna speranza, nessuna remissione in meglio della vita, intesa sempre e solo come eterno debito, eterna colpa.

Scrittura quasi organica, che reclama a sé il corpo dello scrittore, allontanandolo da tutte le sue altre capacità ma anche nel suo farsi, momento di lontananza dolorosa dall’altro, che non riuscirà mai ad intendere il tempo della condanna che lo abita, condanna ruvida e disperata, abbiamo già ricordato, senza alcuna escatologia almeno a sorreggerla: “Kafka sapeva che nessuno dei suoi amici, anche il più intimo, era all’altezza della sua vita interiore. Si sentiva predestinato a vivere i suoi incubi come la sola realtà che gli fosse stata concessa, perché nessun’altra era concepibile… Ma era sempre sulla soglia di qualcosa, verso cui si rifiutava di andare e alla quale si rifiutava di dare un nome…”.

Tutto questo Ercolani coglie, attraverso Weltsch, nei diari del grande scrittore che vive talvolta gioendo per le piccole cose, consapevole però del malum mundi, inafferrabile nelle sue origini, oggi, come ieri. E il tempo onirico dell’autore si lega naturalmente a quello dello stesso Kafka, così fondamentale per lui in ogni elaborazione linguistica e strettamente legato anche al momento successivo, quello della sua insonnia così duratura, detta a ragione nel libro “catacombale”, quindi deprivante di ogni forza e certezza.

Lo stato prolungato di veglia è appunto sintomo chiaro dell’abdicazione dello scrittore alle magnifiche sorti e progressive, per scendere finalmente negli abissi della sotto vita sciolta da ogni lacciolo lavorativo e temporale. Anche la tisi certo, fardello pesante e doloroso, lo approssimò sempre più al limbo del nulla, per l’impossibilità di portare avanti la sua ragione di vita: la scrittura. Ecco, vediamo confluire nello scrittore le tante elaborazioni di un vissuto personale e collettivo ma anche i molti disarcionamenti dalla sella del reale: “… Di questo frammento metterei in evidenza solo le parole “atleta leggero”, che ci restituiscono un Franz sorridente, muscolare, vivissimo, beffardo.

Ricordo una delle sue frasi più sibilline: «Caro amico, e se tutto fosse sempre e soltanto un segreto?»”. E lo scorgo davvero, l’invisibile filo che corre tra Marco Ercolani e Weltsch che ci apre anch’egli in qualche modo il tempio intimo e struggente dell’amico Kafka, che a sua volta mirabilmente accompagnato dalle due voci anzidette, ci parla di cose abissali ma al tempo stesso leggere e perdute; quasi anch’esse retrocedendo e retrocedendo, tornano ad essere proiezione assoluta di ogni futuro che verrà.

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