Roberto Deidier: captare il reale

9 Novembre 2025

L’ultimo libro di Roberto Deidier, entrato nella dozzina del premio Strega 2025, ha un titolo quasi fiabesco, quasi noir, Quest’anno il lupo fissa negli occhi l’uomo (Molesini Editore, 2025, con saggio prefatorio di Marco Carmello). L’autore ci dice di averlo “rubato” alla scrittrice Anna Maria Ortese, dal suo racconto breve Casa di bambola. E già potrei affermare, prendendo spunto da queste parole, che da sempre Deidier ha intrecciato nei suoi versi, le vite della letteratura e ancor più dell’arte, con quelle della quotidianità. Le poesie qui contenute si trovavano disperse in riviste, antologie, libri d’arte; nella parte finale della raccolta, per esempio, voglio ricordare una silloge dal titolo quasi sibillino: La volpe, il cinghiale, il serpente, lo scoiattolo, già apparsa nel 2022 presso le edizioni d’arte Il Bulino, con dedica alla grande artista visiva Giulia Napoleone.

Frammenti poetici, quindi, continua Deidier, “che non hanno trovato posto nel disegno dei libri precedenti”. Ma questo naturalmente non vuol dire che componimenti anche d’occasione non abbiano un disegno sotteso; anzi, direi che tra le pagine affiora un lungo ed irto paesaggio esistenziale che l’autore disegna per quadri, dimensioni interiori, non certo per cronologie che sì, sono pure presenti sullo sfondo, ma è come se venissero riassorbite in un tempo più ampio, quello dello spirito: “Salgono ombre dal fondo dei castagni,/S’ispessiscono nei blu di mezzo agosto/E dicono prossima la fine dell’estate:/Avanza il lungo pomeriggio,/La luce raddoppia gli alberi sul prato,/L’ora di ieri è solo un vento leggero/Caldo ancora di allegrie, resta/Nell’aria il volteggiare di una carta/…”. E le abitazioni, le stanze meglio ancora, in questo libro, giocano un ruolo rilevante poiché esse, con le loro finestre, sono occhi che osservano il via vai dei commerci, delle strade, la mesta allegoria lavorativa di ognuno di noi ma al contempo si aprono ai colori del mondo. Un andirivieni di riflessi, che escono ed entrano, fluttuazioni passeggere, che prendono le forme di un passato remoto e poi magari di un futuro che verrà. 

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Dalle stanze fanno capolino anche le albe, che rendono così chiari i propositi e poi, ecco entrarvi il sipario metafisico della notte: “…//Quante volte ci hanno detto che la notte/Porta il giusto consiglio, ottunde/I contorni del visibile, abbandona/Nel suo nulla apparente la materia,/Risveglia e spegne sogni dialogati/Che si sciolgono ai primi chiarori:/Innocenza del sonno, quando nutre/pensieri opachi./...”. In Deidier, captare il passato, vuole dire anche approssimarsi verso un futuro prossimo e darsi ad esso con passione, anche nella sua inafferrabilità. E captare il passato, per approssimarsi a ciò che verrà, vuol dire pure per l’autore, operare una riflessione sul senso della lingua, in particolar modo quella poetica, che altro non è se non un collettore privilegiato di tempi interparlanti ma anche di voci della grande tradizione popolare italiana, in questo caso napoletana, che quasi col loro suono consegnato al senso non hanno bisogno di traduzione ma di puro ascolto: “Si chiove o si nun chiove è ’o stesso cielo:/Miracule, dulure, gioie sparse,/Fanga c’alluca e chiagne ’nt’o mistero// ’E chiste journe amare, senza ciorta./Trasite, è chesta ’a strada, e nun c’è scorta”. E cosa sono poi per l’autore i quadri del pittore realista novecentesco Antonio Donghi, o la scultura di Rodin, “Porta dell’inferno”, se non ancora stanze ove l’uomo è immerso nei suoi pensamenti e dove è condensato il senso precario e tragico che irrimediabilmente lo avvolge? 

Nel teatro delle stanze insomma, ecco la curva dei giorni farsi e disfarsi ma anche i ragionamenti di chi vi soggiorna, sembrano assumere quel circolo di nascita e sfinimento continuo. Ed allora l’individuo di Deidier, è sempre sospeso tra la vitalità di un momento e la parte ombrosa della sua fine, l’euforia di un giorno particolare e quel suo lento sfarinarsi. Nel libro quindi, c’è questa grande osservazione dell’elemento naturale, al modo dei grandi poeti della classicità greco-latina, ma anche la natura sembra guardare. Chissà quel lupo che fissa negli occhi l’uomo, cosa vedrà dell’uomo stesso; forse la vera tenebra lupesca e forse per questo se ne va. 

Ecco vivere il reale per Deidier, è sempre misurarsi con la sua complessità, che prende magari le forme di un quadro, di un animale incontrato casualmente nella macchia, di un amore sfumato o di una figura lontana, che ricompare per un attimo sul giaciglio di un letto: “…//Il rosa della prima luce/S’insinuò tra le persiane, restituì/Alla stanza le sue misure di sempre,/Le abitudini, i doveri./Apparve così, china nell’indecisione/Del dormiveglia, sul bordo del letto/Solo per dirgli che ce l’avrebbe fatta./…”. Captare il reale quindi stupendosene in ogni momento, vuol dire davvero esserci. E l’autore, in questo esile libro, aduna le sparse poesie di tempi lontani, le ricuce una ad una, col filo di una sapienza remota; sembrano difatti questi versi, quando guardano il mondo, avere una visione delle cose dell’origine. Già, le cose, anche complesse sembrano spogliate di tutti gli inutili orpelli e ridotte all’essenziale, come sorrette da quello sguardo dell’inizio, lo sguardo dei primi filosofi della vita: “…//Così di farla franca va in attesa/ Il cuore e sceglie tra i ricordi,/Cuce strappi nella tela del corpo,/…/Cammina fra le ombre e i brandelli/Delle vite trascorse/e le bagna di un battesimo ingannevole.//…”.

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