Il digiunatore di Kafka illustrato da T. Pericoli

25 Settembre 2022

Tullio Pericoli cos’è e cos’è stato nella sua memorabile vita d’artista, se non uno dei più grandi disegnatori della psicologia umana, non importa poi che questa affiorasse nella ritrattistica dei tanti intellettuali che finirono dietro il suo segno o in quel paesaggio, oserei dire incantato delle colline marchigiane. Sì perché anche dietro quelle linee terrose sul confine dei cieli, che l’artista è andato facendo e rifacendo per decenni, fanno capolino le tante rivoluzioni antropologiche, i tanti sommovimenti sismici di un luogo così definito e al tempo stesso, così leopardianamente indefinito.

E quanto parla la sua crosta dai colori magmatici che sembra disegnare negli smottamenti e pendii calancosi, la malinconia, l’allegria, l’oscurità dell’uomo di ogni tempo. Così certo, non poteva sfuggire a Pericoli, anzitutto per contiguità di pensiero, l’iterazione attraverso suoi disegni fronte pagina, con questo gran racconto di Kafka scritto nel 1922, due anni prima della sua morte, dal titolo Un digiunatore, ora appunto ripubblicato (Adelphi, 2022) e così capace di alimentare, come d’altronde tutta la sua opera, visioni che riportano anch’esse a una psicologia, una intimità sottesa, pronta ad affiorare e ammonirci sull’ambiguità complessa della vita e sullo scacco finale che sempre l’uomo ne subisce.

La storia del libretto è quella appunto di un digiunatore, figura esemplare dei primi anni del novecento, con la sua arte di non mangiare per intrattenere e stupire il pubblico. E allora l’idea originalissima di Pericoli appunto, è stata quella di misurarsi con questo scritto, ripassandone la trama con sue figure che ci vengono incontro nelle pagine: oblunghe, smilze, talvolta piegate, sospese in precari equilibri tra spazio e volumi, con braccia lunghe su mani aperte, flessuose, richiedenti sembra comprensione ai tanti curiosi. Gli sfondi sono quelli circensi, colorati di intrattenimenti effimeri e gabbie, dove l’uomo magrissimo e malinconico deve vivere, guardato a vista dai sorveglianti.

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E la veduta di Pericoli è stata davvero prodigiosa, perché l’esile omino, già prima di questo racconto, fu oggetto dei disegni che lo stesso Kafka abbozzava a margine dei suoi appunti durante le lezioni di giurisprudenza; e forse qui possiamo intuire uno dei tanti compimenti in scrittura di quelle figurine disperate dello scrittore, piene del mal del secolo che stava montando, con la sempre più completa incomunicabilità tra l’io e gli apparati collettivi. Ma Pericoli fa in questo libro di più ed ancora, perché il suo uomo, scarno ed essenziale, richiama anche le grandi sculture di Giacometti, della serie L’Homme qui marche, che alludente già nel titolo, alla marcia in solitaria del singolo verso il signor nulla; ritorna allora in queste figurazioni anche l’uomo giacomettiano così puramente esistenzialista, consapevole che tutto ciò che lo circonda, non può essere assunto perché corollario, intrattenimento, velo, che distoglie dalla cruda verità così imbarazzante per gli uomini dalle sorti progressive.

E il cerchio di questo aureo libretto allora si chiude: le pure figure di Tullio Pericoli, magrissime acrobate dell’aria, annerite, talvolta accese da tenui pastelli, hanno in sé quelle smilze di Kafka disegnatore, ripiegate nella loro psicologia del profondo ma anche le sculture diafane e spigolose dell’immenso svizzero. Ecco la forza di Pericoli allora: fare da medium, a due grandi del novecento, tracciando nuove prospettive e vie per la sua e la loro arte; difatti egli scrive nel resoconto finale: “…Ho avuto bisogno di sentire sulla mia spalla destra la mano protettiva di un artista, Giacometti appunto, per prendere coraggio e provare a dare una forma mia al racconto di Kafka e allo stesso tempo permettere ai due grandi di incontrarsi...”.

Vero permettere ai due di incontrarsi ma appunto solo costui poteva misurarsi nell’impresa, proprio perché contiguo al loro pensiero. Tullio Pericoli da sempre, come pochi nei suoi paesaggi-mondo, nei visi, sa arrivare a quel punto veridico dell’arte che è oltre ogni segno, parola o tratto che sia, riempiendoci di quello stupore che parla dell’uomo e del suo ontologico silenzio, anche in questa epoca potenziata dal tanto multiforme vociare. Ecco perché questo grande artista, può risiedere legittimamente in Kafka, in Giacometti, pensare il loro pensiero, espanderlo, espandersi.

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