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Franz Kafka, La tana

8 Luglio 2024

La tana è uno degli ultimi racconti scritti da Kafka. Viveva già a Berlino con Dora Diamant, l'unica donna (a parte sua sorella Ottla) con cui conobbe una certa serenità. Di lì a poco, meno di un anno, sarebbe morto (il 3 giugno 1924 a Kierling).

Per capire questo racconto, pubblicato postumo e incompiuto come parecchi altri testi di Franz, dobbiamo fare qualche passo indietro nel tempo.

La sera del tredici agosto del 1912, a Praga, nella Schalengasse, a casa di Max Brod, conobbe Felice Bauer. Lui aveva ventinove anni, lei quasi venticinque. Una settimana dopo, il venti agosto, Kafka annota nei suoi diari che la signorina Felice Bauer aveva l'aria di una domestica; il suo viso era ossuto e vuoto, un vuoto mostrato apertamente; la sua camicetta era trascurata; il naso quasi rotto, come quello dei pugili; i capelli senza attrattiva, il mento robusto. Quando sorrideva esibiva folgoranti denti d'oro che costringevano quasi a fissarla. Nonostante questa descrizione non certo lusinghiera, egli fu travolto dall'amore per questa apparentemente insignificante impiegata berlinese, e la travolse a sua volta di lettere, centinaia, che le spedì per circa cinque anni, quanto durò il loro fidanzamento, tra rotture e riprese.

Una in particolare è quella che ci interessa, in relazione al racconto di cui stiamo parlando. È stata scritta tra il quattordici e il quindici gennaio del 1913, più o meno all'inizio quindi di questa lunga relazione epistolare. In essa Franz dice che non si può essere mai abbastanza soli quando si scrive. Non si può avere intorno a sé mai abbastanza silenzio. La notte è ancora troppo poco notte. Il tempo a disposizione non è mai sufficiente. Lui, per sé, ha immaginato comunque quale sarebbe il tenore di vita più consono. Vorrebbe vivere nel locale più interno di una cantina, vasta e chiusa. Non gli servirebbe nient'altro che l'occorrente per scrivere e una lampada. Qualcuno (senza ulteriore specificazione, ma è probabile che alluda proprio a Felice) dovrebbe portargli ogni tanto del cibo. Che dovrebbe semplicemente esser posato lontano dal locale dove vive, dietro alla più lontana porta della cantina. La passeggiata dalla scrivania al vassoio con il pasto sarebbe la sua unica passeggiata, da eseguire in veste da camera, e poi subito di nuovo alla scrivania, a scrivere, non appena consumato il frugale desinare. Chi sa quali cose scriverei, fantastica Franz, da quali profondità sorgerebbero! E tutto senza sforzo, perché lì, chiuso in quella remota cantina, la concentrazione sarebbe di necessità estrema, e la concentrazione estrema non sa cosa sia lo sforzo, non lo immagina neppure. Anche lì, però, aggiunge, potrebbe essere in agguato il fallimento, la pazzia. È lo stesso: si tratterebbe comunque di un fallimento grandioso, un folle ed immenso naufragio creativo.

Veniamo ora al racconto di dieci anni dopo, La tana.

Il protagonista, che parla in prima persona (fatto insolito in Kafka), è un animale non meglio identificato. Si è ipotizzato via via che fosse una talpa, un criceto, un tasso, un topo gigante. Ma non ha molto senso cercare di definirlo più precisamente. Analogamente il famoso insetto della Metamorfosi è designato in modo generico come Ungeziefer, ossia “insetto infestante” e non quindi uno scarafaggio vero e proprio, come di solito si dice.

Del resto, nell'opera di Kafka, gli animali abbondano. Anche lui, come Rilke, sapeva che essi sono di casa nel mondo interpretato e hanno il loro tramonto dietro di sé e davanti hanno Dio, o chi per Lui.

Ora, questa bestia non meglio precisata, si è costruita una tana. Il termine tedesco è der Bau, che significa sì “tana”, ma anche “costruzione”, “edificio”. Una magnifica, spaziosa tana sotterranea. Al centro c'è una vasta piazzaforte, munita di ogni delizia gastronomica. Da lì si dipartono una decina di gallerie; ogni cento metri le gallerie si allargano in piazzette circolari, dove l'animale misterioso può riposarsi, acciambellarsi o distendersi e lasciarsi addirittura andare esibendosi, per un pubblico inesistente, in salti e capriole di puro piacere. Ha allestito il suo rifugio con cura estrema. Ha predisposto certi particolari stratagemmi per salvaguardare l'entrata dall'ingresso di sgradevoli estranei e nemici eventuali. A volte si chiede persino se non abbia ecceduto con le astuzie: sa che ce ne sono di così sottili, di così fini e geniali che si annientano da sé. Allo stesso modo è consapevole che la troppa prudenza può paradossalmente condurre a mettere a repentaglio la propria vita, esattamente come la troppa temerarietà.

Ciò che lo incanta di più in questa tana-costruzione così ingegnosa e sicura è però il silenzio.

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La bestia sta in ascolto nel silenzio totale che lì, sotto terra, in quei cunicoli ben disposti e ordinati, regna sovrano. Immutato. Di giorno e di notte.

È un silenzio a tal punto perfetto che l'animale stesso si diverte a turbarlo, a interrompere quella pace assoluta, producendo gemiti, sospiri profondi, fruscii contro le pareti. E ridacchia pensando a come è riuscito a ingannare, con i suoi diversivi e i falsi ingressi, i suoi molti nemici immaginari, e anche quelli possibili ed eventuali.

La tana rimane silenziosa e deserta. Muta e deserta.

Tutto procede nel migliore dei modi per questo singolare animale solitario, molto fiero della sua costruzione sotterranea fasciata dal silenzio nella quale si aggira soddisfatto.

Però un triste giorno, al risveglio da un bel sonno ristoratore, esso avverte un sibilo, quasi impercettibile, che diventa poi, poco dopo, un fischio e come il soffio di un suono.

Dovunque tenda l'orecchio, in alto, in basso, alle pareti delle gallerie o al suolo, verso l'ingresso o verso le profondità più recondite, quel rumore continua.

Si sposta e il rumore gli tiene dietro. Si ferma e il rumore si ferma, per poi riprendere più intenso.

Ma chi diavolo sarà mai a produrre questo fischio o sibilo o soffio?

Forse delle bestiole più piccole. Forse l'aria che si è introdotta da una fessura. O è l'acqua. Un rivolo che viene da chissà dove e strepita nelle gallerie come dentro una conduttura o un tubo.

Oppure, ipotesi più temibile, è un nemico occulto che è riuscito a penetrare nella tana, nonostante tutto l'apparato difensivo messo in opera, e ora si avvicina, sempre di più, sempre di più, per sferrare l'attacco definitivo.

Comunque sia, addio pace! Addio silenzio!

Quanta tensione richiede l'ascolto di questo rumore intermittente!

L'animale si lancia nelle più disparate ipotesi circa questo enigmatico intruso. Tenta almeno di decifrarne il piano.

Il racconto s'interrompe.

Come interpretare questo estremo testo kafkiano?

Si sa che delle sue opere si danno le interpretazioni più svariate. Nell'oceanica bibliografia sul Nostro si trova di tutto. C'è un Kafka esistenzialista, socialista, ateo, materialista, mistico, religioso, cabbalista, surrealista, realista, freudiano, prefreudiano, postfreudiano, lacaniano, sionista, antisionista, asionista e così via.

Siccome però anche per lui vale il principio enunciato da Benjamin nella sua tesi di laurea, quella sul concetto di critica nel Romanticismo tedesco, ossia che le grandi opere hanno in sé anche la loro critica, crediamo che basti aprire il Processo nel penultimo capitolo e leggere: die Schrift ist unveränderlich, und die Meinungen sind oft nur ein Ausdruck der Verzweiflung darüber ,“lo Scritto è immutabile, e spesso le interpretazioni non sono che un riflesso della disperazione che ne deriva” (traduzione di Primo Levi).

Allora noi, di fronte alla rocciosa immutabilità dello Scritto kafkiano e alla disperazione interpretativa che ne deriva, che facciamo? Facciamo la cosa più semplice e più aborrita da molti critici. Ossia ci rifugiamo nella biografia. Sì, diamo qui un'interpretazione terra terra, piattamente biografica.

Kafka detestava i rumori. Ovunque andasse ne era letteralmente perseguitato. Casa sua era per lui “il Quartier Generale del Rumore”. Facevano chiasso il padre, la madre, le tre sorelle, la domestica, i visitatori, gli amici, i conoscenti, i parenti. Tutti non producevano ossessivamente che quello: frastuono, bailamme, caos eccetera.

Durante i suoi soggiorni lontano da Praga, alla ricerca di aria pura e serenità, si imbatteva regolarmente in disturbatori efferati della pubblica quiete. L'unico pianista dell'intera Boemia Occidentale. Battitori con pali di legno che si alternavano a battitori con pali di metallo. Violini tzigani nel cuor della notte. Acutissimi squittii di topi, testimoni della cupa eternità animale. Ogni cosa cospirava a fargli perdere il sonno o la concentrazione.

Da qui, da questa disperazione tutta concreta, nasce sia il sogno della lettera a Felice del gennaio del 1913, sia, siamo convinti, il racconto di dieci anni dopo. Kafka non riusciva ad avere la sua pace, né nella cantina né nella tana, i rumori di un mondo nemico si intrufolavano anche là, anche negli spazi dei suoi sogni e delle sue opere.

Che ciò possa indicare anche l'irreparabile inimicizia della società verso uno scrittore non di genere, verso uno che aspirava ad essere “nient'altro che letteratura”, letteratura senza aggettivi, letteratura assoluta – è un altro paio di maniche, e noi su ciò non ci pronunciamo.

In copertina, opera di Pietro Elisei.

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