Kafka, scarabocchi e disegni

24 Ottobre 2022

L’immagine, qualunque sia il mezzo tecnico con cui viene realizzata, chiama in causa un’intelligenza e un pensiero visivo, un pensare per immagini che coinvolge aree e connessioni neuronali distinte da quelle che sollecita il pensiero discorsivo e verbale o proposizionale. Questa supposta differenza è stata al centro di un acceso dibattito tra filosofi della mente, linguisti, neuroscienziati, psicologi e antropologi, scatenando molte polemiche e divisioni che si sono costituite in due schieramenti avversi. Tra i tanti protagonisti ricordiamo Paivio Allan (Imagery and verbal processes, Psychology Press New York, 1979), Stephen M. Kosslyn (Le immagini della mente, Giunti, 1989) da una parte e Pylyshyn Z. W. (What the mind’s eye rells the mind’s brain, 1973) dall’altra.

La pratica della scrittura esercitata con intensità e continuità nel tempo ha la capacità di agire sull’inconscio, nella profondità delle strutture mentali dello scrittore, spiegano gli psicoanalisti, al punto che sovente succede che siano i meccanismi stessi della scrittura a determinarne il registro linguistico oltre che condizionarne perfino la struttura narrativa, inducendolo a indirizzare, o modificare, la successione degli eventi verso esiti differenti da quelli inizialmente previsti. Nondimeno per molti scrittori l’esercizio del disegno ha travalicato il semplice passatempo o divertimento privato e ha assunto un ruolo insospettato, tale da incidere più o meno consapevolmente sullo stile letterario. In alcuni casi, poi, ha instillato più di un dubbio nella mente dello scrittore, facendolo esitare su quale dei due talenti fosse effettivamente più portato, fosse il più congeniale al suo personale modo di esprimersi.  

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Gli scrittori che hanno dato prova di possedere questo doppio talento sono numerosi, qui, per ragioni di spazio, ci limitiamo a menzionarne alcuni: Wolfgang Goethe, Victor Hugo, Günter Grass, Orhan Pamuk, Peter Handke e perfino poeti come Alfonso Gatto ed Eugenio Montale. L’autore che qui ci interessa è però un altro grande scrittore del secolo scorso, Franz Kafka, di cui soltanto pochi lettori erano a conoscenza di questa sua passione giovanile che ha continuato a praticare anche da adulto, parallelamente alla scrittura. Egli stesso si premura di ricordare, in una lettera del 11-12 febbraio del 1913 alla sua fidanzata Felice Bauer, che “una volta ero un grande disegnatore, solo che poi ho cominciato a prendere lezioni di disegno da una cattiva pittrice, e tutto il mio talento si è guastato. Pensa un po’! ” 

Quando si dice che il destino di ognuno è spesso deciso dagli incontri che si fanno. Kafka era convinto di avere un talento per il disegno e, al fine di apprenderne i fondamenti essenziali per consolidarlo, compromise il tutto andando a lezione dalla pittrice sbagliata. 

“Eppure a quel tempo, oramai anni fa, quei disegni mi hanno appagato più di qualsiasi altra cosa.” Questa confessione ci rende la misura di quanto deve essergli costata la rinuncia a questo percorso: infatti continuò comunque a disegnare, seppure con minore intensità e in una forma più liminare, riempiendo i margini appunto delle dispense universitarie, quelli delle pagine di giornali, delle lettere o compilando quaderni e blocchi di appunti.

Tuttavia nessuno ha finora ritenuto che questo corpus grafico potesse avere una qualche rilevanza sia per le sue eventuali intrinseche qualità estetiche, sia per l’importanza che la disamina di questo altro talento potesse aprire una via d’accesso ulteriore verso una più completa e autentica esegesi della poetica e dello stile letterario di questo grande scrittore.

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Molto probabilmente le ragioni di questo silenzio critico risiedono nel fatto che la quasi totalità del lascito dei disegni di Kafka, raccolti a sua insaputa dal suo amico Max Brod, è rimasta segretata per decenni, dopo la morte dello scrittore, in cassette di sicurezza bancarie e archivi personali degli eredi. Finalmente dopo lunghe vicissitudini nel 2007, a seguito della morte di Ilse Ester Hoffe, segretaria di Max Brod, che aveva ereditato il lascito, ebbe inizio una contesa giudiziaria sulla proprietà del patrimonio tra le eredi di Ester Hoffe e la Biblioteca Nazionale di Israele, che durò più di dieci anni e che suscitò clamore in tutto il mondo. La storia di queste vicissitudini è stata ricostruita in ogni passaggio da Andreas Kilcher curatore del bellissimo libro “I disegni di Kafka” appena tradotto e uscito presso le edizioni Adelphi, Milano 2022, in cui sono pubblicati tutti i disegni che non sono andati dispersi o che sono scampati alla distruzione.

Soltanto nel 2019 fu permesso alla Biblioteca Nazionale di Israele di prelevare ciò che era stato oggetto della disputa, una raccolta di circa centocinquanta disegni più vari manoscritti custoditi in quattro cassette di sicurezza dalla UBS di Zurigo, Bahnhofsstrasse, per trasportarlo a Gerusalemme.

L’insieme contiene piccoli raccoglitori e un quaderno rilegato, simile ai taccuini da disegno utilizzati dai pittori, nel quale ogni pagina contiene diversi disegni eseguiti in completa autonomia; alcuni schizzi eseguiti prevalentemente sui margini di giornali e riviste o lettere invece presentano un carattere meramente ornamentale, molti altri sono raffigurazioni di volti e caratterizzazione di singolari tipologie di personaggi. Numerosi sono quelli che nascono dal processo della scrittura, perché, come scrive lo stesso curatore del volume, si collocano in una zona intermedia tra scrittura e disegno, come nel caso del manoscritto del Processo e quello del Castello, nei quali non è facile ravvisare in modo distinto il confine di separazione tra le due pratiche. 

Questa annotazione ci porta a prendere in considerazione che per lo scrittore boemo sussiste un preciso nesso tra il suo modo di scrivere e quello di disegnare, in quanto rispondono a principi analoghi e concorrono a formare una visione poetica unitaria. Come nelle sue opere letterarie anche nei suoi disegni Kafka è uno scrupoloso realista e nel contempo il creatore di mondi fantastici. Queste due vene, secondo Max Brod, confluiscono in modo misterioso, incarnate in una linea che si smaterializza per rispondere completamente alle intrinseche vocazioni grafiche del segno: la fluidità della forma di un uomo in corsa; la goffa pomposità di un abito femminile; la consunta figurina di un uomo ridotta ad una snodabile silhouette nera o la metamorfica combinazione di forme oniriche attraversano liberamente i territori del realismo e quelli del surrealismo, convenzionalmente distanti tra loro. 

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Questo modo di disegnare è il perfetto equivalente di un modo di scrivere in cui non si ha cura di descrivere in modo completo e realistico i personaggi, né ci si premura di esporre con certezza il loro mondo interiore, che, seppure dettagliato, rimane indefinito. 

Di questa trasfigurazione ed estremizzazione delle forme fenomeniche raffigurate nei disegni e in modo analogo descritte nei racconti si sofferma il testo di Ginevra Quadrio Curzio Scarabocchi. I disegni di Franz Kafka. (ed. La Coda di Paglia, Milano 2021). Ciò che sembra interessare a Kafka è più che altro il movimento che i suoi personaggi compiono e le deformazioni che i loro corpi subiscono nel compiere una camminata impettita, quando correndo proiettano in avanti la loro parte superiore, oppure si piegano in due sulla schiena di un cavallo in corsa. 

Tuttavia il tema che sembra particolarmente interessare lo scrittore e che emerge in modo saliente in quasi tutti i suoi disegni è lo studio della postura: il mettere in risalto il modo in cui le persone si atteggiano quando conversano, salutano, bevono, stanno sedute nei differenti ambienti. Questo è un tipo di disegno che nasce da un gesto spontaneo, la cui caratteristica essenziale è l’esecuzione da schizzo veloce, finalizzato alla registrazione istantanea di un gesto, alla resa efficace e sintetica del suo dinamismo, visualizzato con una linea estremamente sintetica, che necessariamente sorvola sui dettagli dell’abbigliamento e sui particolari anatomici. Dove Kafka rivela uno spiccato talento grafico, sostenuto dal possesso di più che apprezzabili qualità grafiche, è indubbiamente nella serie dei ritratti e dei disegni di volti, dove sorprende la sicurezza con cui è stata colta la fisionomia di ciascun volto.

Qui si evidenzia una sicura gestione della variazione e dell’intensificazione dei tratti grafici, utilizzati in alcuni casi per evidenziare i tratti somatici e in altri per accennare un chiaroscuro finalizzato alla distinzione delle parti del viso illuminate rispetto a quelle in ombra. 

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Nonostante la tendenza a distruggere sia le sue opere letterarie, sia i suoi disegni, gran parte di questi devono la loro esistenza unicamente al consapevole tradimento delle raccomandazioni che Kafka dispensava al suo amico Brod, che se li faceva regalare o li raccoglieva di nascosto dal cestino della carta straccia per impedirne la distruzione. Egli infatti considera motivo di grande rammarico il fatto che Kafka non abbia dato più spazio e tempo alle sue doti di disegnatore, giacché ci avrebbe consegnato delle opere di indubbia originalità.

Nei suoi ultimi due anni di vita Kafka scrisse quattro brevi racconti sulla vita di quattro “artisti” molto singolari (Primo dolore; Una donnina; Un artista del digiuno; e Josefine la cantante o il popolo dei topi ) che decise, con la solita riluttanza, di mettere insieme e pubblicare in un solo volume, in quanto componevano una paradigmatica meditazione su che cos’è l’arte e su cosa significhi dedicarsi all’arte. Il racconto Un artista del digiuno è una potente metafora sulla capacità che ha l’arte di imporsi come unica ragione per la quale vale la pena di vivere, anche se, paradossalmente, questa scelta conduce alla morte. Il digiunare è una forma d’arte che impone all’artista di impiegare il suo corpo come mezzo e come opera da esibire. Per le problematiche che pone il racconto anticipa sorprendentemente di mezzo secolo la forma della performance d’arte della seconda metà del secolo scorso.

Con l’intuito e la sensibilità precipua di un artista, scrittore e disegnatore, Tullio Pericoli intuisce che i disegni di Kafka richiamano, per simbiosi stilistica e poetica, le sculture e i disegni di Alberto Giacometti. A questa intuizione si deve la sua recente pubblicazione Un digiunatore di Franz Kafka, (Adelphi, Milano 2022) nella quale sogna che Kafka incontri Giacometti, inverando, con la sua immaginazione poetica, una sovrapposizione e/o identificazione del loro singolare modo di vedere e di disegnare. 

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La conferma di quanto questa intuizione sia fondatamente rivelatrice e meritevole di ulteriori approfondimenti, si riscontra in un sorprendente autoritratto di Kafka, eseguito a matita con un tratto sciolto e opportunamente ripetuto con differenti pressioni e orientamenti ma sempre funzionali a sagomare la forma affilata del setto nasale e l’aguzza fisionomia del mento e della forma del volto, oppure a tratteggiare la compattezza dell’oscura capigliatura. Ciò che meraviglia di più in questo disegno, oltre la sua comunque incredibile somiglianza, è la limpida espressione dello sguardo, raffigurato frontalmente, nella profondità del quale lo scrittore ha visto e restituito con sconvolgente acutezza introspettiva l’indicibile e malinconica inquietudine della sua anima. 

Lo stupore che suscita a uno sguardo più attento all’aspetto grafico, aumenta con crescente incredulità nel constatare che per la qualità del suo ductus grafico potrebbe averlo disegnato sia Pericoli, sia Giacometti.

Pericoli disegna le figure di Kafka come le avrebbe disegnate Giacometti, oppure disegna le sue figure mediate dallo sguardo incrociato di Giacometti e Kafka?  

In realtà con i suoi originali disegni, esposti dal 19 ottobre al 19 novembre alla “Galleria Annamaria Consadori” di Milano, Pericoli realizza una concrezione grafica di questa consonanza poetica, incarnando nel suo tratto la metamorfica consunzione dell’esistenza umana, che Kafka con la scrittura e Giacometti con la scultura hanno reso universale. Vivere per l’arte è una forma di digiuno, implica condurre un’esistenza al limite, in cui il corpo vivente accetta di ridursi al minimo della consistenza materica, ad esiziale presenza, ad impalpabile figura d’ombra, a un rigolo di inchiostro nero.

Per quale motivo uno scrittore che per principio è portato a considerare le parole, o più propriamente la scrittura, la forma di espressione più potente e più rispondente alla sua personalità, nonché più efficace per comunicare quello che gli preme dal profondo della sua psiche, spesso ricorre anche a una forma di espressione apparentemente molto diversa, come il disegno o perfino la pittura più in generale?

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Cosa comunicano le immagini che alle parole risulta indicibile? 

Ciò che in un’immagine appare immediatamente evidente e discernibile come la forma di un riflesso sulla superficie di una porcellana, la profondità restituita dalle trasparenze dell’acqua, la forma di una nuvola o quella di un’onda, uno sguardo assediato dalla paura per restituirli a parole richiederebbe una lunga serie di descrizioni, glosse, precisazioni, determinazioni, senza tuttavia averne eguagliato la chiarezza e la completezza. Di questo limite anche Kafka sembra essere consapevole e lo esplicita in una lettera del 11-12 febbraio inviata alla sua fidanzata Felice Bauer, nella quale racconta un sogno in cui lui e lei camminavano uno vicino all’altro, una vicinanza definibile a parole con il termine “a braccetto”, che però non risponde appieno a quello che intende lo scrittore: “Ah, mio Dio, com’è difficile descrivere sulla carta l’espediente che ho escogitato per non darti il braccio, per non attirare l’attenzione e tuttavia camminare tenendomi stretto a te. … Come faccio a descrivere il modo in cui camminavamo nel mio sogno? Aspetta, te lo disegno. A braccetto è così (disegno). Noi invece camminavamo così (disegno)”.

Nondimeno la parola può vantare una sua peculiare evocazione ecfrastica, fungere da stimolo o motore che innesta nella mente del lettore un’essenziale attività immaginativa, una soggettiva rêverie, mediante le quali visualizza nella sua mente ciò che non riuscirebbe a vedere con gli occhi fisiologici. Molti scrittori predispongono a tal fine la tessitura delle parole come una ragnatela allo scopo di attirare e catturare al suo interno l’attenzione e lo sguardo interiore del lettore. 

È molto probabile che a questa fondamentale funzione di evocazione visiva della parola pensasse Kafka, quando si oppose decisamente all’idea dell’editore Kurt Wolff di far stampare sulla copertina del racconto La Metamorfosi l’immagine dell’insetto Gregor Samsa. La sua esperienza da disegnatore gli aveva permesso di capire che una qualsiasi immagine di insetto si sarebbe cristallizzata nell’immaginario soggettivo del lettore, impedendogli così di immaginarsene uno più personale. In breve avrebbe disinnescato il suo processo immaginativo e di conseguenza frenato, se non proprio mortificato, anche il suo coinvolgimento nella lettura. Ciascun lettore pescando nel proprio immaginario personale gli elementi figurativi che daranno corpo all’immagine dell’insetto avverte la gratificazione psicologica di avere, in un qualche modo, contribuito in modo attivo alla costruzione del racconto. 

Ciò che rende memorabile un’opera letteraria si misura anche nella capacità di far vedere con le parole ciò che gli occhi non possono guardare (ciò che è invisibile agli occhi), di contro però ciò che rende grande un pittore si misura anche nella sua capacità di raffigurare in immagine ciò che la parola non riesce a dire (far vedere l’inaudito, l’indicibile). Questo ci dimostra che, al di là del mero artificio retorico, tanto l’impresa dello scrittore, quanto quella del disegnatore e quella del lettore, ancorché in modalità differenti, sortiscono rispettivamente in esiti positivi giacché, fondamentalmente, l’attività di ognuno di essi attinge da un patrimonio condiviso di risorse approntate costantemente dal loro pensiero visivo. Il pensare per immagini, come già affermava Aristotele e successivamente teorizzò G. Battista Vico, costituisce il primario fondamento cognitivo della specie umana. Gran parte di quello che l’uomo dice e compone in scritture fa riferimento alla sua esperienza e memoria visiva: sia sul piano ontogenetico sia su quello filogenetico, l’uomo prima vede, poi parla; prima disegna e molto tempo dopo scrive. 

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