Corpi fotografici e identità mutanti / Bill Brandt e Francesca Woodman

20 Maggio 2013

Un modo di guardare, due fotografie leggermente diverse: si veda un'immagine dal primo libro di Bill Brandt (1904-1983) Perspective of Nudes (1961) e una della serie On Being an Angel (1977) di Francesca Woodman (1958-1981). Foto in interno, un bianco e nero esasperato, profondità di campo accentuata – un primo piano e uno sfondo – macchina orientata diagonalmente rispetto alla stanza in modo da contenere nel mirino l'angolo in cui le pareti si incontrano. In mezzo, quasi vent'anni di differenza, contesti storico-geografici completamente distanti, età e sesso opposti. Per non lavorare esclusivamente su delle coincidenze, si provi ad analizzare ancora una location esterna, come i nudi in spiaggia di Brandt (1979) e i primi nudi all'aperto di Woodman (1976): corpi non adagiati, stesi, quanto immersi e fusi nell'ambiente.

Bill Brandt

 

Francesca Woodman

Il gioco delle differenze biografiche e delle somiglianze artistiche potrebbe continuare ben oltre: quasi pleonastico indulgere dunque sulle storie dei due artisti, uno con una carriera fotografica di quasi mezzo secolo e l'altra con appena meno di dieci anni intercorsi dal suo primo scatto in età preadolescente alla sua repentina scomparsa appena ventenne. Dal punto di vista bibliografico, Bill Brandt è quasi assente in Italia rispetto a Woodman, ma, da qualche mese, è arrivato nelle librerie italiane Brandt Nudes (Thames & Hudson Londra 2012), un volume che raccoglie i due libri fotografici pubblicati dall'artista in vita, il sopracitato Perspective of Nudes e Bill Brandt: Nudes 1945-1980 (1980). Provando a superare lo scoglio spazio-temporale rivolgendosi esclusivamente alle immagini, dalla coppia Brandt/Woodman emerge una contiguità visiva che delinea uno sguardo ben preciso con cui la fotografia sembra dover istintivamente esprimersi e ri-esprimersi, anche a distanza di anni, come un problema algebrico ripetutamente affrontato da più generazioni di matematici, come scoprire la forma attraverso la deformazione: entrambi i fotografi possiedono il senso della concretezza della materia nello spazio, una concretezza talvolta talmente esasperata da trasformarsi in evento astratto. Ed ecco allora che si ripete il gioco creativo della fotografia, delle sue immense possibilità formali, oggetti e corpi demistificati fino a perdere la comprensione di ciò che appare nell'immagine; ed ecco la medesima, reiterata esperienza di una continua perdita di nomi e di definizioni da parte di ciò che sta nella fotografia e non più nella realtà.

Sono immagini di cui bisogna ricostruire la coerenza: l'oggetto è nascosto, o frammentato, deformato, raddoppiato – con uso di specchi o immagini fotografiche all'interno della stessa fotografia. Se Francesca Woodman sperimenta il movimento sfocando e agendo volontariamente sulla figura, Bill Brandt è invece immobile, di modo che nulla accade, si sviluppa o si dilata nelle linee chiaro scure ma semplicemente rimane. Peraltro egli non ha bisogno, come nel caso della fotografa americana, di staccarsi anche dalla propria immagine e identità poiché il suo sguardo non comprende l'esperienza dell'autoritratto. Quelle di Brandt sono tutte modelle in posa statica orientate secondo un punto di vista naturalmente oggettivo e impersonale – laddove Woodman deve invece distruggere anche la propria figura per ricostruirla del tutto diversa in fotografia. Non a caso Brandt nomina tutti i suoi lavori come Nudes, Nudi, con una specifica definizione umana, mentre nella gran parte delle immagini di Francesca manca perfino il titolo: quasi uno sviluppo involontario dello sguardo, un passaggio di eredità dalla figura umana al suo totale dissolvimento.

André Kertész

 

Cifra caratteristica di Brandt, quella che ricollega immediatamente le sue immagini al suo nome, è l'uso esplicito dell'ottica grandangolare, che agisce sui corpi allungandoli a dismisura; una modalità peraltro reiterata nella storia della fotografia, basti vedere le fotografie di Kishin Shinoyama, anni Settanta, e  autore del libro Distortions, raccolta di immagini scattate nel 1933 ma pubblicate solo nel 1976. Kertész già negli anni Trenta produceva una deformazione formale così estrema – i suoi corpi sembrano addirittura disciogliersi nell'immagine – facendo proprie tutte quelle modalità che apparentemente corrispondevano a degli errori tecnici: l'effetto “barilotto” della focale corta, le aberrazioni prodotte dai riflessi della figura umana in specchi dalla superficie altrettanto concava. Ancora una volta, con un salto di quarant'anni, Carla Cerati seziona in Forma di Donna (1978) il corpo femminile riducendolo in piccoli pezzi, quasi un dizionario delle infinite forme riscontrabili nello sguardo umano.

 

Carla Cerati

Questo rispecchiarsi malgrado ogni differenza biografica – testa ancora una volta, nel caso ce ne fosse bisogno, che l'arte, erroneamente immaginata come una sequenza di nomi e fatti, è invece costituita da una serie di domande eterne, che ritornano e si ripetono instaurando discorsi che esulano da una continuità spazio temporale, per attestarsi in una dimensione esclusivamente concettuale. Sono interrogativi irrisolti e anzi l'aporia di ogni problema artistico sembra necessaria a garantire un incessante ritorno alla riflessione. È possibile però riscontrare una base comune di riferimento nell'esperienza surrealista, e volendo impostare una sorta di legame temporale, delineare un continuo salto temporale dagli anni Trenta agli anni Settanta, le due decadi in cui si è affermata, discussa e riaffrontata la tematica della rappresentazione umana in fotografia oltre le convenzioni della verosimiglianza: basta girare le pagine della raccolta di libri fotografici Nudo di Alessandro Bertolotti (Contrasto), dal 1895 ad oggi, per vedere come le idee e i rimandi dialogavano su linee spazio-temporali ardite e fuori dagli schemi. E allora appare del tutto ragionevole l'apertura del primo libro fotografico di Bill Brandt con La Géante di Baudelaire, testo dove il poeta immaginava, agli albori del mondo, l'esistenza di una figura femminile straripante, per “contemplare il suo corpo fiorire con la sua anima e crescere liberamente in terribili giochi”, gli stessi giochi compiuti dalla fotografia, che proprio quando si affrancò dai doveri di una rappresentazione umana convenzionale e rassicurante potè partorire nuovi, inimmaginabili mondi paralleli a quello in cui abitiamo.

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