Capitolo quinto

29 Agosto 2015

La mia dimensione è ora verticale, la mia frontiera sopra di me.

Avanzare non posso più, la sentenza stentorea: la danese che si sbraccia, s’aggrappa ad un panico oscuro. I palazzi si slogano su di me, i giardini di Firenze dilavano addosso, alga poco buona. Il sole è eclissato, oltre l’acqua torbida. Vedo per un attimo lo scafo bigio della barca, e Massimo, il picaro rivelato, ridotto a delle gambette infantili che scalciano.

Tutto bene?, mi spinge Andrea.

Ti spaventi per una tenduccia?

Vedilo tipo un tempio, il nostro tempio.

Che cosa speriamo di ottenere da questo tempio?, le rispondo, mentre sistemo nervosamente i vestiti portati da casa.

È dove le divinità siamo noi, e i devoti, siamo noi. E le offerte sono queste che ci facciamo ogni giorno.

Fisso le pareti della tenda, il dispiegarsi di ombre sul telo verde quasi fossero spiritate dalla luce di un falò. Chi saranno quelle ombre, a quale distanza si pongono da me? Sono una lanterna magica che muove le figure che stanno là fuori. Una vera devozione.

 

Francesco Natali, Narrarno

 

Ad un tempo guardo su, nel momento in cui la superficie d’acqua sopra di me torna a distendersi tirata come la faccia di quelli dalle spallette che tremano sicuramente sul gettarsi, gridare, correre via, chissà pregare. Poi il pizzico della luce sul fiume visto da sotto, canoe che passano feroci su questo strano soffitto, agglomerato di bugnati fiorentini annebbiati e affacciati lì. O è la mia lanterna che si fa più flebile.

Ogni sera, ci vediamo qui al tramonto, sotto il parco, stabilisce Andrea. Si riferisce a quella zona praticabile e preservata dagli alberi tra il Ponte San Niccolò e il Verrazzano.

Ci sono delle regole fisse per questa setta?, le faccio ironica mentre la spoglio.

Non parlare di là fuori. Più: saper tenere stretto tutto qui dentro.

Cacchio è, questa, una vendetta economica col mondo? Un picchetto?

Ti ho detto di non parlare, di là fuori.

 

Francesco Natali, Narrarno

 

Lei, in fondo, non ha rancori. Mi sfila il vestito, mi bacia i fianchi, ottiene la mia resa. Come mi arrendo alle profondità, intendendo il cielo tra palpebre affogate. Perché sono ancora nella nostra tenda, o forse sto già annegando. E mentre annego ogni turista statuario di questo pomeriggio sta facendo lo stesso, ma in negativo. Libera la propria tensione, solleva gli occhi verso una frontiera: non solo li strizza al confuso Giudizio Universale del Cupolone, li placa nella notte lunare della Cappella Baroncelli, li affatica all’Albero della Vita di Taddeo Gaddi, li assoggetta all’occhio polifemico del rosone di Santo Spirito. Ma si tende più in su, al cielo implacabile estivo. Quasi volesse farsi valorizzare. E ad un tempo slanciando i polmoni.

Pare tutto salire su e poi farsi pronto a colare a picco in questa valle. Io scompaio, scompare la città. Io vado giù, lei viene giù con me, col gelo che cola dentro la mia testa. Palazzi, giardini, porte bronzee, tutto.

Che ti piglia, piccola anguilla?

Andrea mi dice “anguilla” perché mi agito nel sacco a pelo la notte. Ascolto i motorini che ronzano sul Lungarno Colombo per ore, diavoli senza meta che si rincorrono l’un altro. Lei cerca di fermarmi, intreccia le sue gambe alle mie, stringe forte.

Vorrei che questa notte non sparisse, le sussurro.

Ma la mattina è un rivestirsi, è contorsione e fachirismi per non svegliarla. Quindi immedesimarsi in una parete di sole, marciare verso il centro storico, coprendo gli occhi dal riflesso mattutino, piegati di schiena.

Vorrei che quella schiena non si piegasse. Che questa notte non sparisse. Anche se ho paura che, non finendo, questa notte, verde, vociata da fuori, compressa, gelida, specchio di città vista nel proprio riflesso cinico sul fiume che m’ingoia, appunto: m’ingoi. Che questa tenda, m’ingoi.

Così lancio pronostici nefasti.

Lo sai, dico mentre razzolo del tonno da una latta, che un giorno ci porteranno via di peso come due eretiche? Magari ci immoleranno!

E questo accade, un giorno, infatti: la tenda crolla, si piega incattivita, il film che proiettiamo fuori s’accelera di brutto, delle braccia ci strattonano. Perdi i sensi per l’improvvisa caccia, nel tentativo di fuga.

E il tuo corpo si ritrova a sacrificio steso nel piazzale degli Uffizi, tra le braccia di un vigile, show per un branco di russi.

Come te la passi, anguilla?

Che poi è in realtà un Tutto bene, respira, signora?

Come se non odiassi odiassi odiassi gesù cristo che qualcuno mi chiami Signora.

Signora tua sorella, farfuglio al mio salvatore che gronda da capo a piedi.

 

(5 – Continua)

 

 

English Version

 

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La versione cartacea ed in italiano di questo capitolo è apparsa originariamente su «Corriere della Sera - Corriere Fiorentino». La sua traduzione in inglese è di Johanna Bishop.

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