Racconti del reale di un intellettuale tra le nuvole

12 Dicembre 2015

Juan Villoro (messicano, 1956) è uno dei più importanti scrittori in spagnolo della sua generazione. Ha vinto numerosi premi internazionali, come il Premio Villaurrutia 1999, il Premio Herralde 2004 e il Premio Excelencia de Las Letras José Emilio Pacheco 2015. Scrive su El Pais e altri quotidiani e riviste internazionali. Tra le sue opere uscite in Italia: Chiamate da Amsterdam (Ponte alle Grazie 2013), La Piramide (gran vía 2013), Il libro selvaggio (Salani 2015), Specchietto retrovisore (Edit Press 2015). Da poche settimane è uscito in libreria C’è vita sulla Terra? (SUR, traduzione di Maria Cristina Secci).

 

Juan Villoro

 

Come autore, se più conosciuto in Italia come romanziere che come “articuentista”, un termine che mutuo da quello che usi per definire una forma ibrida di narrare, tra narrativa e cronaca di costume, evidente in questo tuo libro C’è vita sulla terra? (SUR 2015). Quello che attrae di queste cronache-apologhi è proprio che potrebbero essere presi per pezzi di pura finzione o ritratti letterari di personaggi e costumi, alla maniera di Jorge Ibargüengoitia, delle Aguafuertes porteñas di Roberto Arlt o anche dei testi di Carlos Monsiváis, autori che di fatto menzioni nella prefazione. Allo stesso tempo però la narrazione ha una base, o meglio un tono fattuale, anche quando non racconti necessariamente una notizia, un evento specifico. Iniziamo dal generale: qual è la relazione tra narrativa e non-fiction nella tua produzione? Come si influenzano, crescono assieme, si alimentano o si annullano? Che tempi riempiono della tua vita di scrittore?

 

Al contrario di quello che accade con la maggioranza degli scrittori-giornalisti, io ho iniziato scrivendo narrativa. Il racconto è stata il genere che più mi attraeva all’inizio della mia carriera. Tuttavia, a un certo punto ho percepito come un vuoto, il vuoto della solitudine, la mancanza di contatto con le persone, la lontananza dal mondo reale. Mi interessavo molto di politica ed ero un militante del Partito Messicano dei Lavoratori (partito di sinistra che non ha mai avuto la possibilità di governare), leggevo i giornali con avidità, così che alla fine mi sono interessato allo scrivere cronache. Curioso come il mio primo testo di non-fiction sia stato un ritratto del mio maestro di narrativa, Augusto Monterroso, del quale ho frequentato il corso di scrittura. A partire da allora (si parla del 1984), ho combinato la scrittura d’invenzione con differenti modalità di testimonianza. Ho scritto reportage, cronache e interviste, e passo dopo passo mi ha attratto l’idea di trovare “racconti del reale”, storie occulte nel caos della vita quotidiana. C’è vita sulla Terra? raccoglie questi articuentos, queste cronache scritte nell’arco di 20 anni.

 

Una delle esperienze che ha maggiormente dato forma alla tua lunga produzione è stata sicuramente l’esperienza del viaggio e della residenza all’estero, a partire dagli anni ‘80. Ed anche, di contro, il difficile ritorno in patria, il Messico, in particolare la Città del Messico come leggiamo già dall’inizio del libro nella divertente cronaca “«Vendete lenti di ingrandimento?»”che ricorda, per stile e sarcasmo, Felisberto Hernández. La tematica del ritorno è chiaramente presente nel tuo romanzo El Testigo vincitore del Premio Herralde. Mi chiedo: Qual è la tua forma di andare e tornare? Questa forma ti aiuta a scrivere sul Messico, prendendo un po’ le distanze da una realtà così complessa?

 

In realtà mai me ne vado completamente dal Messico. Le mie residenze all’estero (tre anni a Berlino, tre a Barcellona, più qualche semestre invitato in università americane) sono state modi per coltivare la nostalgia e guardare al mio paese dalla distanza. Ci sono cose di ciò che ti circonda che puoi comprendere solo da una certa prospettiva. I vecchi medicinali avevano quella scrittura: “Agitare prima dell’uso”. I viaggi sono in fondo questo per me, un’opportunità per agitare la mia mente, vedere di nuovo le cose di sempre.

 

L’Europa è sicuramente un riferimento e una seconda patria per te (soprattutto, come hai detto, Berlino e Barcellona), e lo dimostrano le cronache del libro come “La seconda tartaruga”, “Astenia primaverile” o “In difesa della tosse”. Secondo te, che cambiamenti sono intercorsi in Europa in questi ultimi anni? In cosa è ancora un punto di riferimento per molti messicani e latinoamericani, in termini culturali, politici, letterarie e potremmo dire anche urbani?

 

È difficile fare una sintesi dei cambiamenti che hanno colpito in diversi modi l’Europa. Il mondo della DDR, il “socialismo realmente esistente” tedesco, è scomparso per sempre. E tuttavia c’è una certa nostalgia di quel contesto (la famosa Ostalgie). La maggior parte dei miei amici di Berlino Est sanno che il cambiamento ha portato a molte migliorie, ma si è anche perso quel legame solidale che prima teneva tutti uniti. “Si può comprendere la tristezza che provoca la scomparsa di un ordine spregevole?”, si chiese lo scrittore della DDR Günter de Bruyn, poco dopo la caduta del Muro di Berlino. Quel luogo spregevole, disonorevole, era pur sempre la patria, il luogo dei ricordi condivisi. E la riunificazione tedesca fu per molti versi una annessione commerciale. Molto diverso il caso di Barcellona, dove in questi anni si discute molto di secessione. Il governo catalano ha intrapreso un percorso senza ritorno e bisognerà vedere se i cittadini lo sosterranno. Solamente la metà dei catalani vuole la secessione. E io credo che sia una perdita chiudere i ponti con la cultura di lingua ispanica in nome dell’identità catalana, anche perché una delle meraviglie di quella comunità è proprio quella sua condizione bilingue. D’altro alto, l’indipendentismo che si fa guidare solo dal sentimento sottovaluta i rischi e i sacrifici che dovrà subire la popolazione intera. Alla fine, ogni paese è diverso dagli altri e ci riserverà sorprese difficili da prevedere. Chi avrebbe pensato che il Muro sarebbe caduto pacificamente o che l’Italia, culla del Rinascimento, sarebbe stata governata da Berlusconi?

 

Nelle tue cronache c’è un’attenzione spiccata per i mezzi di comunicazione (siano essi materiali come aeree o auto nel traffico dell’ora di punta del Distrito Federal, o cellulari, telefoni, ecc.). Che pensi della relazione tra letteratura e nuove possibilità di comunicazione fornite dai social network e dalle nuove tecnologie? Ti identifichi di più con l’idea apocalittica di Franzen e Eggers o con la più conciliante di Rushdie, felice user di Twitter? Penso anche al tuo Chiamate da Amsterdam o al racconto “Forward Kioto” de La casa pierde – un racconto uscito in Italia da poco nella raccolta Specchietto retrovisore (Edit Press 2015) basato su un’enigmatica comunicazione tra amici tramite e-mail.

 

Credo che si debba avere una buona relazione chiamiamola “primitiva” con le nuove tecnologie. Cosa voglio dire? Che non si può credere in esse come in un articolo di fede. La religione più estesa del pianeta è proprio quella tecnologica, con la dipendenza cieca che provoca. Non sappiamo affatto come funzionano quegli strumenti, ma si sono convertiti in nostre protesi: se si rompono, siamo noi i primi a spegnersi. Per questo preferisco un rapporto “primitivo”, che non porti la tecnologia ad essere parte centrale della vita, ma come strumento utile benché estraneo. Le storie di C’è vita sulla Terra? parlano spesso dei nuovi costumi e dei nuovi protocolli generati dalla rivoluzione digitale: alcuni sono buoni, altri un disastro.

 

Mi ha molto interessato una cosa che mi hai raccontato in un nostro incontro nel DF: parlavi del rapporto tutt’altro che unilaterale o di dipendenza tra città e provincia in Messico, e dell’altissimo valore culturale di quest’ultima nella tua formazione e nella formazione di altri scrittori (ad esempio Daniel Sada, il suo ignotissimo Stato di Coahuila, dove imparò la metrica che tanto ritorna anche nella sua narrativa). La provincia messicana è ciononostante una grande nebulosa che ha segnato la letteratura (e non solo in Messico) di ieri come d’oggi: prima si diceva “se los tragó la selva” (“li ha ingoiati la giungla”) – come recitava la conclusione del romanzo Voragine di José Eustasio Rivera, preso di mira dal giovane Fuentes come esempio di narrativa folclorica e provinciale oggi si potrebbe dire “se los tragó el desierto”, specialmente quello del Nord del paese, quello di Sada, Herrera, Bolaño. La provincia è un regno dimenticato in mano ai narcotrafficanti, e si pone in contrasto con la megalopoli del Distrito Federal, il quale è sì un labirinto indistinto ma a volte, quasi ironicamente, più sicuro dello spazio aperto e sprotetto. Che legame hanno le tue cronache, con questa provincia? È forse più difficile o rischioso scrivere su di essa?

 

Sono un abitante di Città del Messico, una delle più grandi del mondo. Quando sono nato, questo spazio era abitato da 4 milioni di abitanti. Ora si tratta di una quantità maggiore, vicina ai 18 o 20 milioni. In nessun momento della storia dell’umanità una città si era espansa in questo modo. Essere testimoni di questa cosa è stata una delle esperienze centrali della mia vita. Da circa 17 anni scrivo un libro di testimonianza dedicato alla mia città, che spero di finire il prossimo anno, quando quel progetto sarà maggiorenne. Tutto questo per dire che la provincia, luogo dove non ho mai vissuto, ha rappresentato per me “L’Altro Messico”, una zona di mistero, sconcertante. Ho scritto un racconto, “Coyote” (uscito anche questo in Italia nel recente Specchietto retrovisore, Edit Press; N.d.R.) che parla di persone della capitale che vanno a cercare e consumare peyote nel deserto degli indios huichol. Descrivo lì un’esplorazione dell’alterità e gli squilibri che essa provoca. La provincia ha, nelle mie storie, questo senso di provocazione, di messa a prova dei personaggi, che all’improvviso devono comportarsi in modo differente in uno spazio che non conoscono.

 

Nel luglio scorso ho ascoltato le affermazioni molto dure di alcuni intellettuali messicani. Hanno commentato come, dopo il crimine contro il foto-giornalista Rubén Espinosa e l’attivista Nadia Vera Pérez perpetrato nel Distrito Federal, tutti gli intellettuali, scrittori, pubblicisti, dovessero avere paura per la propria incolumità, e non solamente chi più s’impegnava come reporter sul fronte del crimine o contro lo Stato corrotto. In questo libro, tu ti esponi molto come voce narrante e mescoli la tua vita con costumi e eventi della quotidianità messicana: le sue false credenze sul clima (como in “Texcoco è qui” e “Battaglie perse con il freddo”), le falle e corruttele istituzionali (come “Prosa a bassa tensione”), ma anche la notoria quotidianità marcata dalla presenza dei cartelli della droga (come in “Un articolo di fede” ). Cosa è cambiato oggi per gli intellettuali messicani? Che tipo di paura vivono? Il Messico si è abituato al terrore, andando ben oltre il suo caratteristico surrealismo?

 

Non puoi fino in fondo abituarti al terrore. Quello che accade è che la realtà messicana ha un forte accento bipolare, uno spazio per il carnevale e uno per l’apocalisse, e a volte le due polarità accadono allo stesso tempo. La comunità messicana è devota alle feste, alle cerimonie, alla cordialità, ai festeggiamenti e ai piaceri del palato. Ma è anche una società rotta, dove le leggi vengono disattese, il delitto impera e l’impunità rimane sovrana. È molto difficile conciliare entrambe le forme d’esistenza. Leggendo Sciascia ed altri autori siciliani, ho incontrato però la stessa tensione che determina la vita in Messico. La paura, d’altronde, è una costante difficile da rompere. Ho scritto cronache sul narco e altre tematiche “forti”, perché mi pare imprescindibile non chiudere gli occhi davanti all’orrore e indagare il senso di atti che non sembrano temerlo affatto. In ogni caso, mi sembra ancora più difficile e importante conservare un’opzione di speranza, sebbene circondati dall’orrore. Non possiamo permetterci che ci rubino la speranza, la sensualità, la risata. C’è vita sulla Terra? propone una specie di vendetta contro una realtà avversa allo humor. Uno humor che, secondo me, non rappresenta una evasione, ma un’opportunità di comprendere che, persino nei disastri, si possono trovare emozioni che causano empatia, che provocano una bella risata.

 

C’è vita sulla Terra? è uscito in Italia da pochissimo per le edizioni Sur in una selezione delle cronache originali. Parlando d’Italia: in Messico c’è una buona presenza di italiani, nel passato abbiamo anche casi di artisti come Modotti e Coccioli che si sono “messicanizzati” e sono diventati molto noti nel paese. Come consideri la presenza degli italiani in Messico? Come si vive?

 

C’è stata una grande influenza italiana in Messico. Pensa poi che Fabio Morabito, autore della mia generazione, conserva caparbiamente la sua nazionalità italiana; il filosofo Alejandro Rossi è nato a Firenze; Guillermo Fadanelli, Jorge Volpi e Ángeles Mastretta hanno discendenza italiana. Sergio Pitol, uno dei nostri maggiori autori, vincitore del Premio Cervantes, è nato in una comunità italiana dello stato di Veracruz, da una famiglia veneta. Lo storico residente in Messico Gutierre Tibon era italiano. Alla fine la nostra cultura potrebbe formare un quartiere letterario chiamato Little Italy!

 

Voglio concludere con una domanda se vuoi aneddotica, un po’ provocatoria: cosa pensano i tuoi amici dell’uso che fai di loro in queste cronache? E tua madre, anche lei molto presente? Nel caso dei tuoi amici, non sempre sono ritratti lusinghieri! Sposi l’uso messicano del prendersi gioco del prossimo per dimostrargli affetto, o cosa?

 

Mia madre è molto partecipe e fantasiosa. Le piace provocare letteratura e apparire come protagonista. Non sempre ci troviamo d’accordo, ma accetta la propria condizione di musa. Mia figlia Inés appare in queste cronache come sempre è stata: una bambina saggia. Nel caso dei miei amici a volte cambio i nomi, perché non sempre piace loro vedersi troppo ritratti, anche se spesso ho ricevuto diverse risposte positive, anche perché i passi falsi di cui parlo son quasi sempre i miei, la persona della quale più mi prendo gioco sono io. Il mio libro parla di gente che vive nella Terra però sta tra le nuvole, e io sono il più tra le nuvole di tutti loro.

 

 

Il libro: Juan Villoro, C’è vita sulla terra?, SUR 2015, pp. 171, € 15,00

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