Diario 3 / Nidi vuoti

1 Luglio 2020

Un solo giorno separa il compleanno di mia madre da quello di mia nipote. Così, da quando è nata mia nipote, festeggiamo insieme i loro due compleanni. Quest’anno la cosa è coincisa con la nostra ricongiunzione (non ci vedevamo da febbraio). La forza degli umani sta nel rendere sequenziali fatti di natura che non lo sono. Vivere è aprirsi ogni giorno un varco in questa fitta foresta di tempo cercando di trovare spiragli di luce. Lo vedo fare ovunque intorno a me, ma dentro quei varchi io non riesco a vedere nient’altro che un’ulteriore affermazione della foresta. 

Eppure gli umani riescono a creare riti per ogni cosa, e non temono la stanchezza e la reiterazione. La loro fame di emozioni è spasmodica, e quando si sentono sazi, si acquattano in un angolo come vecchi gatti sonnacchiosi. Il rito del compleanno, della festa in famiglia, dello spegnimento delle candeline, il rito delle foto dietro la torta, il rito del caffè dopo pranzo, il rito delle chiacchiere sbadiglianti sul divano, riti su riti che contengono nient’altro che il grande segreto epico del nostro stare al mondo.

 

 

Scorrendo la torrenziale sequenza delle foto di compleanni trascorsi di cui sono stato testimone, m’impressiona il fatto che le immagini sono tutte uguali: uguale la composizione, uguali le espressioni, uguale l’atmosfera, i sorrisi a favore di camera, la posa contratta delle spalle, le decorazioni di una scintillante povertà, come se ogni minimo istante di quelle occasioni tentasse di afferrare la propria realtà in uno sterminato mare d’irrealtà, come se la rivelazione della vita potesse arrivare solo dentro la cornice della celebrazione. Pensare a me che scrivo questo diario di un’estate, che tengo d’occhio il mondo giorno per giorno, mi fa immaginare che anche la mia, in fondo, sia una volontà di celebrazione.

 

Ogni volta che esco di casa penso di sapere benissimo da quale parte sto andando, ma mi accorgo che non sarò in grado di arrivare da quella parte, e mi sento come un balbuziente che non riesce a completare la frase. O come un pellegrino che conosce la meta e la direzione, ma a cui, per un misterioso maleficio, scompare continuamente la strada da sotto i piedi.

 

 

La stazione di Roma si è rimpicciolita. Molti negozi sono ancora chiusi, c’è qualche chiosco convertito a rivendita di mascherine. Le poche persone che transitano sotto la galleria principale, anziché esaltarne la vastità, sembrano comprimerne l’estensione. Cerco di intuire il motivo di questa percezione degli spazi. Ho avuto la stessa impressione transitando per Trinità dei Monti nei giorni dell’isolamento. È la presenza umana che fa la grandezza fisica di un luogo architettonico. O di contro la sua culminante, suprema assenza. Ne deduco che la questione si esaurisca nei concetti di spazio architettonico vivo e spazio architettonico estinto, laddove l’aggettivo qualificativo è riferito alla funzione. Entrambe le condizioni imprimono un senso di grandezza, purché siano condizioni assolute. La stazione di Roma, nel pieno della sua funzione, appare grandiosa, un inno alla stremante frenesia moderna. Eppure, se anche fosse svuotata dagli uomini, ridotta a rovina, a reperto, a testimonianza di un tempo definitivamente cessato, apparirebbe comunque sacrale e maestosa. È nella condizione di mezzo, nello stato di faticosa nudità in cui si trova in questi giorni, che offre di sé l’idea di una diminuzione complessiva. Questa è una percezione tutta mentale, perciò tutta interna all’essere. La mente umana, avendo l’uomo come irriducibile unità di misura, ha i suoi due estremi nella folla e nel deserto. Deprimente è tutto ciò che sta a metà tra la piena vita e la morte.

 

 

È arrivato il primo giorno d’estate. Dopo tanto tempo ho pranzato di nuovo in un ristorante insieme a un amico. La sala era deserta e il cameriere si sforzava di fingere che fosse tutto normale.

Se c’è una categoria umana che m’incanta è quella dei camerieri in pausa dal lavoro sulle soglie dei ristoranti. Nella speciale classifica delle figure umane che m’incantano, la categoria dei camerieri in pausa dal lavoro se la batte con la categoria dei barbieri anziani. Il barbiere che taglia i capelli a mio figlio si chiama Rocco ed è molto anziano. È un uomo affabile, dalle movenze lente e garbate. In certe sere d’inverno, tornando a casa, mi capita di passare davanti al suo negozio e di restare irretito da un’immagine: Rocco è solo, seduto su una delle due poltrone su cui taglia i capelli ai suoi clienti, sembra che stia fissando la propria figura riflessa nello specchio cercando di mettere ordine nei pensieri alla fine del giorno. 

Al termine del pranzo, il mio amico e io ci siamo salutati nella desolazione di piazza Indipendenza, che al tempo dell’antica Roma era chiamato Campus Scelleratus perché vi venivano sepolte vive le vestali ribelli, e dove si affaccia la casa in cui morì Tomasi di Lampedusa. Mi sono avviato verso viale Castro Pretorio. A parte due soldati di guardia davanti all’ambasciata tedesca non ho incontrato nessuno.

 

 

Sul limite che separa il mio giardino dal giardino del vicino sono cresciuti cinque laurocerasi. Sono cresciuti tanto da lambire le finestre del terzo piano. Ho pensato perciò di ridurli ad altezza d’uomo in modo che col passare del tempo, infoltendosi alla base, avrebbero prodotto una bella siepe da confine. Sabato mattina è venuto mio padre con gli strumenti del mestiere, ha piazzato una scala telescopica tra i rami dei laurocerasi e ha legato una corda al primo albero. Ho afferrato l’estremità della corda mentre lui si è arrampicato con la motosega per tagliare il tronco. Abbiamo ripetuto la stessa operazione per tutti e cinque i laurocerasi. Tra i rami del quinto albero abbiamo trovato un nido abbandonato. Ho pensato che se gli uccelli dovessero tornare non troverebbero più il nido, e non troverebbero più l’albero su cui c’era il loro nido, troverebbero solo un vuoto laddove prima c’era l’albero col loro nido. Un vuoto per loro inspiegabile. Ma il vuoto è sempre inspiegabile.

 

Dopo quattro mesi ho rifatto benzina. Durante l’isolamento andavo ad accendere la macchina una volta alla settimana per evitare che si scaricasse la batteria. Aprivo la portiera, salivo in macchina, mettevo in moto e quasi stentavo a ricordare il significato e l’utilità dei principali comandi di guida. Eppure guido da quasi trent’anni. Prima usavo la macchina ogni giorno per andare al lavoro. Mentre ora, pur rimanendo fermo sul posto, con la marcia in folle e il motore al minimo, sentivo che se mi fossi mosso non sarei stato capace di dominare lo spazio. C’è un sentimento che ho bandito, cacciandolo via da me come un pericoloso malfattore: la nostalgia della ripetizione.

Al distributore self-service, mentre vagavo con lo sguardo in cerca della colonnina mangia-soldi, il benzinaio mi si è avvicinato con fare vagamente minaccioso. “Devi mettere i soldi”, mi ha detto. Come potevo dirgli che mi è venuta meno l’abitudine, quel certo allenamento minimo che è richiesto dalle cose della vita?

 

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