La Cresta dell’onda di Thomas Pynchon

14 Gennaio 2015

La cresta dell’onda (Bleeding Edge) di Thomas Pynchon (Einaudi, 2014, trad. Massimo Bocchiola) restituisce al lettore la varietà dei consumi culturali, l’incontrollabilità della tecnologia e l’ambiguità della rete che contraddistinguono la società contemporanea: i videogiochi, le simulazioni del reale, le serie tv, il cinema, ma anche le spinose questioni riguardo alla democratizzazione o controllo del cyberspazio. Se tuttavia questo romanzo tradisce le aspettative dei lettori più affezionati, soprattutto per l’assenza di un impianto narrativo centrifugo, al tempo stesso aggiorna quelli che sono i temi tradizionali dell’immaginario pynchoniano, rapportandoli alle trame della società dell’informazione globale. Pynchon, infatti, predilige l’uso di un plot lineare organizzato in capitoli brevi e retto da dialoghi serrati per rappresentare stilisticamente le modalità comunicative e narrative del medium internet, rispettivamente organizzate sulle micronarrazioni dei social media e sulla linearità della fiction seriale per il web (web serie). Questa pertinenza formale tra scrittura e tecnologia digitale viene inquadrata in un momento tragico per la coscienza storica dell’Occidente: i mesi che precedono e seguono l’undici settembre 2001. L’andare a ritroso nella cronologia della Storia permette a Pynchon, coerentemente con quanto ha fatto in altri precedenti romanzi a seconda dei diversi contesti di riferimento, di cogliere i primi indizi delle trasformazioni culturali, economiche e sociali in cui si perpetuano le strategie del potere.

 

 

 

Twin Towers, New York

 

In La cresta dell’onda non si tratta più di cogliere la complessità di un mondo definito da tecnologie industriali e media elettronici, ma di rivelare quelle stesse logiche nei territori del web, usando come strumento principale la tecnologia del software: un codice al centro delle forme e dei linguaggi del capitalismo globale. Lev Manovich in Software culture (2010) scrive: «il software è oggi la nostra interfaccia con il mondo, con gli altri, con la nostra memoria e la nostra immaginazione; un linguaggio universale attraverso cui il mondo comunica e un motore universale grazie al quale il mondo si muove» (10); e più avanti definisce il software la “colla invisibile” che tiene insieme tutti i sistemi sociali, economici e culturali della società contemporanea. È proprio all’interno di uno scenario molto simile a quello descritto da Manovich che l’investigatrice antifrode Maxine Tarnow avvia un’indagine sui traffici finanziari della Hashslingrz, una “dot.com” che invece di fallire a causa della tecnobolla di fine millennio ha aumentato i profitti progettando software di sicurezza. L’indagine senza soluzione di Maxine permette di accedere al grottesco scenario di un mondo finanziario che nel 2001 era appena uscito dalla catastrofe del venture capitalism e dallo spauracchio del millennium bug; in altre parole, fornisce il resoconto della fine dell’epoca del profitto sicuro del tardocapitalismo mentre all’orizzonte prende forma un’agenda economica basata sul software e sulla globalizzazione dell’informazione.

 

Pynchon, quindi, segnala la sopravvivenza dei grandi complotti postmoderni ai tempi della cultura digitale – anche perché a ben guardare il mondo odierno sembra aver assunto esattamente le fattezze di un vasto complotto pynchoniano, alimentato dalla diffusione della controinformazione nei blog e negli altri social media – e immerge la narrazione negli elementi tipici della fiction cyberpunk: l’attitudine psichedelica di “smanettoni”, geek, hacker che si muovono nello spazio profondo del web e le strategie della colonizzazione del “sommerso” da parte delle grandi aziende informatiche. Non a caso, il titolo originale del romanzo, Bleeding Edge, si riferisce a una tecnologia sospesa tra il flop e il successo, con un livello di innovazione che non ha ancora un preciso settore d’applicazione. Questa tecnologia è quella di Deep Archer, un software di realtà virtuale che richiama l’esperienza immersiva di Second Life. Il codice sorgente del software è al centro degli interessi delle grandi aziende informatiche mentre i due sviluppatori, Lucas e Justin, riflettono su una questione centrale della “software culture”: rendere il mondo virtuale open source, oppure aumentarne la protezione.

 

Slogan Indymedia, Don't hate the media, become the media, 1999

 

L’analisi delle istanze del potere finanziario e della cybercultura viene condotta attraverso la dialettica tra controllo ed escapismo virtuale, tra una dimensione di “superficie” e una “sommersa”, che permette di riscontrare nel romanzo alcune tematiche tipiche degli internet studies: i consumi digitali dei due figli di Maxine, Otis e Ziggy, perfettamente integrati con le logiche “dal basso” della rete, restituiscono il ritratto della società della convergenza descritta da Henry Jenkins (2006); lo studio dell’intelligenza collettiva, teorizzata da Pierre Lévy e ripresa da Jenkins per spiegare la dimensione partecipativa degli utenti nella produzione di contenuti mediali, trova un’applicazione nel Princeton Global Consciousness Project, un progetto parascientifico a cui Pynchon fa riferimento per dimostrare l’interazione tra una coscienza collettiva e i sistemi fisici attraverso la generazione di stringhe numeriche da cui è possibile leggere le emozioni delle masse all’occorrenza di grandi eventi globali: «se le nostre menti in qualche modo sono tutte interconnesse, allora qualsiasi grande evento globale, un disastro o quant’altro, apparirà nei numeri» (406). Inoltre, Pynchon rende puntualmente conto del lato oscuro del web, come ci ricorda verso la fine del romanzo la cupa denuncia proclamata dal padre di Maxine che, coerentemente con le posizioni contro il “cyber-ottimismo” di un teorico come Evgenij Mozorov, vede nella rete un potente strumento di sorveglianza: «chiamala libertà, ma è fondata sul controllo. Tutti connessi insieme, impossibile che si perda qualcuno, non può più succedere. Fai il passo seguente, connettilo ai telefoni cellulari, e avrai un Web completo di sorveglianza cui non si potrà sfuggire» (501). Tali questioni permettono al testo di costruire affascinanti ponti con le più recenti ricadute politiche della rete: basti pensare alle rivelazioni di WikiLeaks, alla contraddittoria esperienza politica del M5S in Italia, o alle recentissime avvisaglie di una cyberguerra tra Corea del Nord e USA combattuta dai rispettivi hacker.

 

La cresta dell’onda cataloga la contemporaneità presentando frammenti di cultura pop (Beanie Babies, Dragon Ball, Pokemon ma anche Metal Gear Solid, Halo) e tecnologie dimenticate che hanno attraversato l’inizio del millennio (come il computer palmare Cybiko, precursore dell’iPhone). In questo catalogo non possono mancare le trasformazioni che attraversano il cinema ai tempi del web. È Reg Despard, regista incaricato di girare un documentario promozionale sulla Hashslingrz, a profetizzare il futuro stesso del cinema: «un giorno o l’altro, con una banda più larga e più documenti video caricati in internet, tutti filmeranno tutto, molto di più di quanto si riesca a guardare, e niente vorrà dire più un cazzo. Considerami pure un profeta sul tema» (173-4). In altri passaggi Pynchon allude alle estetiche del postcinema, frutto di negoziazioni, prestiti e ibridazioni con le grafiche dei videogiochi, con le soggettive degli sparatutto, il machinima e la viralità del video on line, sviluppando così una lucida analisi dell’audiovisivo digitale che ricorda quella tracciata da William Gibson in L’accademia dei sogni (2003).

 

Strange Days, Regia di Kathryn Bigelow, 1995

 

Alla digitalizzazione del cinema corrisponde la digitalizzazione della memoria, l’integrazione dello spazio immateriale del web con quello reale. Sarà proprio Eric, un hacker feticista dei piedi, a pontificare: «internet non è che una piccola parte di un continuum integrato assai più vasto» (410). Questa continuità aveva già stimolato DeLillo che nel finale di Underworld (1997) ci domanda: «il cyberspazio è una cosa dentro il mondo, o il contrario? Quale contiene quale, e come si può esserne sicuri?» (879). E in La cresta dell’onda il continuum tra web e reale integra un software per la realtà virtuale (Deep Archer) con il peso della catastrofe della Storia (l’11/9): «non erano un monumento americano tra i più amati, però erano geometria pura […] poi l’hanno ridotto in pixel» (531); cioè nella stessa sostanza immateriale di un mondo virtuale in attesa di essere costruito: «forse è una città sacra tutta di pixel che aspettano di essere riordinati, come se le catastrofi potessero andare a ritroso, le torri rialzarsi dalla nera rovina» (ibid.). Quello che aleggia in tutto il romanzo è un pungente sentimento apocalittico: il crollo della sicurezza garantita dall’iperrealtà geometrica delle torri, la fine della logica della duplicazione, la fine del culto sacro del capitalismo a cui fa puntualmente da rimando un’altra distruzione del sacro, come quella dei Buddha gemelli bombardati in Afghanistan. Il vuoto causato dalle catastrofi di inizio millennio ha trasformato la società, la conoscenza e l’informazione, e in questo scenario privo di una forma stabile il software diventa un’interfaccia magica, in grado di connettere gli utenti con il cupo immaginario di un mondo popolato da morti. Infatti, dopo l’attentato Deep Archer diventa open source e viene trasformato in un universale regno dei morti dove è possibile interagire con le incarnazioni digitali (avatar) delle vittime delle torri. Un’associazione profonda e complessa, questa, che fa riflettere sulle modalità della sopravvivenza dell’uomo al lutto della morte e sulla presenza dell’apocalisse nei tessuti della storia contemporanea: «l’inferno non deve essere per forza sottoterra […] l’inferno può essere nel cielo» (531). Pynchon, dunque, ci fornisce il ritratto di un mondo in cui reale e virtuale sono irriducibilmente integrati grazie al software, e ci invita a considerare questa continuità come uno dei possibili codici sorgente per decodificare la complessità del mondo contemporaneo.

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