Chi ha incastrato Volkswagen?

2 Ottobre 2015

Alzi la mano chi non ha goduto almeno un po’ a sentire delle vicissitudini di Volkswagen in questi giorni. E così mentre soci, mariti/mogli, amici, conoscenti, partner commerciali ecc. guardano le rispettive controparti prussiane con occhio diverso e sorrisetto giocondo (alla Leonardo) in attesa che provino ancora a darsi delle arie, loro si interrogano su come sia potuto succedere. Ovvio che nessuno crede che tutta la responsabilità sia del “povero” Winterkorn, il manager della compagnia costretto ad andar via con 60 milioni di euro tra pensioncina e buonuscita. E allora di chi è la colpa? A leggere i giornali, l’altro colpevole sarebbe il “software”, linee di codice contenute dentro la proverbiale scatola nera che comandano ogni parte del motore. Quando il computer capisce che l’automobile è sottoposta a test (in laboratorio le ruote anteriori si muovono mentre quelle posteriori no, lo sterzo resta fermo, i freni non vengono usati) comincia a fare le sue cosette in modo da far diminuire le emissioni. D’altronde, neanche un capro espiatorio professionista come il Malaussène di Pennac (impiegato in un grande magazzino con il preciso compito di mostrare contrizione e invocare pietà di fronte a qualunque critica) sarebbe bastato a calmare clienti e azionisti. La questione è talmente grave che la responsabilità deve essere divista equamente tra umani e non-umani, manager in giacca e cravatta e misteriose intelligenze artificiali che neanche il malefico HAL9000 di Odissea nello spazio. D’altronde, sono loro che agiscono, che lo facciano con le proprie mani o con servomeccanismi ha poca importanza, la responsabilità è di chi fa.

 

 

Tutti sereni allora, basta rimuovere le cause e ogni cosa andrà al suo posto. Poco importa che ora la macchia dell’inganno si stia allargando a molte altre case automobilistiche, basta far saltare tutti i manager e riprogrammare tutti gli HAL9000 e il mondo tornerà a essere migliore. Beh, questa cosa, questo approccio, si chiama determinismo, ed è esattamente quello che ci ha portati fin qui. L’idea cioè che a produrre determinati effetti sia la somma di un certo numero di fattori secondo un rapporto di necessità fra causa ed effetto: dato un manager senza scrupoli e un software malvagio ecco una massa enorme di inquinanti a far fuori piante e animali (fra i quali ovviamente noi). Cambiando manager e software non potrà che cambiare anche l’ambiente. La mia impressione è che metterla in questi termini non ci consenta di capire cosa sia successo esattamente. Non si tratta di una questione filosofica, di amore della conoscenza fine a se stesso, ma di provare a restituire a certe dinamiche la loro complessità per poterla tenere in considerazione quando, dal pensiero si passi, come si dice, “ai fatti”.

 

Qual è il punto insomma? Semplicissimo: la colpa è del laboratorio. Non di uno specifico laboratorio, degli strumenti che si usano al suo interno, né delle persone che ci stanno dentro, ma dell’idea stessa di laboratorio. E infatti abbiamo cominciato a sentirlo ormai da qualche giorno, il disastro della Volkswagen si è prodotto perché le condizioni di test non assomigliano a quelle reali. Ed ecco i titoli: “Dal 2016 solo test reali”. Ma un attimo, cosa significa esattamente laboratorio? Perché i laboratori non funzionano? Quali alternative ci sono? Chi ci assicura che un test condotto all’aperto sia necessariamente più attendibile di uno condotto al chiuso? Basta davvero non avere più pareti bianche intorno perché l’“effetto laboratorio” sparisca? Il problema, è chiaro, non è del laboratorio o di un laboratorio, ma di un modo di arrivare alla conoscenza che prevede l’esistenza di una cosa che si chiama laboratorio, sia esso al chiuso o all’aperto. Ed eccolo allora un nuovo punto, più interessante: com’è fatto un laboratorio? In che modo può influenzare la conoscenza che si produce al suo interno? A quali condizioni il “dato” che serve a costruire può essere considerato vero al di fuori di quelle condizioni? (anche un test su strada viene fatto su una strada e non su un’altra, dunque anche in quel caso c’è un laboratorio di mezzo). Il punto è che un laboratorio non è una cosa, è un modo di ragionare, serve appunto a costruire dati che, a dispetto del nome, non sono mai “dati” di per sé ma solo una volta che siano acquisiti e, per esserlo, bisogna che siano resi pertinenti. È il solito problema: vediamo solo ciò che siamo in condizione di vedere, che si tratti di un’illusione di Houdini o di un esperimento scientifico. Non perché siano la stessa cosa, ovviamente, ma perché chi osserva funziona allo stesso modo. Nel 1979 Bruno Latour e Steve Woolgar pubblicarono un libro che si intitolava Laboratory Life: the Construction of Scientific Facts, e da allora soprattutto Latour ha ricevuto fortissime critiche da parte degli scienziati che lo accusavano di un relativismo paradossale: “professore, se la gravità non esiste se non nei nostri discorsi, perché non prova a lanciarsi dal ventesimo piano?”. Beh, in questo momento, mentre il 35% di una società da miliardi di euro va in fumo, Latour gongola. I suoi discorsi non miravano a dimostrare che la gravità non esisteva o che i laboratori non servivano, quello che questo filosofo della scienza voleva dire (e che ha continuato a dire) è che bisogna occuparsi di queste cose. Esserne consapevoli.

 

Si dirà, ma è il principio di indeterminazione di Heisenberg (ricordate? non è possibile conoscere la velocità e la posizione di una particella in movimento perché la misurazione dell’una influenza necessariamente l’altra), cosa c’è di nuovo in tutto ciò? La scienza ha acquisito da tempo consapevolezza del “problema dell’osservatore” e ne tiene conto. Ora, senza voler nulla togliere ai meriti di questo fisico tedesco (!) che con il linguaggio della matematica ha dimostrato alla scienza i suoi limiti, non stiamo parlando della stessa cosa. Non si tratta di evidenziare che un laboratorio non è la vita reale (cosa che tutti hanno capito perfettamente) o che anche nelle più reali condizioni di test c’è spazio per l’indeterminato, ma che a dar forma a un “laboratorio” qualunque è una società intera, con i suoi problemi e i suoi valori, con le sue sensibilità e con le sue leggerezze, cose che con il tempo possono cambiare. Inoltre, se la parola laboratorio sta tra virgolette è perché esso non è mai una cosa, bensì un’istanza che si pone a partire dalla copresenza di cose e persone che intrattengono fra loro determinate relazioni. È dalla natura di queste relazioni che esso prende forma, dunque poco importa che ci sia una stanza bianca o una certa strada scelta per questa o quella ragione, in ogni caso la conoscenza che si produce ne sarà influenzata. Il punto è capire come. Proprio la questione ambientale è emblematica. Senza volerla tirare troppo per le lunghe, tutti coloro che sono in grado di leggere queste parole ricorderanno bene epoche in cui la sensibilità per tali questioni era molto diversa. Il punto non era che non avevamo i mezzi per sapere quello che stavamo facendo al pianeta, né che nessuno avesse in mano qualche numeretto un po’ preoccupante, era che in quel momento quei segnali erano trascurabili e, in quanto tali, venivano trascurati. Tanto dagli uomini quanto dalle macchine che li rilevano (o avrebbero potuto farlo se qualcuno glielo avesse ordinato). Succede anche oggi, nell’epoca dell’ambientalismo, certi segnali valgono più di altri. Sentire che stanno scomparendo i panda ci disturba senz’altro di più di sentire che – poniamo – le zanzare tigre vengono sterminate. Scompaiono le zanzare? E chi se ne frega! Dobbiamo rinunciare al diesel? Pazienza. Vengono vietati i frigoriferi in casa? Non se ne parla proprio. E ancora: certo, le macchine elettriche non hanno emissioni, ma ce le hanno le centrali in cui l’elettricità si produce. E poi quanto vive un’automobile elettrica? In quanto tempo diventa inservibile? E quanto costa all’ambiente rottamare un’auto con delle grandi batterie al posto di un serbatoio? Stiamo davvero tenendo conto di tutto ciò di cui dobbiamo tener conto? Cosa penseremo di noi fra vent’anni?

 

Ed eccoci di nuovo alla filosofia. All’idea che esista un diverso modo di intendere le scienze umane del quale, in un mondo in cui quelle (presunte) esatte disegnano così tanta parte della nostra esistenza, non possiamo fare a meno. Pena dimenticare di riflettere su questioni che, prima o poi, verranno a galla. Ci vuole qualcuno insomma che, facendo un passo indietro rispetto a ciò che si osserva, ci dica in che modo lo facciamo o lo potremmo fare, restituendo agli attori in gioco (le automobili, i laboratori, i software, gli automobilisti, i manager, i governanti ecc.) la complessità che possiedono.

 

Per concludere, tornando al caso Volkswagen, non si tratta di licenziare manager o di spaccare scatole nere come dei novelli luddisti, quel che bisogna fare per poter sperare in un futuro migliore è riflettere sulle relazioni che li legano. Il punto è che per ricostruirle ci vogliono competenze nuove, che guardano alle scienze dell’uomo ma senza perdere di vista quelle esatte. Una rivoluzione culturale profonda che, senza mettere da parte Dante e Aristotele, pensi anche ad Apple e alla Volkswagen tenendo conto di Latour, Serres e tanti altri. E se le istituzioni sono per definizione sorde alle sirene del rinnovamento culturale, è bene che le aziende ci comincino a pensare tanto concretamente quanto tangibili sono i soldi che possono guadagnare o perdere al variare della comprensione di quello che stanno facendo. Che mondo sarebbe se Volkswagen oltre a finanziare borse di studio agli ingegneri di tanto in tanto facesse lo stesso anche con un umanista?

 

Ai poveri tedeschi che, come direbbe Paolo Conte, “le balle ancora gli girano”, non resta che dire di portar pazienza. Al di là dei destini di uno dei fiori all’occhiello della loro industria che nessuno può prevedere, è cambiato un immaginario e, sospetto, non solo di chi non è tedesco. Forse tutti questi migranti che sciamano verso l’Europa fuggendo da orrori che, con tutta evidenza, “valgono il viaggio”, sono un’occasione per ripensare finalmente quel “collettivo” di cui, secondo Latour, devono far parte anche le macchine.

 

 

 

P.S.

Avete visto, in queste ore Volkswagen sta richiamando le auto in officina per correggere il software. Dovrebbe significare che la centralina, una volta modificata, saprà mantenere i consumi dentro i parametri di euro 5 anche in condizioni reali. La domanda in questo caso sarebbe: ma se con qualche riga di codice diversa si poteva fare inquinare la macchina di meno perché non farlo anche prima? La spiegazione alternativa sarebbe che, in effetti, il gigantesco richiamo serva solo ad allineare i dati che la macchina produce in laboratorio con quelli che si ottengono su strada, tanto, mi pare di capire, nessuno si metterà a rivedere l’omologazione di milioni di vetture nel mondo. Per quanto mi sforzi non riesco a vedere una terza possibilità. Quello che riesco a vedere benissimo è che, se stanno così le cose, il richiamo non ha un valore tecnico, serve solo a rassicurare gli animi, quelli dei governi così come quelli dei clienti. Si parla di valori insomma, non di fatti.

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