Elvio Fachinelli. Su Freud

6 Giugno 2013

Elvio Fachinelli (1928-1989) riconosceva a Freud il merito indiscusso di avere aperto il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali, una “nexologia” umana (da nexus, legame, intreccio). Adelphi - che di Fachinelli aveva edito gran parte degli scritti – ne ha ora raccolto in Su Freud alcuni saggi dispersi: si va da una nitida presentazione del fondatore della psicanalisi per “I Protagonisti della Storia universale” nel ’66, a riletture di temi freudiani (la caducità e Rilke, il senso della gratitudine e la fobia del dono) apparse su “il manifesto” nell’anno della morte. Sono scritti che confermano la radicale libertà di giudizio con cui Fachinelli si confrontò con il “maestro”, di cui tradusse e curò molti scritti, ma di cui mise in evidenza anche chiusure e cecità. Già nel ’69 egli prendeva le distanze da una psicanalisi “della risposta”: prima ancora della domanda viene l’ascolto ed è dal concreto della pratica clinica, dal colloquio sempre singolare fra due persone, che emerge la verità. La psicanalisi, rileva lo scritto del ’66, è in tal senso l’esito di un percorso di liberazione dai valori culturali e dai criteri scientifici che Freud aveva recepito nel suo noviziato di fisiologo ed anatomista. Ma nel “chiaroscuro freudiano” non sarà del tutto scalfita la corazza materialista ed antivitalista tardo-ottocentesca, che impone la ricerca di forze fisiche come uniche cause dei fenomeni, nella speranza della conquista della verità come oggettività impersonale.

 

 

L’ultimo saggio raccolto in Su Freud, “Imprevisto e sorpresa in analisi”, è un invito ad “accogliere” le novità che emergono dalle parole dell’altro nella conversazione, soprattutto quando faticano a rinchiudersi nelle maglie dell’ortodossia. In ciò agivano le suggestioni dell’antipsichiatria, di Lacan e dei francofortesi (Benjamin e Adorno), ma anche la riflessione sulle pratiche anti-autoritarie nella scuola: era questo il tema di “L’erba voglio” (Einaudi, 1971), a cui Fachinelli collaborò, ed “Erba voglio” sarà il nome della rivista e della casa editrice da lui fondate e animate. Proprio la “sorpresa” dell’incontro con un paziente, nevrotico ossessivo, che scandisce le sue giornate con gesti e cerimoniali ripetuti, era all’origine di La freccia ferma (1979). Questo “novello Zenone”, per evitare di commettere peccato, annulla il tempo nel tentativo di rinnegare la morte: il suo agire si rivela analogo alle pratiche con cui le società arcaiche elaborano il lutto, ed alle ritualità del fascismo di fronte alla morte della patria. In questi tre casi di creazioni fobiche si ritrova quella coesistenza di orrore e fascinazione, di terrore ed annullamento di fronte ad un’autorità, che compongono le tessere “perturbanti” del sacro. Ed è sempre attorno alla “cellula genetica” costituita dal “filo del tempo” che si muoveva Claustrofilia (1983): l’orologio di Freud, che cronometra la seduta come il lavoro di una fabbrica taylorista, stride con il tempo del trattamento analitico che sempre più si rivela “interminabile”. Freud pensava di aver portato la peste, una malattia rapida e violenta, invece aveva portato la lebbra, una malattia della lentezza. A prolungare la cura sarebbe, ipotizza Fachinelli, l’emergere, nel gioco di transfert e contro-transfert della situazione analitica, dell’area claustrofilica: il rapporto con l’analista si trasforma in rifugio, in uno spazio-tempo chiuso ed immobile, dove rinasce la co-identità,  che precede la nascita, tra madre e figlio. Si tratta di un livello analitico che aveva attratto Ronald Laing, scomparso anch’egli nell’89, e a cui Freud non aveva prestato attenzione, a causa del pregiudizio del suo tempo che non vi fosse vita psichica nel feto. Nella situazione perinatale, la comunicazione avviene in forme non verbali e Fachinelli ipotizza che intensi desideri inconsci possano trasmettersi attraverso il sogno. Ecco aprirsi allora un campo di situazioni imbarazzanti per la razionalità, quei fenomeni parapsicologici (come la possibilità che una paziente preveda nel sogno quanto capiterà in seguito all’analista) che già avevano suscitato l’attenzione turbata di Freud, suggestionato dalla telepatia e dalla chiaroveggenza. Spetta allo psicanalista fare uscire dal tempo chiuso dell’unità simbiotica, squarciare il velo della condizione claustrofilica per consentire al paziente l’accesso al multiversum delle esperienze esistenziali: egli assume così la parte ingrata che gli antichi assegnavano alle Parche, dee del destino perché in origine dee della nascita.  

 

 

Le pagine iniziali de La mente estatica (1989) ribadivano le critiche nei confronti dell’atteggiamento difensivo, “militaresco”, della psicanalisi. Per essa,  l’Io è una cittadella assediata da impulsi e desideri da cui difendersi, in obbedienza al progetto di prosciugare l’inconscio come la civiltà ha prosciugato lo Zuiderzee. Ma ad una ragione “narcisistica ed imperialista”, che privilegia l’esigenza di protezione e controllo, Fachinelli opponeva altri modi di “abitare” il mondo, un allentamento della vigilanza che consenta alla ragione di “accogliere”, di rendersi disponibile alla logica del fantasticare e all’esperienza liminare dell’estatico. Si svela qui una ricchezza della cultura umana che consente di recuperare, senza ricorrere al religioso, il senso del mistico e del sacro; ed anche dell’estetico, su cui tornano in più occasioni le pagine di Su Freud. Ma il mondo freudiano, sorto dal contatto con situazioni umane impoverite, caratterizzate da inibizioni e scacchi vitali, resta vincolato a quel che per Fachinelli è un “limite antropologico”: l’opacità dell’infanzia fa pesare sulla cultura un nieztschiano sospetto d’origine – come attesta la difficoltà teorica del concetto di sublimazione – e lo sguardo di Freud resta segnato dal distacco di chi analizza dal sottosuolo  l’edificarsi della civiltà.

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