Thomas Kuhn e la pluralità dei mondi
Troppo spesso la scienza dimentica il proprio passato. E la questione – spiegava Thomas Kuhn (1922-1996) nella Struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962, Einaudi, 1969) – ha profonde implicazioni, anche didattiche: cancellandone l’intricata dinamica evolutiva, come accade nella dogmatica dei manuali scolastici, si dà della scienza l’immagine di un saldo serbatoio di verità indiscutibili. In quegli anni Sessanta si avvia la demolizione del progetto “fondazionale” dell’epistemologia, della ricerca di una giustificazione ultima, empirica o razionale, della validità della scienza. La solida base che potesse agire da indubitabile tribunale comincia ad apparire instabile allo sguardo di chi si addentra nella storia della scienza. Insieme a Kuhn, Hanson, Toulmin, il Feyerabend di Contro il metodo (1975, Feltrinelli, 1979), scuotono i presupposti stessi su cui convergevano il neopositivismo viennese e il falsificazionismo di Popper: l’affidabilità di un metodo scientifico unitario, la preminente attenzione al contesto della giustificazione rispetto al contesto della scoperta, la distinzione fra asserti teorici e osservativi, l’esistenza stessa di un criterio di demarcazione fra scienza e non-scienza.
“Fisico divenuto storico per motivi filosofici” (così si definiva), Kuhn si dedica negli anni Cinquanta all’analisi di Case Studies connessi alla comparsa di nuove teorie scientifiche. Il caso esemplare dell’abbandono del geocentrismo aristotelico-tolemaico sarà argomento del suo primo libro, La rivoluzione copernicana (1957, Einaudi, 1972): un testo che guarda alla storia della scienza dalla prospettiva di una più generale storia delle idee sulla scia di Alexandre Koyré. In più occasioni, Kuhn rievoca lo sconcerto che gli provocò la lettura, nel ’47, delle pagine della Fisica di Aristotele: come è possibile che un filosofo geniale sia caduto in errori madornali, in assurdità accolte per secoli come verità indiscusse? Quel ricordo torna in L’incommensurabilità nella scienza. Ultimi scritti (Cortina, 2024); il volume raccoglie, oltre ai saggi “La conoscenza scientifica come prodotto storico” (1981) e “La presenza della scienza nel passato” (1987), le bozze – riviste dalla curatrice Bojana Mladenovic, con l’aiuto della figlia di Kuhn – del libro a cui lo storico statunitense stava lavorando nei suoi ultimi anni e a cui aveva dato il titolo provvisorio La pluralità dei mondi. Una teoria evoluzionistica dello sviluppo scientifico. Per comprendere la meccanica di Aristotele lo storico deve compiere un “riordinamento gestaltico” e fare proprio lo sguardo del pensatore greco: quando pensa al moto, Aristotele si riferisce non solo allo spostamento di posizione, ma a qualsiasi mutamento, il passaggio dal caldo al freddo, dalla malattia alla salute o la maturazione di un seme. Il mutamento implica una modifica delle qualità, che non possono esistere separatamente dalla materia: di qui la tesi che, dovendo esserci materia ovunque ci sia un corpo, vada esclusa l’esistenza del vuoto.
Nella preziosa post-fazione all’Incommensurabilità, Stefano Gattei ricorda che Kuhn s’iscrive in una tradizione anti-Whig, è un critico della storiografia liberal che guarda al passato come momento dell’inesorabile progressione che deve condurre alla verità di oggi. Rifiutando una concezione cumulativa del procedere della scienza, quasi fosse un flusso lineare da antichi precursori a futuri eredi, la Struttura offriva l’immagine di un territorio percorso da fratture, da discontinuità (come aveva già sostenuto Gaston Bachelard) segnate da mutamenti di paradigma: le rivoluzioni obbligano a guardare il mondo in modo diverso, si vede un’anatra dove prima si vedeva un coniglio. Le formulazioni della Struttura, riconoscerà lo stesso Kuhn, erano in qualche caso fuorvianti ed equivoche, a partire dalla nozione stessa di “paradigma”, termine che ha avuto larga diffusione, una parola magica dalle molteplici accezioni. Una linguista allieva di Wittgenstein, Margaret Masterman, ne ha contate almeno ventuno, da meta-fisica visione del mondo a quadro teorico, da modello di riferimento a insieme di pratiche, ecc…. Il saggio della Masterman si trova in Critica e crescita della conoscenza (a cura di Imre Lakatos e Alain Musgrave), atti del Colloquio di filosofia della scienza tenutosi a Londra nel 1965; la traduzione italiana e l’introduzione (Feltrinelli, 1976) si devono al compianto Giulio Giorello. L’opera successiva di Kuhn – a partire dal Poscritto del ’69 alla seconda edizione della Struttura e dal saggio La tensione essenziale (che dà il titolo alla raccolta omonima del 1977, Einaudi, 1985) – assegna al paradigma la funzione di quadro di riferimento condiviso dai ricercatori nelle fasi di scienza normale, ad esempio l’impianto meccanicista di matrice galileiana-newtoniana dominante nella scienza moderna. Nella comunità scientifica agisce la fedeltà a procedure di metodo, a strumenti matematici e sperimentali, ai quali è affidato il compito di risolvere i rompicapo (puzzles) che sorgono entro i confini posti dal paradigma stesso. In una fase di scienza normale, i “fatti” che appaiono evidenti e su cui il paradigma “fonda” la sua validità oggettiva, si risolvono per Kuhn, attento alla scienza come pratica comunitaria, nell’insieme delle credenze condivise dai membri della “tribù”: i criteri di giudizio sono quelli acquisiti all’interno del quadro teorico e delle pratiche in cui lo scienziato si è formato. Una scienza matura ha bisogno di convinzioni dogmatiche: per scoprire le anomalie che intaccano un paradigma (La Struttura proponeva l’esempio dell’ossigeno al tempo di Lavoisier o la scoperta dei raggi X), occorre un addestramento rigoroso alle procedure condivise nell’ambito della ricerca. Solo in virtù di un pensiero “convergente” rispetto al paradigma in vigore diventa possibile sviluppare un pensiero “divergente”, quello flessibile e critico che guida la spregiudicata ricerca della verità (è al rapporto fra i due momenti che allude il titolo la tensione essenziale). Il necessario preliminare alla rivoluzione nella scienza è il dogmatico rispetto delle norme accolte nella comunità degli studiosi: “Lo scienziato produttivo, per essere un innovatore, […] deve essere un tradizionalista cui piace giocare complicati giochi secondo regole prestabilite”. Le discontinuità che spezzano il cammino delle scienze sorgono soltanto sullo sfondo di una tradizione di ricerca consolidata; come nel lessico della teoria delle catastrofi di Réné Thom, è la stabilità strutturale a preparare il terreno della morfogenesi.
Commentando le bozze della Struttura delle rivoluzioni scientifiche, Paul Feyerabend, che non aveva ancora ripudiato il suo maestro Popper, accusava Kuhn, con implicite risonanze politiche, di essere non il teorico delle rivoluzioni, ma il sostenitore della “scienza normale” (si veda Dogma contro critica. Mondi possibili nella storia della scienza, Cortina, 2000, a cura di Stefano Gattei). Entrambi gli epistemologi concordano comunque sulla tesi dell’incommensurabilità: dato che non esiste una base osservativa trans-teorica, nemmeno esiste un terreno “oggettivo” che possa fungere da confronto, da unità di “misura comune” fra teorie concorrenti. L’avvento di un nuovo paradigma non cambia soltanto il modo di osservare e pensare, cambia la realtà stessa; passando dall’universo tolemaico a quello copernicano, il Sole da pianeta si trasforma in stella, la Luna da pianeta a satellite. “Sebbene il mondo non cambi per un mutamento di paradigma, lo scienziato si trova poi a lavorare in un mondo differente” (Struttura). Mentre Kuhn tenderà a restringere la portata dell’incommensurabilità, limitandola all’indagine dello storico, l’anarchismo di Feyerabend ne trarrà le implicazioni più radicali, fino a rimettere in discussione la fede “ingenua” nella scienza come incarnazione della verità. Non esistendo criteri “razionali” per giudicare una teoria migliore di un’altra, un gruppo di pressione, un brain trust fornito di adeguate risorse finanziarie, potrebbe ristabilire l’autorità del pensiero di Aristotele.

L’incommensurabilità finiva così per apparire un cedimento al relativismo e una pericolosa caduta nell’irrazionalismo. Nel 1994, un anno prima della morte, Popper raccolse una serie di suoi saggi sotto il titolo Il mito della cornice (Il Mulino, 1995); all’epistemologo delle “congetture e confutazioni” l’idea che non fosse possibile un confronto critico fra teorie e culture appariva un “mito immorale”, una rinuncia all’atteggiamento etico-politico che è all’origine della civiltà occidentale. Solo la razionalità del dialogo libero e critico di matrice socratica consente di liberarci dalle prigioni intellettuali e di uscire dalla caverna dei nostri idola: diventando consapevoli dei reciproci pre-giudizi e riconoscendo gli errori, possiamo intraprendere il percorso che conduce alla convinzione reciproca, al vincere insieme, e approssimarci a una verità mai definitiva. Hilary Putnam in Mente, linguaggio e realtà (1975, Adelphi, 1987) sosteneva che l’incommensurabilità si scontra con la “convergenza” scientifica, con il fatto cioè che una teoria possa fornire una spiegazione approssimata di un fenomeno del quale una teoria successiva fornirà una spiegazione migliore. “Il realismo è l’unica filosofia che non trasforma il successo della scienza in un miracolo”; nell’anima pragmatista di Putnam, le idee sono anche una guida per l’azione, la loro correttezza è misurata dalla capacità di promuovere un intervento efficace sulla realtà. Il mondo non cambia passando dalla dinamica newtoniana a quella relativistica, anche se la definizione di energia si è modificata; l’elettrone di Bohr si riferiva in modo approssimato allo stesso ente di cui parlano le più sofisticate teorie contemporanee e uno scienziato del Settecento capirebbe cosa si intende oggi con il termine elettricità. Esistono termini “trans-teorici”, che conservano il loro significato nel progredire della scienza: un significato spesso fissato in modo instabile, dalla tessitura aperta, sempre meglio definito nel succedersi delle teorie.
Anche Kuhn – lo attestano già i saggi raccolti in Dogma contro critica – compie il passaggio dal lessico della psicologia, predominante nella Struttura, a quello della linguistica, forse anche per la vicinanza a Noam Chomsky al Mit di Boston, dove Kuhn insegna dal 1979. Il mutamento di paradigma equivale alla trasformazione del “lessico strutturato” – secondo la formula adottata nella Pluralità dei mondi – condiviso all’interno della comunità scientifica, cioè delle modalità di classificare gli oggetti, della tassonomia che li distribuisce in tipi. L’apprendimento di un lessico fornisce un’ontologia, veicola la comprensione del mondo, in quanto consente di cogliere le relazioni, le somiglianze e le differenze che un termine intrattiene con gli altri. Riconoscere un esemplare di cigno come appartenente a un tipo equivale a saperlo distinguere da altri animali simili, senza dover necessariamente conoscere le caratteristiche proprie dei membri di quel tipo (come chiedeva la logica a partire da Aristotele). Dato che ogni lingua opera ripartizioni diverse dei tipi e degli oggetti, esiste una pluralità di mondi possibili che risultano parzialmente incommensurabili; ma questo non è un ostacolo insormontabile alla comunicazione e alla comprensione. Ispirandosi a studi di psicologia cognitiva, riguardanti in particolare lo sviluppo della percezione categoriale nell’infanzia, Kuhn sostiene che la struttura della mente umana ha basi neurologiche innate; gli uomini, in altri termini, condividono capacità flessibili per l’acquisizione di concetti, i loro cervelli sono pre-programmati per vedere il mondo ordinato in tipi. Quel che cambia con l’avvento di un nuovo paradigma sono le categorie tassonomiche che tracciano l’ontologia della comunità: la Terra, il Sole e la Luna entrano in nuove relazioni dopo Copernico, la caduta dei gravi entra in nuovi insiemi di fenomeni dopo Galileo. Se i paradigmi in quanto lessici strutturati forniscono i filtri, gli a priori fallibili della conoscenza (Kuhn si definiva “un kantiano con categorie mobili”), l’incommensurabilità non è più conseguenza dei modi diversi di percepire il mondo, ma dell’adozione di differenti vocabolari concettuali. In tal senso, Kuhn giudica opportuno, dopo la lettura di Parola e oggetto di Quine, sostituire “incommensurabilità” con “intraducibilità”.
L’assenza di un lessico comune assume rilevanza soprattutto nella prospettiva dello storico della scienza, poiché è solo a distanza che un mutamento di paradigma appare come una rottura radicale. Per gli attori del dibattito scientifico invece, i cambiamenti sono solo parziali e non tali da impedire la comunicazione; al fine di garantire una comprensione progressiva dell’avventura scientifica, è preferibile che la formazione dei ricercatori si affidi a una narrazione “presentista” che proietti sul passato i problemi dell’oggi. Gaston Bachelard (e dopo di lui Georges Canguilhem) teorizzava il carattere “ricorrente” della storia delle scienze: è il presente a illuminare il passato, è la conoscenza attuale a formulare il giudizio che consente di comprendere come la verità si sia aperta la strada varcando ostacoli e cumuli di errori. Ma per Kuhn non è corretto interpretare il passato sulla base della verità del presente perché i criteri per valutare le credenze sono pur sempre quelli condivisi da una comunità epistemica: il relativismo non implica la rinuncia a una verità “assoluta”, quanto l’impossibilità di esprimerla al di fuori del contesto di un paradigma. Kuhn ha sempre ritenuto problematica la teoria della verità come corrispondenza con la realtà e l’idea stessa che l’approssimazione ad essa (come in Popper e Bachelard) sia l’obiettivo della ricerca; lo storico deve limitarsi a indicare a partire da quali concezioni muove la ricerca e non dove si sta dirigendo. Per il “kantismo post-darwiniano” di Kuhn, la cosa in sé resta inconoscibile: il progresso non è un’evoluzione in cui, come voleva Popper, la competizione seleziona le ipotesi migliori. La prospettiva di Kuhn appare contemporanea della teoria degli equilibri punteggiati: sviluppo scientifico ed evoluzione biologica condividono lo stesso modello, periodi di stabilità interrotti da brusche rotture, secondo uno schema di ramificazione ad albero, dove l’aspetto rilevante non è il processo di mutazione, ma quello di speciazione. Gli episodi rivoluzionari sono associati a un incremento delle specializzazioni nella scienza, a una frammentazione che consente d’interpretare i fatti secondo una grana via via più fine, con il rischio però di rinchiudersi in nicchie sempre più isolate.
L’unico modo per lo storico di affrontare l’ostacolo dell’incommensurabilità è assumere un atteggiamento analogo a quello dell’etnografo: per comprendere credenze, abitudini e comportamenti di una popolazione estranea, il primo passo consiste nell’apprenderne la struttura lessicale. Solo diventando bilingui si può accedere al sistema con cui l’Altro ha reso “coerente” la realtà, cioè l’ha tenuta insieme, e le ha dato una struttura intelligibile. François Jullien, che del confronto fra la lingua/pensiero della Cina e quella dell’Occidente ha fatto tema di ampia riflessione, ha ricordato più volte che il dialogo può svolgersi soltanto nel tra aperto dal confronto: la traduzione deve essere la lingua del mondo per poter attivare le risorse delle diverse lingue-pensieri. In un libro recente, L’incommensurable (L’Observatoir, 2002), Jullien rileva che ogni incontro con l’altro, si tratti di una cultura, di un essere umano o di una lingua, implica forzatamente una dimensione incommensurabile. Già l’esperienza quotidiana dello sguardo dell’Altro suscita una vertigine che incrina la banalità ripetitiva del quotidiano, apre all’inaudito che sconvolge la normalità, va oltre la “comune misura” a cui vorremmo riportare ogni cosa. Siamo eredi del mito di un’unità culturale originaria a cui sarebbe seguita la diversificazione: la maledizione divina ha punito la presunzione umana facendo sorgere la proliferazione babelica delle lingue. Ma Babele è in realtà l’opportunità del pensiero, ricorda Jullien: la bio-diversità delle lingue e dei pensieri non è un ostacolo alla comprensione reciproca, è anzi la nostra grande risorsa, ci libera dalla prigionia di una verità particolare che si vorrebbe esclusiva.
