Emanuele Trevi. Qualcosa di scritto

18 Giugno 2012

Qualcosa di scritto è il titolo dell’Appunto 37 di quello stranissimo prodotto letterario che è Petrolio di Pier Paolo Pasolini, che insieme al film Salò e le 120 giornate di Sodoma costituisce l’ultima traccia tangibile dell’esistenza dello scrittore, una sorta di “indizio” che sembra offrirsi ai lettori come la pronunciazione sibillina di un oracolo.

 

Qualcosa di scritto è anche il titolo del romanzo di Emanuele Trevi (Ponte alle Grazie, pp. 224, 16,80 €), un testo singolare nel quale l’autore, sullo sfondo di una vicenda autobiografica tenta, proprio come un aruspice, di interpretare Petrolio come se si trovasse di fronte al cadavere di PPP, come se dall’analisi delle mutazioni del corpo dello scrittore, di cui l’opera è una sorta di resoconto trasposto, potesse tracciare la storia di un’iniziazione alla morte, e quindi alla vita.

 

La metafora dell’aruspicina non è azzardata: lo scritto di Trevi infatti sembra ruotare attorno a un’idea semplice e forte secondo la quale l’opera, se veramente punta a essere strumento di conoscenza profonda che “spinga sempre un po’ più oltre la possibilità dei singoli”, deve possedere qualcosa di corporeo e organico che porti in sé la traccia di una trasformazione materiale e irreversibile. Petrolio assomiglia dunque più a una performance di Body Art che alla narrazione di una storia, e Trevi si trova così a rilevare in esso le tracce e i resti di tale rito estremo.

 

L’operazione dell’autore è ambiziosa e efficace: egli accosta, capitolo per capitolo, un numero finito di immagini, su cui ritorna ricorsivamente lasciando al lettore il compito di rintracciarne le corrispondenze. Nella lettura, alle descrizioni della sua esperienza al Fondo Pasolini e della sua “terribile” direttrice Laura Betti, si intervallano commenti e riflessioni su Petrolio. L’andamento del romanzo non è lineare, al punto che è difficile parlare di narrazione: egli costruisce un testo a spirale nel quale, per stratificazioni successive, penetriamo sempre di più nei personaggi, sviluppando così di essi una conoscenza intima, una sorta di vicinanza e presenza, che non si dà mai sotto il segno della comprensione, ma dell’intuizione.

 

Ed ecco che i fili invisibili che legano queste immagini si rivelano: quello che Trevi vuole mostrare, rintracciando nel testo di Petrolio i riferimenti ad antiche pratiche misteriche, è come negli ultimi anni della sua esistenza Pasolini sia stato completamente impegnato in un tentativo, del tutto solitario e incomprensibile ai più, di iniziarsi alla morte e di avvicinarsi a questo mistero in modo totale. Egli ha messo in atto, nella vita come nelle proprie opere, gesti e rituali che gli permettessero di esporsi alla violenza di diventare altro da sé, di “esporre di sé ogni centimetro della propria carne” per farsi attraversare dalla vita e diventare completamente se stesso.

 

Mostrandoci queste analogie l’autore ci parla anche della propria iniziazione, della propria “visione” suggerita dalla scrittura di questo romanzo, che se inizia con un timido accostarsi alla vita di Pasolini e della sua fedele amica Laura, poi sprofonda nelle loro esistenze, e si interroga sulla loro particolarissima forma, che non può che indicare la strada per una radicale trasformazione. L’impressione che resta, dopo tutto questo vorticare di vite, opere e racconti è che Trevi, in risonanza con Laura Betti e il fantasma di Pier Paolo che abitava in lei, abbia compreso qualcosa “che attraversa l’anima come un lampo” e quindi lo abbia scritto in modo semplice e essenziale, ma al contempo indiretto e allusivo, proprio come i contenuti dei misteri di Eleusi.

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