Pasolini: un teatro scomodo

2 Novembre 2025

Non ho mai amato il teatro di Pasolini, e quando ho capito perché, ho iniziato ad amarlo. Lo amo oggi nella sua primordiale ingenuità, nella sua arcaicità solenne, nella sua scomodità, che è la stessa per cui forse Pasolini voleva essere amato come uomo, oltre che come artista, e che ha espresso in tutta la sua produzione letteraria. La sua avversione per l’intellettualismo borghese era quella di uno che si è formato come intellettuale e che la società ha poi deformato in borghese; da borghese l’ha trattato e osannato, e da borghese l’ha ucciso e santificato. Anche per questo Pasolini giocava masochisticamente a farsi a pezzi da solo, insopportabile a se stesso in quella sua ambiguità di classe. Lui, che viveva a Monteverde e frequentava le borgate. Lui, intellettuale di sinistra inviso al PCI – per cui era un deviato non solo sessuale, ma anche ideologico – e allo stesso tempo naturalmente insopportabile per la DC, più che per il suo orientamento politico, per il suo ingombrante interesse nei confronti della religione. Un amore ben diverso dal feticismo democristiano: la religione del suo tempo non era certo la religione ufficiale, ortodossa e conciliare, ma una religione nel senso antico, legata semmai al culto popolare. Pasolini ha vissuto nella carne le contraddizioni della sua epoca; tempi alla fine dei tempi, in cui a sparire era tutta una cultura fatta di credenze, usi, costumi e soprattutto lingue, dialetti, modi e comportamenti. La produzione pasoliniana è stata un estremo, tragico tentativo di resistenza a questa sparizione. Estremo e tragico perché sapeva, Pasolini, che sarebbe stato un tentativo vano. 

 

Il teatro interessava a Pasolini forse proprio perché era già una causa persa. Come la poesia, era una cosa per pochi; ma, proprio in quanto “per pochi”, si presentava come adatto a sviluppare un dialogo vero, intimo, in cui avrebbero più facilmente potuto trovare spazio la critica e il dibattito; in aperta opposizione al modus operandi della comunicazione di massa, incarnata in quegli anni dalla televisione. Poesia orale: da qui doveva partire la rivoluzione. Nel suo Manifesto per un nuovo teatro, del 1968, Pasolini propugna un teatro di parola, una terza via fra il teatro tradizionale, borghese e accademico, e il teatro di avanguardia. Un teatro troppo alieno al gusto popolare; e che, nella sua rivolta antiborghese, non faceva altro che confortare la borghesia offrendole l’illusione di essere capace di rivolta. La tesi era che sia il teatro tradizionale, sia quello di “gesto e urlo”, peccassero di artificialità: il primo, nel suo affannoso tentativo di imitazione del quotidiano; il secondo, nel suo quotidiano affanno per staccarsene il più possibile. Certo, anche la poesia presenta un linguaggio artificiale; ma lo presenta, come ogni poesia, in modo esplicito e cosciente – così Pasolini pensava di risolvere l’impasse. Pasolini comincia a scrivere le sue tragedie nella primavera del 1966; nell’ordine sono Orgia, Bestia da stile, Pilade, Affabulazione; poi, l’anno seguente, Porcile e Calderón.

Ne venne fuori, paradossalmente, quello che pareva un teatro aristocratico ed elitario, pieno di lirismo ma anche di discorsi ideologici gettati in faccia al pubblico senza mezzi termini – e con poca ironia, va detto. Una drammaturgia ermetica (lui che i poeti ermetici non li amava), tutta da decifrare; complessa, troppo complessa anche per i critici, che non gliel’hanno mai perdonato – cosa che lui, a sua volta, non perdonò mai ai critici, che avrebbero dovuto, almeno loro, capire. Un teatro per pochi ideali spettatori e spettatrici, troppo pochi, troppo colti. In questo Pasolini fu esplicito: il suo teatro era destinato a quei «gruppi avanzati della borghesia, [che] sono in tutto pari all’autore dei testi». Era proprio in questa parità, che l’autore vedeva la possibilità di un dialogo e un esercizio comune della critica. A chi lo accusava di aver scaricato il popolo, Pasolini rispondeva a colpi di lettere, articoli e proclami pubblici, sostenendo che il suo fosse il solo teatro veramente democratico, l’unico che si poteva rifare direttamente al teatro della tragedia attica e alla sua funzione nella polis ateniese. Teatro per «persone con la passione per la cultura»; una passione che richiede uno sforzo, perché l’ascolto della parola è complesso – ma è proprio questo sforzo e questa complessità a fare la differenza, e a differenziare la sua produzione culturale da quella della cultura di massa, che produce invece ciò che il popolo vuole sentire, vedere, leggere, e che è quindi solo superficialmente “democratica”. Anzi, proprio perché appare innocua, semplice e vicina al popolo, la cultura di massa è pericolosissima, perché diventa immediatamente cultura del consumo. Al contrario, il teatro di parola, nella sua scomodità, sarebbe totalmente anticonsumistico: il teatro non è riproducibile a discrezione del consumatore (come, per l’appunto, un prodotto culturale massificato); è solo ripetibile, come un rito che si dà nel qui e ora dell’evento, in un luogo deputato e con la presenza fisica di attori, attrici e pubblico. In linea teorica, il discorso non fa una piega; il problema era semplicemente che la società italiana era già diventata una società del consumo, e da lì era difficile tornare indietro. L’utopia di Pasolini – che gli deriva probabilmente dall’aver letto e compreso (quasi nessuno meglio di lui) Antonio Gramsci – era che il popolo fosse già preparato o ancora disposto alla passione per la cultura. Pochi capirono il suo teatro, pochissimi lo amarono, ancor meno tra il grande pubblico, a cui non arrivò mai veramente. Al massimo qualcuno ne fu incuriosito. 

Pilade – regia Luca Ronconi (1993) – ph Marcello Norberth
Pilade, regia Luca Ronconi (1993),  ph Marcello Norberth

Chi riuscì veramente a coglierne tutto il potenziale fu, vent’anni dopo, Luca Ronconi. In una bella intervista a Walter Siti, pubblicata nell’edizione dei Meridiani, il regista sosteneva che il teatro di Pasolini fosse in qualche misura provvisorio, una scrittura in progress, in cui l’autore segue il suo istinto. In effetti si intravede il lucido disegno alla base, ma non un’altrettanta lucida strategia drammaturgica che intessa i fili di una storia, i profili dei personaggi, le loro relazioni, le loro azioni. A Ronconi interessava però questo: Pasolini gli andava benissimo proprio perché aveva una conoscenza scarna della drammaturgia – mentre Ronconi è stato probabilmente il più grande Dramaturg che abbiamo avuto in Italia. Era uno che amava trattare i testi come materiale e che si trovava a suo agio con l’autorialità non teatrale; così aveva trovato in quei drammi così poco drammatici, in quelle drammaturgie così imperfette, un ottimo spunto: essendo sostanzialmente poesia e discorso filosofico-politico, quei testi lasciavano una libertà enorme alla messa in scena. Ma Ronconi aveva anche scoperto in quelle parole così poetiche un meraviglioso humus linguistico, fonetico, carnale. La lingua pasoliniana era già predisposta a mettere in crisi il modello di recitazione italiano canonico: «tutto ciò richiede la fondazione di una vera e propria scuola di rieducazione linguistica che ponga le basi di [...] una recitazione il cui oggetto diretto non sia la lingua, ma il significato delle parole e il senso dell’opera. Uno sforzo totale, insieme di acume critico e di sincerità, che comporta una revisione completa dell’idea di sé che ha l’attore». Rileggendo questo punto XXXI del Manifesto, non possiamo non pensare che chi l’ha veramente applicato in Italia è stato proprio Ronconi. La lingua, in Pasolini, è un’entità autonoma, che non appartiene ai personaggi, in fondo privi di profondità psicologica. L’autore si serve cinicamente di quelle figure, meglio quando attinte dal mito, a cui attribuisce semplicemente un nome e tuttalpiù un’età; le tratta come funzioni della sua parola, che è solo sua, e da lui deve arrivare diretta al pubblico. E infatti, a ben vedere, queste figure sono in realtà tutte borghesi che parlano in poesia – cioè, sono tutte Pasolini. Un teatro privato, insomma; come lo è stata d’altra parte tutta la sua produzione artistica, così eroticamente autobiografica e autoreferenziale.

 

Le intenzioni erano buone, ma poteva funzionare questo teatro di parola in teatro? Nella letteratura il rapporto autore – lettore / lettrice è diretto, immediato. E anche nel cinema, in fondo, Pasolini poteva orientare facilmente lo sguardo sui suoi attori e attrici imponendo la sua voce, che era lo sguardo della camera da presa. Lì i suoi attori e attrici diventavano stupende statue, volti scolpiti dalla storia: icone parlanti. In teatro, invece, erano corpi. E quel corpo che lui voleva libero da qualsiasi significazione, in teatro di significazione si riempie, non può non farsi segno; una cosa con cui il Pasolini regista teatrale non aveva dimestichezza, né si trovava a suo agio. Cercava di liberare la parola dall’azione, perché considerava l’azione un segno ormai monopolizzato dal cinema, dalla televisione e dal teatro gestuale. «Venite ad assistere alle rappresentazioni del teatro di parola con l’idea più di ascoltare che di vedere», sostiene sempre nel Manifesto. Così, però, privato dell’azione scenica, il teatro si afflosciava. Pensava di minare in questo modo le basi del teatro borghese, ma a onor del vero negli anni ‘60 il teatro borghese era già logoro, attaccato da più parti e superato in varie direzioni. La sua riforma arrivava tardi, il suo manifesto era stato da anni non solo già formulato, ma anche già attuato. E nel 1966 Peter Handke, con Insulti al pubblico, aveva già realizzato il sogno proibito di attaccare il perbenismo borghese nei suoi fortini più sicuri – perché in quegli anni forse i cinema erano già periferici e proletari, ma le sale di teatro mica tanto. Insomma, Pasolini andava per tentativi, a passi ragionati ma lenti, esplorava territori sconosciuti per lui ma non per l’avanguardia, che era già molto più avanti. Bisogna riconoscergli che pochi però, in Italia, l’avanguardia la facevano, come lui, dalla macchina da scrivere. Il movimento teatrale si stava rivoluzionando molto più radicalmente a partire dalla regia e dalla recitazione; così lui era un po’, anche in questo, una rara avis; difficile trovare un suo pari, nel panorama nazionale. Eduardo era troppo legato alla sua tradizione per essere veramente “italiano”; Dario Fo era un attore, animale da palco, così come lo era – anche se di segno opposto – Carmelo Bene. Forse l’unica figura che gli può essere accostata, se non altro per la potenza dello sperimentalismo linguistico (in entrambi eredità di Gadda) è quella di Giovanni Testori, che infatti lo sostituì al “Corriere della Sera” dopo la sua morte, andando a riempire gli spazi lasciati da quei mirabolanti articoli che ritroviamo oggi negli Scritti corsari. Insomma, gli va riconosciuta, questa sì, la sincera buona volontà di rifondare la tradizione drammaturgica; il problema è che in Italia una vera tradizione drammaturgica non esisteva; almeno non quanto quella letteraria, poetica, saggistica o cinematografica. In questa lotta, Pasolini si ritrovò solo con se stesso, e in un territorio a lui sconosciuto. Forse non fu un buon regista, non fu un buon teorico del teatro e nemmeno un buon drammaturgo. Eppure, ancora una volta, da questa rudezza, da questa rozzezza, è venuto fuori qualcosa di primordiale, di universale, di mitico, che in fondo era proprio quello che l’autore cercava. Insomma, per ottenere i risultati sperati in teatro, Pasolini non poteva e non doveva assolutamente educarsi al teatro. Doveva restare un drammaturgo di strada, di vita, come i suoi ragazzi. Quello del teatro fu un tentativo fallimentare, ma non fallito. Ora che è sparita brutalmente non solo quell’Italia, ma anche quel Pasolini, di Pasolini ci rimangono le opere, difficili da leggere, difficili da mettere in scena. Scomode, come il loro autore.

 

* Il testo è tratto da Pasolini: un teatre incòmode, prologo all’edizione catalana di Pílade, Afabulació, Calderón (Barcellona, Prometeu Edicions, 2025)

 

Da quest’anno tutte le donazioni a favore di doppiozero sono deducibili o detraibili. SOSTIENI DOPPIOZERO (e clicca qui per saperne di più).
Pasoli al Teatro Gobetti Per Orgia. 1968/69. Teatro Stabile di Torino